mercoledì 28 marzo 2012

Rumori

Mi sveglio da un lungo sonno, non saprei quanto ho dormito. C’è un buon profumo qua dentro, di pulito, e soprattutto un tepore piacevolissimo. Non riesco a ricordarmi niente, non so perché. C’è buio, ma non ho paura, sto bene. Riesco anche a muovermi ma non ne ho il desiderio.
Sento vicino a me un rumore sordo, un battito direi, come di una pendola che prima del secondo rintocco si arresta per un attimo. Anche se è continuo non mi disturba affatto, mi tiene compagnia. Sento di non poterne fare a meno.
Dopo un certo tempo che sono sveglio il battito inizia a rallentare e il rumore di fondo che l’accompagna, rumore di liquido che scorre dentro i tubi, si fa più leggero. Riesco anche quasi a sdraiarmi. Non sono più sballottato e vengo lasciato tranquillo. Tutto intorno a me si affievolisce e posso addormentarmi.
Dopo un lasso di tempo, anche questo non saprei dire quanto lungo, vengo risvegliato dal battito e dal flusso che diventano sempre più intensi. Ritorno nella posizione solita, seduto e un po’ schiacciato verso il basso.
Incomincio a sentire in lontananza, ma ben chiara, una cosa che mi lascia sorpreso, ma non posso stare a bocca aperta. E’ un suono che non conosco ancora ma so che mi appartiene. E’ emesso fuori ma a me viene dal di dentro.
Sento queste parole: “….Cchiù luntana me staie, cchiù vicina te sento, chi sa a chisto momento, tu che pienze, che ffaie”, che non so cosa vogliano dire, ma sono avvolte da un suono bellissimo. Queste parole e questo suono mi penetrano dentro e mi fanno succedere una cosa strana: mi si allagano gli occhi e mi sento contento e triste allo stesso tempo.
Improvvisamente incomincio a ballonzolare senza freno. Questo non mi piace.
Su e giù, su e giù. L’unica cosa piacevole è che da sopra di me entra una bella arietta fresca. Non che qui ci sia caldo ma un po’ di arietta mi fa proprio piacere. E quindi mi adatto a sopportare lo sballottamento, anche perché dopo un po’ non ci faccio più caso, diventa persino divertente. Meno male però che c’è una pausa.
Ritorno sdraiato e sento qualcosa che mi vuole toccare: per fortuna che qui dove mi trovo sono piuttosto ben protetto. Provano a schiacciarmi, anche da due lati, e mi difendo come posso, dando dei bei calci a destra e a manca. Riescono a stancarmi, non capisco cosa vogliano da me. Finalmente finisce questa tortura.
Tutto si calma.
Ritorno seduto. E attento a quello che mi succede intorno. Proprio perché sono al buio i rumori mi interessano tutti, e questo liquido caldo che mi protegge me li amplifica. Sento infatti un rumore lontano, simile nella natura a quello che posso fare io quando mi muovo, un rumore che va e viene, che distinguo bene da tutti gli altri di questa mia casa.
E di nuovo la voce, che ormai ben conosco, che dice:
“Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio…”. E si ferma.
E tutto anche qui dentro sembra fermarsi, e il battito antico diventa più regolare, e quell’acqua che va e che viene diventa il ritmo della mia vita. Sto così bene in questo momento che vorrei fermare il tempo. Solo quest’onda e questo silenzio intorno.
Non so ancora cosa sono ma riesco a stare molto bene. E mi addormento, finalmente.


mercoledì 21 marzo 2012

La signorina Matilde

Mio padre mi ha dato un aut aut. Non era neanche troppo arrabbiato, deluso piuttosto. “E’ la terza scuola che cambi”, mi ha detto, “e mi sono fatto convinto che la scuola non faccia per te. D’ora in avanti dovrai lavorare”.
Tutto per quello scherzo alla professoressa di stenografia. Abbiamo riso una mattina intera, io e Franco. Il preside non ha avuto alcuna difficoltà ad individuarmi, anche perché ero già un sorvegliato speciale.
Mio padre ha rincarato la dose: “Adesso ti metterai a cercare lavoro. Io non ho più intenzione di mantenerti. Il mio obbligo, bada bene fino a ventun’anni, è quello di darti un letto e un piatto di minestra. Da domani uscirai di casa alle otto e dovrai guadagnarti il pane col sudore della tua fronte. Chissà che non imparerai qualcosa”.
Non ho osato replicare, timoroso che incominciassero a volare gli schiaffi. Mia madre, dietro a lui, era spaventata e mi guardava con un’aria di impotenza che mi ha intristito. Povera donna.
Questa cosa che non dovrò più andare a scuola mi riempie di gioia. Che razza di ragioniere sarei diventato non lo so proprio, un ragioniere fallito in partenza. Domani me ne andrò a spasso con Franco.

Stamattina mi ha svegliato alle sette e mi ha messo fuori della porta alle otto. Mi ha anche detto che non gli interessa quello che faccio. Sono solo, in mezzo alla strada, devo aspettare le due, che Franco esca da scuola. Me ne andrò un po’ a spasso nei vicoli. Una delle cose che più mi piacciono è girare nei vicoli senza meta, fare il gioco del “primo vicolo a destra” e andare sempre avanti, fino a non sapere più dove mi trovo, e allora mi prende un senso di curiosità e di paura, perché nei vicoli c’è sempre buio, e cammino accelerando il passo fino a che non mi ritrovo in un posto conosciuto, magari riconosco un’edicola della Madonna che veglia su di un quadrivio. Sono belli i vicoli di Genova, e le persone che si incontrano sono tutte persone simpatiche, anche se non parlano il genovese come me ma una lingua diversa, che sembra una musica. C’è un omino in via della Maddalena che vende limoni tutto il giorno, e ripete ininterrottamente le parole “tutto sugo”, come fossero le avemarie del rosario, con un tono che mi suscita un riso irrefrenabile. Mi ha già tirato qualche limone sulla testa, perché mi mettevo davanti a lui a fargli le beffe.
Ci sono anche quelle che mia madre chiama “le donnacce”, che non sono brutte per niente, anzi. Qualcuna a volte mi grida “Uè, guagliò, vien’accà”, così mi sembra che dica. Ce ne sono alcune che sembra che abbiano la mia età ma hanno un’aria triste.
Con gli ultimi due centesimi mi compero un pezzo di focaccia e alla fontanella di Campetto bevo un po’ di acqua fresca.
Passo da quel vicoletto che porta su a San Matteo. A metà, sulla destra, una vetrina espone un cartello “cercasi personale”. Mia madre direbbe che mi ha guidato l’angelo custode. Facendo finta di niente cerco di capirci qualcosa. L’insegna del negozio recita “copisteria”. Boh, chissà cosa faranno. Dietro la vetrina c’è una tenda logora, che una volta era verdina ma adesso è grigia. Non è stata mai spolverata, immagino. La tenda però finisce prima della finestra, e c’è una fessura da cui riesco a vedere abbastanza bene l’interno. Ci sono due piccoli tavolini di legno, con una cassettiera a fianco, e su di essi c'è una macchina da scrivere. A uno di quei due tavolini sta seduta una vecchia, che scrive impettita a una velocità incredibile, scrive con tutte le dita. Ha i capelli grigi raccolti dietro in una treccia annodata su sé stessa. Anche lei è grigia come la tenda ma immagino che si spolveri. Penso a mio padre e decido di entrare. Tanto non mi costa niente.
“Buongiorno, avrei bisogno di lavorare. Posso sapere qualcosa di più?” Ho cercato di usare il tono più educato possibile, anche se mi presento con un'aria piuttosto da strada. “Quanti anni hai?” mi risponde la befana senza alzare gli occhi dal foglio. “Sedici”. “E perché non sei a scuola, a quest’ora del mattino?” “Perché mi hanno buttato fuori per sempre”. Devo avere fatto un certo colpo, perché si è fermata e mi ha osservato da sopra gli occhialini di acciaio. “Non sono adatto allo studio”, le faccio ancora, “e mio padre mi ha ordinato di cercarmi un lavoro”. Che poi è la verità. “Che scuola facevi?”. “La seconda ragioneria, al Tortelli”. “Hai mai scritto a macchina?” “Certamente, abbiamo in casa una macchina da scrivere, e quando non so cosa fare metto su un foglio e cerco di fare dei disegni….”.
La strega sorride sotto i baffi. Si vede che le sono simpatico: ho sempre fatto un certo effetto sulle donne.
“Quanto vorresti guadagnare?”. “Mah, non so, dieci lire al giorno direi”. Spalanca gli occhi come se avessi detto una bestemmia. “Qui le persone si pagano a pagina scritta. Sessanta battute per riga, e ogni foglio ha trenta righe. Le tue milleottocento battute verranno pagate dieci centesimi, sempre che non vi sia alcun errore. Altrimenti dovrai riscrivere il foglio. Ti può interessare?” Con un calcolo mentale capisco che per fare dieci lire dovrò scrivere cento fogli in una giornata. Ce la posso fare. Guadagnerei duecento lire al mese e dimostrerò a mio padre che non sono né stupido né incapace.
“Sì, mi interessa. Quando comincio?” “Subito” è stata la risposta. “Ti puoi sedere a quel tavolino”. Mi ha messo in mano una pila di fogli da copiare e mi ha indicato il cassetto dove erano i fogli da scrivere, quella velina giallastra che chiamano extra-strong, che mi fa ridere perché sembra un parolaccia.
Incomincio il mio primo lavoro, vorrei fare un brindisi.
“Scusi…”. “Io sono la signorina Matilde, puoi chiamarmi così”. “Scusi, signorina Matilde, avrei bisogno di andare in un posticino”. Con un cenno mi indica una porticina sul retro, che dà in un luogo di decenza veramente spaventoso. Cercherò di andarvi il meno possibile.
Torno e mi siedo. Non ci vedo molto bene, il vicolo è strettissimo e poca luce penetra dalla vetrina. “Posso accendere la luce?” “No, si accende dopo le quattro del pomeriggio”. Maledetta megera.
I fogli che devo copiare sono tanti, un pacco che sembra un libro. E sono scritti con una grafia minutissima, quasi illeggibile. Per fortuna a scuola mi chiamano occhio di lince, per la mira che ho per i passerotti sui rami quando gli tiro con la fionda. Sempre al primo colpo. Ma qui è diverso, ho un po’ di difficoltà.
Inserisco il foglio nella macchina. Che bella che è! Ha quel nastro colorato rossoblu, che sono i colori del mio Genoa, fra l’altro, e un sacco di tasti che non hanno il simbolo della lettera. Chissà a che cosa serviranno. Io a casa più che il tasto delle maiuscole non ho mai premuto. Ho come l’idea di essermi infilato in un ginepraio.
Cerco di scrivere la prima riga. Mi sento osservato. Me la ricordo ancora: “L’interesse per le varie forme di patologia della tiroide data almeno dai tempi di Plinio il Vecchio, lui stesso affetto da gozzo….”. Porca miseria, ho scritto “tioride”. Strappo il foglio e lo appallottolo, buttandolo nel cestino. Rimetto un altro foglio nel rullo e ricomincio. Adesso ho scritto plinio il vecchio. Vorrei piangere. Il fatto è che non capisco un parola di quello che scrivo. La signorina Matilde sicuramente starà ridendo alle mie spalle, e non lo sopporto.
Ho buttato decine di fogli, l’errore arrivava quando meno te l’aspettavi. Quando l’errore è arrivato alla ventottesima riga di una pagina veramente sudata ho gettato la spugna. Era passata l’una. La copisteria non fa per me. O forse il lavoro non fa per me.
“Signorina Matilde”, “dimmi”, “non credo di essere capace a fare questo lavoro: è troppo difficile”. “Hai ragione, è molto difficile e bisogna essere precisi e attenti. Oltre a conoscere bene come funziona la macchina da scrivere”.
“Non fa niente, puoi andare”. Mi sono rimesso la giacchetta. Mentre stavo uscendo mi ha chiamato e mi ha detto: “Solo un’ultima cosa. Oggi hai imparato qualcosa?” “Che il lavoro è molto peggio della scuola”, mi è venuto naturale di dirle.
Ha tirato fuori da un borsellino rosso una moneta da dieci centesimi e me l’ha porta. “Tieni, non è stata comunque una giornata persa. E le tue trenta righe le hai in qualche modo scritte”. La strega si è trasformata improvvisamente nella fata turchina. Volevo saltarle al collo: mi sono limitato, signorilmente, a stringerle la mano che mi porgeva. “Grazie, signorina Matilde”.


Internista giovane


Era semplicemente bastato un attimo. Quella paziente non sarebbe andata più via dal suo cuore.
Sergio era un giovane medico di recente assunzione in quel reparto di medicina interna: aveva fatto, e con onore, un curriculum che in undici anni esatti l’aveva portato a essere medico e specialista in medicina interna, e qualche diagnosi brillante, o forse fortunata, aveva anche dimostrato che possedeva un buon intuito clinico. In quel vecchio ospedale la medicina interna era diventata, come in tanti altri, la via finale comune di tutti quei pazienti che gli altri reparti, più moderni, non volevano, e anche di quei pazienti che per la pochezza dei loro sintomi, o per la manifesta difficoltà a raccontarli, non riuscivano ad essere utilmente indirizzati in altre specialità.
Sergio, anche se da poco assunto, non era contento di quel reparto ma non si sarebbe mai permesso di rifiutare un posto di lavoro “fisso”, come era stato il sogno del Padre. Il primario del reparto, che Sergio in cuor suo appellava “primariotto”, era un signore opaco che aveva perso, e da anni, ogni entusiasmo per l’esercizio della medicina, e si trascinava stancamente, giorno dopo giorno, in un’attività che lui per il primo considerava squallida routine, non trovandovi più alcun interesse, né umano né scientifico.
Il reparto di medicina interna in quel vecchio ospedale era costituito da alcune stanzette, taluna a due taluna a quattro letti, più un paio di stanze con un unico letto, riservate in genere a coloro che erano prossimi all’ultimo combattimento, più raramente a pochi raccomandati.
Quel pomeriggio di agosto Sergio, rientrato da qualche giorno di ferie, riprendeva l’attività con la controvisita del pomeriggio. Dopo alcuni pazienti, controllati come sempre con grande cura ma con patologie del tutto frequenti e diagnosi consolidate, e dopo aver fatto una prima visita a un giovane che le difficoltà della vita, e la sua poca tendenza a reagirvi, avevano portato già a un evidente ingrossamento del fegato, entrò nella stanzetta singola e la vide. L’infermiere che lo accompagnava gli avrebbe più tardi detto di come si era facilmente accorto che Sergio aveva mostrato un attimo di smarrimento.
Nella poltroncina a fianco del letto era seduta una donna non più giovanissima, di carnagione scura ma non olivastra, tutt’al più molto abbronzata, con capelli castani scuri a caschetto e lineamenti del viso regolari, forse con il naso lievemente arcuato. Ma gli occhi colpirono Sergio come una bastonata. Due occhi nerissimi e vivacissimi, contrastanti con l’insieme di tranquillità che emanava da quella persona. Due occhi che Sergio immaginò potessero nascondere una vita molto meno tranquilla di quello che sembrava, due occhi che Sergio avrebbe voluto avere subito a un centimetro dai suoi. Aveva indosso solo una camicia da notte rosa con le maniche corte, data la stagione, sotto cui Sergio immaginava un seno ancora giovanile e molto attraente, e non piccolo. La signora, Clara disse di chiamarsi, era ricoverata dal primo pomeriggio per cui Sergio doveva farle la prima visita. Ed era anche l’ultima paziente della sala, per cui avrebbe potuto prendersi tutto il tempo che voleva. A casa lo aspettava solo la madre, che ben sapeva che Sergio non aveva ora.
Incominciò quindi a chiedere le prime cose a Clara: come stanno i genitori, le malattie dell’infanzia, insomma le solite domande, e si rese subito conto che non la stava ascoltando, ma galoppava con le sue fantasie, anche se immaginava soltanto di poter essere fuori di lì e di tenerla per mano: Sergio era un inguaribile romantico. Si scusò quindi, le disse che si era distratto pensando a un altro paziente, e che fosse così gentile da ripetergli cosa aveva detto. Lei, con un impercettibile sorriso, annuì e ripeté ciò che aveva dianzi detto. Non era però una buona raccontatrice, forse per ritrosia forse perché non valorizzava dati clinicamente rilevanti, e Sergio, alla fine dell’anamnesi, brancolava ancora nel buio. Si augurò che l’esame obiettivo potesse dargli qualche lume. Le chiese, con la migliore gentilezza che aveva, se potesse spogliarsi per la visita. Ebbe quindi la possibilità di vederla solo con la lingerie e si accorse che Clara era ancora veramente molto piacente, e non aveva nulla da invidiare a certe cover girl che in copertina mostrano soltanto la loro anoressia. Clara aveva un bel corpo, molto femminile e con due gambe lunghe ma non ossute. Mentre andava avanti con la visita Sergio si domandava se Clara si fosse accorta che lo turbava, e proprio per questo cercava di essere il più formale e professionale possibile: ma non era facile, e negli occhi di Clara credette di leggere qualcosa.
Le bofonchiò qualcosa circa il suo disturbo, che pensava fosse riferibile a un colon irritabile e le prescrisse un’idonea dieta e un esame radiologico. La salutò nella maniera più formale possibile, e lei capì che era imbarazzato e timido.
Quella notte Sergio, nel suo lettone a una piazza e mezzo, non riuscì a prendere sonno, e si girava frenetico, e non si levava quegli occhi dalla testa. Avrebbe voluto tante cose, avrebbe voluto prenderle le mani nelle sue, avrebbe voluto portarla via da quello squallido posto, non sapeva neanche lui cosa avrebbe voluto, avrebbe voluto tenerla fra le sue braccia, forse e soltanto, e stringerla.
Arrivò la mattina dopo in ospedale che era uno straccio, se ne accorsero tutti, colleghi e infermieri. Durante il giro l’unico suo interesse era arrivare a quella stanza, e si mostrò distratto a tal punto che il primario non esitò a metterlo alla berlina: “Forse iersera si è dato alla pazza gioia, collega?”. Lo lasciò parlare, tanto ormai aveva nella testa solo una cosa.
Quando finalmente la rivide capirono entrambi di essersi pensati tutta la notte, e Sergio ne gioì in silenzio.
Aspettava con ansia il momento di poterle parlare: ma per dirle cosa, poi? Non aveva il coraggio non solo di dichiararsi, figuriamoci, ma neanche di scambiare due parole. E dire che durante l’anamnesi aveva cercato di scoprire che cosa potessero avere in comune, ed erano parecchie cose, prima fra tutte la cucina, di cui Sergio era un appassionato e riconosciuto cultore, e poi la musica dei loro tempi, i beatiful sixties.
Non ce la faceva. E la scusa per non provarci era anche buona, infatti Sergio pensava che non fosse “etico” intrattenere rapporti con i pazienti, e questo era, ed è, del tutto vero. Ma Clara no, non doveva e non poteva essere solo una paziente.
Lei dal canto suo rimase un poco delusa e indispettita, che quel ragazzo che le aveva fatto capire tante cose, non riuscisse neanche a dirle “come va?”. Dire che ci aveva fatto un pensiero sopra è forse troppo, ma certo le sarebbe piaciuto conoscerlo meglio. Le piaceva.
Il giorno dopo Clara firmava per dimettersi contro il parere dei sanitari e Sergio, arrivato nella cameretta con il cuore in gola, nel non vederla ebbe un tale capogiro che dovette immediatamente sedersi, altrimenti si sarebbe ammucchiato su di sé come un sacco vuoto, con gli occhi gonfi di tristezza.







sabato 10 marzo 2012

Finalmente c'era riuscito


Dopo qualche tentativo, più allusioni che altro, in cui domanda e risposta erano stati del tutto impacciati, aveva preso il coraggio a quattro mani, e le aveva scritto, col solito mezzo, invitandola a cena a casa sua.
In realtà non ci credeva più di tanto. Era con la testa sempre immersa in quel turbine con tanti volti di donne che giravano incessantemente, e sembravano dirgli “fermati! rifletti anche solo un attimo, ti stai consumando con le tue mani...”. Ma non c'era verso.
Quel gioco era diventato un gioco al massacro, progrediva come le biglie colorate di un biliardo inclinato da una mano invisibile, con velocità crescente e verso il vuoto, delle persone ma soprattutto dei sentimenti, la sua paura peggiore.
Ciò non toglie che l'invito era stato insperatamente accolto, e il dover preparare una cena, senza se e senza ma, era un'operazione da compiere, e con la precisione del chirurgo. Cosa sarebbe successo dopo, ancor meglio se durante la cena, era un problema in quel momento secondario.
La cena era in quel momento diventata l'emblema dell'amore, e doveva trasmettere, nei cibi, l'ansimare del desiderio.
Ovviamente non era così stupido da inventarsi una di quelle cene con i cosiddetti cibi afrodisiaci (aveva sempre sorriso pensando ai cibi “afro-asiatici”), che poi afrodisiaci non riescono a essere, non puoi mangiare cento ostriche.........
Avrebbe dovuto essere una piccola cena, ma non minimalista, in cui ogni più minuto particolare, dalla piega del tovagliolo all'etichetta del vino, doveva essere prima pensato e meditato, così come avrebbe dovuto dimostrare tutto il lavoro, del cuore prima che delle mani, che c'era stato dietro.
Sorse a quel punto la domanda solita: prima il mercato o prima il menù? Non era mai riuscito a risolvere questo dilemma e, quando organizzava i grandi pranzi, seguiva, più che l'istinto del momento, le necessità contingenti, in primis quella di conciliare l'uscita dal lavoro, mai alla stessa ora, con l'orario del mercato o di quei negozietti di cosine un po' sfiziose che erano diventati mèta di frequenti pellegrinaggi.
Dato che era venerdì sera decise che la spesa l'avrebbe fatta l'indomani mattina, con tutta calma, e, dopo il riposo pomeridiano, avrebbe dato inizio alle danze. Si applicò quindi a studiare il menù.

Più ci pensi e meno idee in testa ti vengono.
Hai la libreria piena di libri di cucina (e non solo di cucina: c'è stato un momento della tua vita in cui hai pensato che comperare sempre più libri fosse giusto, così come pensavi che fosse giusto comperare quella che sembrava l'enciclopedia perfetta. Adesso invece ti guardano, fanno bella mostra di sé in una casa piena di librerie, e anche se sei contento di avere il Battaglia, che spesso hai consultato, e ti ricordi l'emozione di quando hai letto il lemma “amore”, tutto ciò, nell'epoca in cui ogni informazione è cercata in rete, ha perso il suo antico significato).
Allora , questi libri.... sfogli distrattamente, cerchi una foto che ti ecciti, come fosse un viso di donna, ma un bel viso, un viso pieno di desiderio. Provi a cercare descrizioni semplici, non ti sono mai piaciute le ricette arzigogolate, guardi l'Artusi, la bibbia, non riesci a concentrarti. Il suo volto ti è continuamente davanti, dolcemente silenzioso, e te la immagini mentre ti abbraccia, se mai ti abbraccerà, e ti figuri la sensazione di dolcezza che si spalma su ogni centimetro di pelle.
Cazzo, se continui così la preparazione del tuo menù se ne va a quel paese. Concentrarsi bisogna.
Antipasto e secondo? E il dessert? Non puoi mica ingozzarla, ma non devi fare neanche la figura di quello che non si è impegnato, questo mai.
Ti decidi per un'entrèe e un secondo, leggero questo, seguiti da un piccolo dessert.
Se poi ci dovesse essere un seguito basta non bere tanto. Anche se tutto dovrà ancora succedere, pensi saggiamente che ti accontenteresti anche di due baci (magari ben dati), seduti vicini, davanti a un bicchiere di Passito, a raccontarsi, meglio a condividere, le storie delle vite, anzi forse sarebbe proprio meglio, che non faresti le solite miserabili figure.
Hai sempre invidiato i leoni, loro hanno cinquanta rapporti al giorno, magari brevissimi, e disperdono tranquillamente il loro sperma in accoglienti cavità spinti solo da un istinto, antichissimo, che gli impedisce di preoccuparsi della validità della loro erezione. Basta, adesso devi decidere.
Primo: spaghettini ai ciliegini bruciati
Secondo: insalata di pollo con pesche noci
Dessert: bianco mangiare
Per il vino: lo champagnino andrà sempre bene, basta che non sia di marca cesso.
Il problema dei ciliegini è solo uno: avere il coraggio di bruciarli e l'accortezza di fermarsi un secondo prima della fine, è proprio il contrario di quello che sto facendo io, infatti, conoscendomi, so che li brucerò, o forse no, non so bene, quando cucino non capisco più niente, sono semplicemente isterico.
“Bruciare” i ciliegini si ricollega alla grigliatura del pollo (cosa più semplice se fatta con la sonda), ma l'operazione importante è trovarlo, questo benedetto pollo, che sappia di qualcosa che non sia il gesso delle lavagne.
Lo so, avvicinare pollo e pesche la farà trasalire, anche se non avrà il coraggio di lamentarsi, i semi di papavero poi...., riuscirò a sorprenderla.
Il dessert dovrà essere l'apoteosi della dolcezza e della delicatezza, proprio come quei pochi baci che cercherò di rubarle, con l'alito ancora di fior d'arancio e vaniglia.
Non ci sarà neanche bisogno del coulis di lamponi, solo bianco, come un foglio pronto sotto la penna, per scriverci una nuova storia.

Non era stato difficile, alla fine si era preparato tutto con cura meticolosa, gli restava pochissimo da fare, praticamente solo cuocere gli spaghettini. Il dolce era in frigo. La tavola era pronta, tovagliette all'americana con tanti tipi di pasta diversi, a lui sembravano allegri. Aveva anche riordinato bene la cucina: non diciamo che fosse luccicante come certi specchi da barbiere ma comunque non dava un'aria di disordine, e anche il divano non aveva più l'aria di accogliere tante notti insonni.
Mancava un'oretta.
Accese la radio (wonderful sixties!) e si accoccolò su una poltrona con il sudoku in mano, e il cuore in gola. L'ora più lunga. Ogni cinque minuti l'orologio (ma funzionerà bene, mi sembra fermo!), le sigarette non le contava più, se mai le aveva contate, la pressione saliva in maniera estremamente tangibile, l'adrenalina girava come quella Giulietta che si sarebbe voluto comprare (Quadrifoglio verde, 235 cavalli), la saliva era finita.
Dopo tre quarti d'ora di passione arrivò un messaggino, semplice e brutale “Scusami, non posso, ho un impegno improvviso.”
Doveva aspettarselo, forse se lo aspettava davvero, o soltanto ne aveva una paura fottuta.
Era successo, era un rischio che avrebbe dovuto calcolare, o almeno prevedere e premunirsi un po' di più, almeno dal punto di vista emotivo. E i baci? E il sentirsi, per un po' di tempo almeno, “vicini”, ma come l'intendeva lui? Tutto finito, forse rimandato, anche se con qualche capello bianco in più.
Sentì una carriolata di mattoni scaricarsi sulla schiena, e gli occhi si annebbiarono. Riuscì con grande difficoltà a rispondere con un altro messaggino, perché non si potesse dire che non era una persona educata, per quel che serve in questo mondo.
“Non ti preoccupare, sarà per un'altra volta”. Si mise a piangere senza ritegno, come un adolescente.


mercoledì 7 marzo 2012

Bar

Pioviggina ancora. E’ una settimana che non si ferma, gocce minutissime che ti mettono in corpo un’umidità contro la quale non c’è cappotto. Sta finendo novembre e già qualche vetrina incomincia a prepararsi per il Natale: qui una ghirlanda di luci colorate, di fronte, in un negozio di giocattoli, una piccola slitta tirata da due renne di peluche. Un Natale povero, almeno in questo quartiere di periferia. Anche se sono solo le sei è già buio e nel viale le luci più forti sono i fari delle automobili che passano, e da cui devo tenermi a debita distanza, perché se no oltre al collo avrò bagnati anche i piedi. 
Mi piace la pioggia: riesce ad attutire ogni rumore e dà all'aria un odore di pulito. Talvolta mi ha anche permesso di piangermi addosso tranquillamente, senza paura di farmi vedere.
Ho solo un tramezzino in corpo da stamattina e sento lo stomaco brontolare. Non sono molti i bar qui intorno e, dopo tanti anni che vi passo per tornare a casa dalla mia farmacia, che poi non è la mia ma è solo quella in cui lavoro, li conosco abbastanza bene. Mi impongo di camminare ancora cinque minuti, per arrivare al Ragno d’Oro, che ha aperto da un’ora perché andrà avanti tutta la notte. Nando ti vende certe frittatine deliziose che gli fa la moglie a casa, gliele prepara poco prima di aprire il bar. Finirò anche stasera per mangiare qui, così da arrivare a casa sazio, senza l’incombenza di cucinare. Avrò solo da aprire la scatoletta della gatta.
Mi siedo al tavolo più vicino alla porta: non posso dire che sia il mio tavolo ma mi siedo sempre lì. Pronto a scappare e comodo a osservare ogni avventore con la curiosità di ascoltare una storia. E’ un piccolo gioco che non mi nego, e qualche sera mi diverte parecchio.
Il Ragno d’oro non è un bar particolarmente elegante ma non è una bettola. E’ pulito e non ha odori sgradevoli ma ha una certa aria triste, di povere cose e povere vite, con quei tavolini rotondi di metallo su cui appoggiano tovagliette di carta a fiori, quelle a poco prezzo. E i tubi al neon appesi al soffitto non contribuiscono certo a renderlo più allegro. C’è un flipper e un juke box, entrambi funzionanti con la moneta da cinquanta lire. Se hai voglia di ballare con la tua compagna puoi mettere un disco e nessuno ti dice niente. A me piace Peppino di Capri, e anche Buscaglione, che però non puoi ballare.
Ma stasera non balla nessuno e siamo in pochi. Mi siedo e chiedo a Nando di portarmi una panino con la sua magica frittatina alle erbe, berrò il mio solito biancoamaro.
Intanto che mangio incomincio a guardarmi intorno. C’è un tizio a un paio di metri da me, promette bene. Potrà avere quarant’anni, quarantacinque forse. Ha i capelli scuri, tutti tirati indietro, schiacciati dalla brillantina. Due baffetti alla Zorro, quest’anno sono di moda, un incarnato olivastro. Stranamente gli occhi sono chiari, e fanno un bel contrasto. Porta il trench, abbottonato solo dalla vita in giù, sotto cui spunta una camicia candida e una cravatta scura. Immagino che non abbia problemi con le donne. Lui.
Ha mandato via Nando che gli chiedeva l’ordinazione. Si vede che aspetta qualcuno, anche perché è nervoso e non riesce a stare fermo. Solo il portacenere ha davanti a sé, e lo riempie di sigarette: ne accende una con il mozzicone della precedente. E' evidente che aspetta una donna.
Visto che la serata si fa interessante mi ordino un’altra frittatina, questa volta al prosciutto, e un altro biancoamaro. Aspettandoli mi accendo una Nazionale. Un accesso di tosse mi induce a spegnerla dopo tre boccate. “Devi trovare in te la forza di smettere”, mi ha detto il titolare. Fa presto lui a parlare.
Eccola, è arrivata, finalmente.
E’ una cavalla di razza, con una criniera rossa meravigliosa, che sotto la luce del neon si ammanta di riflessi purpurei. La cintura le marca una vita molto piccola che scende in un sedere perfetto e in due gambe che non finiscono mai. E’ altissima. Indovino un bel seno turgido tra i risvolti dell'impermeabile. Ha un rossetto di un colore un po' volgare ma che le dipinge una bocca da sogno, una bocca caravaggesca. Avrà venticinque anni. E' bellissima e ne è molto consapevole. Complimenti, te la sei scelta niente male.
La rossa ha in mano un ombrellino giallo, che con gesto infastidito getta nel portaombrelli. Si siede e accetta di malavoglia il bacio che lui le dà, appena sulle labbra.
“Ho solo dieci minuti” esordisce, con tono così alto che la sente tutto il bar, “poi devo andare a teatro. Dimmi quello che mi devi dire”.
“Potrai ben bere qualcosa, Mary” le risponde lui con tono di preghiera.
Vedo che le cose si mettono male. L’aria, ancorché umida, diventa elettrica.
Non ho capito cosa ha ordinato l’uomo per entrambi, forse un bitter. Qui da Nando se vuoi le patatine te le devi comperare a parte, per cui i due bicchieri rossi hanno in mezzo solo il portacenere colmo.
Lui incomincia a parlare, a un tono di voce troppo basso, e non riesco a capire quello che dice. Devo aguzzare le orecchie. No, forse è meglio aguzzare l’ingegno. Mi avvicino con aria sciocca al flipper e faccio finta di cercare il cinquantino in tasca. Rubo questo frammento: “Cerca di capire la mia situazione” e poi “Lo sai bene che ti amo”.
Non sono un’aquila, non farei il farmacista a ore, ma mi è abbastanza chiaro lo stesso tutto il resto della storia, quello che c’è stato prima e quello che ci sarà dopo.
E’ la solita storia, antica come gli uomini e come le donne: c’è un uomo che vuole tenere il piede in due scarpe e una donna che vuole credere, contro ogni evidenza, cose che non potranno succedere mai.
Saranno un paio di minuti che lui ha smesso di parlare, e la sua fronte è madida di sudore, come se piovesse anche nel bar.
A un tratto lei si alza, prende il bicchiere pieno e glielo tira in faccia, con gesto premeditato.
“Bastardo”, l’ho sentita mormorare, “passa soltanto a prendere i tuoi stracci e non farti mai più vedere”.
E’ uscita lentamente e non ha preso l’ombrello.
Lui col fazzoletto si asciugava il bitter e il sudore.
S’è acceso un’altra sigaretta, guardandosi intorno.


lunedì 5 marzo 2012

Lontano


Sono partita il 20 dicembre. Me la meritavo questa vacanza, ho passato un anno infernale. Per principio non mi tiro indietro di fronte al lavoro ma a questi ritmi non credo di farcela. Settantadue ore filate dentro Sant'Orsola non possono essere chieste a nessun umano, tanto meno a me, laureata fresca dalla scuola medica bolognese.
E’ lungo il viaggio per andare in Brasile, ma ogni ora d’aeroplano che aumenta la distanza fra me e quell’ospedale mi restituisce una serenità che non ricordavo più. E’ stata buona l’idea di partecipare a questo congresso, anche se mi sono sparata l’equivalente di sei mesi di stipendio. Ma voglio credere con tutte le mie forze che siano soldi ben spesi, e che questo viaggio mi porterà solo felicità.
Finalmente arrivo, e il cielo di Recife mi accoglie con una delle sue più luminose giornate, o almeno così mi dice il mio umore. Tutto è più bello e più calmo qui. Mi portano al resort con un taxi scassato, che mi sembra la zucca di Cenerentola.
Ho conosciuto in aereo un collega, anche lui per il mio stesso congresso, un marchigiano, con quella parlata così caratteristica e un po’ ridicola, una specie di orsacchiotto. E’ più vecchio di me ma gli leggo negli occhi il mio stesso desiderio di andare via, e penso che condivida con me anche quella vecchia canzone, “...e tu che intanto sogni ancora, sogni sempre, sogni di fuggire via...”
La sera mangiamo insieme e ridiamo parecchio, raccontandoci la vita nei nostri ospedali.
L’indomani mattina ci rivediamo al congresso, e mostriamo entrambi “sincero” interesse per l'argomento della prima sessione, un'insopportabile lectio magistralis del cattedratico di turno, ma solo fino alle otto e mezzo: l'aria che comincia a scaldarsi ci è complice e sgattaioliamo dall’aula magna. Subito lì fuori, ma sarà un caso?, troviamo barconi a motore con tenda, gestiti da sornioni locali che bene hanno imparato l’andazzo dei congressi. Ne noleggiamo uno in fretta e furia, e partiamo per un giro in barca, che ci porterà ancora più lontano.
Andando in barca succedono strane cose alle persone. Il silenzio è rotto solo dal motore, che dopo poco diventa un piacevole ronzio, come le fusa di una gatta che ha deciso di sostare un poco fra le tue gambe. Dopo quattro parole, senza rendertene conto, non hai più tanta voglia di parlare, ti senti proiettato verso uno spazio e un tempo ignoti, stai bene e non hai bisogno di niente, anche l’aria calda che ti sfiora la faccia ti avvolge.
Il barcaiolo ci porta, come promesso, a un’isoletta non menzionata dalle carte geografiche, che tutti i locali però conoscono.
La spiaggia e la temperatura ci invogliano e ci tuffiamo in queste acque di Oceano Atlantico. Sono torbide perchè dense di vita. Sto con la testa sotto l’acqua e tutto quello che ho lasciato, sia pur per dieci giorni, si fa sempre più sfuocato.
C'è anche, dietro la spiaggetta, sotto le palme, un ristorantino, un piccolo barbecue in fondo e due tavoli soltanto: uno è preparato con cura, con una tovaglia a fiori sgargianti che mi ricorda quanto siano allegri i brasiliani. Ma aspetta qualcuno.
Mangiamo il pesce appena pescato, appoggiato sulle braci senza bisogno di essere pulito, insieme alle cipolle e ai finocchi.
Dopo mezz’ora di vero relax, passato a raccontarsi vicendevolmente io i sogni e lui le delusioni, arriva l’ospite per il quale la tavola era stata preparata.
Abbiamo mangiato insieme a Caetano, un cantante brasiliano piuttosto conosciuto, anche lui in fuga, anche se non dalle stesse cose da cui fuggivamo noi, e non per giorni ma solo per qualche ora. Ha cantato, per sé e per noi, fino all’imbrunire, accompagnandosi con una vecchia chitarra.
A bassa voce, in quel portoghese che non ha bisogno di essere capito per toccare il cuore.



domenica 4 marzo 2012

La regina è la casa

Già quando mi sveglio il primo pensiero è per lei, la mia casa.

Non c'è altro che possa darmi la stessa soddisfazione, né marito né figli. La casa richiede grandi cure ma dà enorme gratificazione.

Tra scuola e lavoro, riesco a liberarmi della famiglia per buona parte della giornata, e mi dedico a lei con tutto il cuore.

La rimozione della polvere è l'attività principale della mattina: utilizzo uno straccio che, dopo avere accarezzato ogni mobile e suppellettile nelle più intime pieghe, scrollo dalla finestra, per ricominciare in un'attività senza fine...... come la canzone.

Sarebbe bellissimo poter sigillare tutto, anche gli umani, con una pellicola trasparente, ben lavabile e repellente alla polvere. So che sono sogni di gloria.

Rifare i letti è la seconda attività della mattinata: che bisogno c'è di mettere tante coperte? Ne basta una, non molto pesante né calda: le altre devono restare nell'armadio. Se poi è inverno pazienza, il freddo conserva.

Il terzo appuntamento della mattinata è l'aspirapolvere, il cui fine ultimo è la sterilità, che non può essere raggiunta ma deve essere anelata con il massimo dell'impegno.

Caricare la lavatrice è l'ultimo compito, necessità imposta dalla stupida abitudine di cambiarsi i vestiti, che non sono ancora “usa e getta”.

E siamo al pranzo, che mio malgrado deve essere preparato: fritti non se ne fanno, ho la scusa che fanno male. Un piatto per ciascuno andrà bene, non più di due posate. Cucinare è un'imposizione sgradevole e inutile, forse necessaria per chi abita con me. Dovranno accontentarsi.

La prima attività del pomeriggio è la stiratura, di quelle cose, del marito, che non possono non essere stirate. Attività che, non aggiungendo né pulizia né sterilità, giudico inutile.

Dopo la stiratura incomincia la ricerca di residue cose da pulire o da mettere in quell'ordine che è apoteosi dell'inutilizzo e contemplazione dell'immobilità.

Finalmente ci sono le abluzioni corporee, per le quali non c'è spugna sufficientemente abrasiva né sapone utile a levarsi uno sporco che è della mente.

La sera, dopo la reiterata sofferenza del dover preparare la cena, la dedico alla televisione, utilissimo mezzo per non pensare a domani, altro giorno irrimediabilmente eguale di una vita completamente inutile.



sabato 3 marzo 2012

Cameriere per forza


Ho 56 anni, cazzo!
Pensavo di avere un discreto lavoro, nulla di speciale, per carità, ma almeno quanto mi bastava per mantenermi, e per concedermi di tanto in tanto qualche svago.
Quando è stato il momento non ho voluto studiare e quando ho capito che mi sarebbe servito non è stato più il momento. Mia madre sarebbe stata anche disposta a lavare qualche scala in più. Quando è morta ho dovuto tirarmi su le maniche. La cosa meno schifosa che ho trovato è stato un posto di impiegato in una ditta che fa, che faceva, tetti in legno. Con quello che guadagnavo non ho neanche trovato una donna disposta a sposarmi, mi sarebbe piaciuto molto avere una famiglia. Sono rimasto scapolo e, giorno dopo giorno, anche questo desiderio è diminuito. Sono rimaste soltanto rare serate in città, in quella casa da cui esci con la bocca cattiva.
La settimana scorsa il ragioniere mi ha chiamato, comunicandomi che le commesse sono talmente poche che la ditta non può più permettersi di mantenermi, per cui fra quindici.giorni dovrò alzare i tacchi. Con tanti ringraziamenti. Non ho neanche avuto voglia di dirgli qualcosa, qualsiasi cosa. L'unico pensiero che mi frullava per la testa è stato come avrei fatto a pagare l'affitto. Non penserete mica che avessi dei risparmi, magari nascosti dentro una scatola di caramelle vecchie. Tanta è stata la preoccupazione che non ho mangiato per tre giorni, fino a quando non ho trovato un altro lavoro.
Andrò a fare, senza contratto, il cameriere stagionale, in un rifugio a duemila metri. Mi è stato chiesto se lo sapevo fare: ho mentito, dicendo che avevo fatto una stagione al mare, quando ero giovane. La persona davanti a me ha fatto finta di crederci. Mi pagheranno a settimana, duecento euro, fino a marzo, aprile forse, a seconda di quanta neve rimarrà sui campi da sci. Poi si vedrà. Orario di lavoro: 9-17. Non è poi cosi' male. Oggi è giovedì, si parte lunedì.
Sono stato bravo a passare da un lavoro ad un altro senza perdere neanche un giorno di paga, ma non mi sento per niente contento, e sono vagamente preoccupato. Mentre mi faccio la barba prima dell'ultima visita in città (e che mi sia di buon augurio), vedo nello specchio del bagno, anche se in penombra, un uomo invecchiato, che non riconosco, con i capelli quasi bianchi e un paio di occhiali da poco, che ha perso ogni voglia di sorridere.
Vabbè dai, lunedì si parte.
Martedì mi sfiora il desiderio di buttarmi giù dalla seggiovia che mi porta in quota: non è difficile, basta slacciarsi.
Sono finito direttamente nell'anticamera dell'inferno. Quando arrivo alle nove del mattino mi sembra ancora di avere a che fare con degli esseri umani, ciao Gianni, fatti un caffè. Non sono antipatici, forse fuori di lì ci potresti bere una birra insieme. I lavori da fare sono tanti, e io cerco di farli con la massima diligenza: non mi piace che mi si trovi da dire. Scopo la terrazza, pulisco i tavolini, dispongo le seggiole in bell'ordine, metto i cuscini. I clienti a quell'ora sono pochissimi, c'è uno col computer che ogni mattina si siede e fa finta di lavorare, ma non fa altro che guardarsi intorno. Strano tipo. Verso le undici l'attività incomincia a farsi più concitata. Qualche sciatore arriva, bisogna fare i panini, portare birre ai tavoli. Quasi senza accorgermene incomincio a girare senza posa fra i tavoli, con un vassoio pieno fra le mani, sia andando in cucina sia andando in sala. La gente aumenta, devo fare lo slalom fra bambini vocianti, genitori in fila al self service, gente che mi chiama gridando. Non sono l'unico cameriere ma ogni chiamata mi fa sobbalzare. Il cuoco è un pazzo, anche lui mi grida di tutto e io devo correre a prendere i piatti perchè non si raffreddino: riesce a farmi paura. Due ore di marasma, nelle quali non so più chi sono e il mio lavoro consiste soltanto nel soddisfare il maggior numero possibile di clienti, scegliendoli fra quelli che gridano di più. Solo verso le tre tutto rallenta, e riesco fumarmi il mio mezzo toscano. Mi sento stanco anche dentro, e tutta questa gente non fa altro che ricordarmi che sono solo. Torno a casa e mi butto davanti alla televisione.
Devo prendermi un gatto.

3 marzo 2012




Clara era tranquilla


Non tranquillizzata, tranquilla.
Tutti i suoi cari, Alberto in primis e le sue sorelle avevano dimostrato una così grande fiducia nel buon esito delle cure che, a furia di parlare con l'uno e con le altre, si era convinta che non avrebbe potuto non guarire.
Anche quel giovane medico biondiccio che aveva avuto cura di lei in quei tre giorni, il minimo necessario per l'intervento, aveva ostentato grande sicurezza, nello stesso tempo le aveva dimostrato di essere capace di mettersi nei suoi panni. Le aveva fatto enorme piacere. Doveva mandargli qualcosa.
Aveva deciso di andare in vacanza negli Abruzzi, come ogni anno, nella vecchia casa in cima al paese, malandata ma sempre piena dei ricordi dell'adolescenza.
Sarebbe andata con le sorelle libere alla fine di giugno, e insieme l'avrebbero rimessa in ordine, per farla trovare perfetta per le altre, a poco a poco sopraggiunte. Si sarebbero divertite, ne era certa, di un piacere solo appena velato dalla malinconia.
Che Alberto andasse pure in montagna, con i suoi amici di sempre.
Lei era tranquilla.
Sapeva che la malattia era limitata nell'estensione ed era stata presa in tempo. Era certa che le cure fossero adeguate, persino eccessive, pensava.
Si sarebbe facilmente liberata da quell'ospite estraneo e indesiderato.
Aveva appena spento la televisione, era salita in camera, e, nell'attesa del marito, faceva le parole crociate svogliatamente, era diventata talmente brava che non c'era neanche più gusto.
Si sorprese a pensare alla storia di questa malattia, incredibilmente breve. Solo cinque giorni prima non si sarebbe mai sognata di dover fare esami sgradevoli e dolorosi, e l'angoscia dell'attesa si era sciolta soltanto al momento della comunicazione della diagnosi.
Sentì qualcosa nella pancia: non un dolore, piuttosto una sensazione di torsione. Poco piacevole. Le venne in mente subito Pellegrino Artusi, “Maledetto minestrone, tu non mi buscheri più!” ma si ringoiò il pensiero, quella storia non finiva bene.
Era paura pura e semplice, che l'aveva assalita nel momento in cui era più indifesa, da sola, prima di addormentarsi. Il sonno e la morte non sono poi così diversi.
Si rifugiò nelle braccia di Alberto, con gli occhi allagati.



venerdì 2 marzo 2012

Riflessioni balneari


Capita, per fortuna di rado, o forse per sfortuna, che un insieme di circostanze concorre a chiederti imperiosamente di metterti a scrivere, e tu un po’ nicchi, perché comunque non è né semplice né piacevole, cioè piacevole lo è, ovviamente, ma è faticoso. E’ un po’ come chiedere a una donna pigra di provare qualche nuovo abito nei negozi, che è una cosa fastidiosa e nello stesso tempo abbastanza stuzzicante, cosa che gli americani definirebbero con la parola “sexy”.

Quindi senti che le condizioni sono buone, è un po’ che non lo erano, l’umore giusto (per scrivere, naturalmente) e allora accendi il tuo computer (ma come era bella la macchina da scrivere, con quello gomme rotonde rossoblu, era l’oggetto del tuo desiderio da bambino, e quando andavi in ufficio con Papà tutte quelle macchine da scrivere erano il tuo piccolo paradiso) e parti.
Il cappello l’hai fatto, quindi devi solo partire. E allora partiamo.

Uno dei divertimenti maggiori dell’andare in spiaggia quando sei in vacanza è guardarsi intorno…… certo, le belle figliole sono un gran bel vedere, anche se poi alla tua età ti sembra di averle viste quasi tutte, ma è di gran lunga più divertente fissarsi su un gruppo o una famiglia, non c’è neanche bisogno di ascoltarli.
Cerchi di immaginare cosa ci sia dietro quelle facce, quei muscoli e quelle articolazioni, dietro quei cuori che battono e che, anche se cuori di bambini, un qualche giorno, che a noi umani non è dato di sapere, si fermeranno, per stanchezza o per corrosione da parte di una malattia sconosciuta ai più, si è lasciato andare, si diceva una volta…….
“Punti” qualcuno e incominci a viaggiare con la fantasia, e poi ci fai anche dei ragionamenti, e ti metti nei panni dell’uno e dell’altro, del resto è risaputo che non sei granché normale a fare certe cose….
Oggi ho puntato un uomo, alto, magro, anzi ossuto, calvo e con gli occhiali. Occhiali piccini, privi di montatura e con lenti rettangolari, lenti da miope.  Non particolarmente abbronzato (inizio delle vacanze? bagnante mordi e fuggi?), forse leggermente più giovane di me.  Un uomo che leggeva un libro, un libro vero e non un fumetto o le parole incrociate, che a tratti posava per chiudere gli occhi e riposare un poco. Uno di quelli che definirei, perché non ho paura di quello che mi rimanda lo specchio, un uomo con un cattivo rapporto con il cibo, ma anche questa non è la verità assoluta, magari può esserne parte, comunque uno di quelli che non ha l’ossessione del cibo come me, nel bene e nel male. Un uomo globalmente simpatico, di primo acchito, anche se il primo acchito significa un’altra cosa, significa che aveva un’aria un po’ triste che per me diventa automaticamente il miele della solidarietà. Vogliamo dargli un nome? Sì, lo chiamerò Guido, in un certo senso siamo diventati un po’ amici.
Guido ha due figli che porta al mare con sé, due ragazzetti di età abbastanza vicina fra di loro. Non posso saperlo ma non credo che siano nipotini o figli di amici, ha con loro un tono dolce ma autorevole. Avranno 9 e 10 anni. Sono bambini educati, anche carini in un certo senso, non disturbano nessuno (rarae aves!) ma non sono l’oggetto della mia curiosità. Li accudisce e li controlla ma si capisce che in testa ha dell’altro. Guido non porta la fede matrimoniale. Porta in compenso un bel salamino di vene varicose nel polpaccio sinistro, facilmente visibili e che mal si attagliano col suo fisico asciutto, come potrebbe essere quello di un podista. Forse è solo uno che sta tutto il giorno dietro una scrivania, seduto, e non vuole portare le calze elastiche (per forza, sono semplicemente insopportabili). Un travet, quindi, con le mezze maniche, o un ingegnere navale, che progetta navi grandissime e meravigliose, città di tutto dotate, forse anche della felicità. Ma io non ci credo, infatti non ho mai fatto una crociera.
E se Guido fosse un ragazzo padre? Un errore va bene, due no!  Forse più che un ragazzo padre Guido è solo un uomo lasciato da una donna, stufa di una vita monotona, che neanche in due figli sia riuscita a trovare un buon motivo, o almeno un motivo, di star loro vicina. E allora questi tre maschi, dopo il bagno, dovranno tornare la sera a una casa vuota e mettersi di buzzo buono non si dice a riassettare la casa ma almeno a prepararsi qualcosa che assomigli a una cena, dove nella parola cena c’è dentro la parola famiglia che ha dentro lo stare insieme.
Non credo che Guido sia un marito separato, che prende i figli per i giorni e le ore prefissate come da accordi col giudice. Non ha un’aria abbastanza cattiva.  Ha solo un’aria molto triste, triste come, ma questo l’ho già detto, potrebbe essere l’arrovello di un grande Amore, che è soltanto passato senza fermarsi, o che addirittura ha dato qualche avvisaglia di sé senza arrivare mai. O che è semplicemente finito, lasciando dietro di sé quello che il Poeta ha definito “… sol languore e pianto”.
Ciao Guido, è stato bello passare quest’oretta in tua compagnia.

9.7.2011, ore 00.41



Non mi piace lo sport


...per forza, peso uno sproposito e se dovessi mettermi a correre scoppierei in pochi minuti. Anche il calcio, che probabilmente è davvero lo sport più bello del mondo - ottenere un  risultato "come squadra" è infatti cosa molto bella e di molto invidiabile - dopo qualche minuto mi addormenta, e le partite che devo vedere, per spirito patriottico o di campanile, finiscono per stancarmi. Diventano più che altro un'occasione per invitare gli amici a casa e, guarda caso, mangiare.

C'è però uno sport che è diverso.
E' anch'esso uno sport che si fa in squadra e in esso il gioco di squadra deve pur contare qualcosa (ma io non l'ho ancora ben capito).  C'è un capitano e ci sono i "gregari", parola latina che vuol dire soldato semplice, quello che sta nella truppa, o nella folla, che lavora sodo e non verrà mai riconosciuto nel suo valore e nel suo contributo alla causa comune. Occhio che qui però non si discorre qui di capitani e gregari: il discorso mi porterebbe troppo lontano e non è adesso il momento di farlo.
Si discute del fatto, in sé meraviglioso, che in sella a una bicicletta l'umano si trasforma in qualcosa che umano non è più, arriva molto vicino a qualcosa che sta più in su, che non sono tanto capace di definire ma che comunque, con quel po' di "esprit de finesse" che mi rimane (ricordate? "il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce") sento che questo "qualcosa" è ben reale. Di questo ne sono assolutamente convinto.

Ovviamente la dimostrazione delle mie ideuzze la dovevi vedere in televisione ieri pomeriggio, quando il Tour de France scala il Tourmalet, che è il più alto colle stradale dei Pirenei, e che arriva a duemilacentoquindici metri di altezza sul livello del mare. Sono dieciassette kilometri di ascesa, con pendenza media del 7,3% e punta del 9,5%.
Il primo ciclista che lo raggiunse al Tour del 1910, Octave Lapize, espresse in una frase rimasta famosa quello che pensava degli organizzatori che avevano messo questa scalata nella corsa « Vous êtes des assassins ! Oui, des assassins ! ».


Puoi essere il ciclista più bravo del mondo, con lo sprint più bruciante o puoi raggiungere velocità impensabili ma quando sei sul Tourmalet devi tirare fuori qualcos'altro.
Non c'è più squadra e non c'è più gregario, la truppa che comandi o di cui hai fatto parte si scioglie come piccoli acini di un grappolo d'uva strappati da una tempesta di vento. E tu resti solo, spaventosamente solo, e la salita continua, e ti da l'impressione che non debba finire mai.
E se anche vicino a te ci fosse un avversario (ricordate Coppi e Bartali sullo Stelvio?) sei lo stesso solo come un cane, anzi, sei solo come può esserlo un uomo di fronte alla morte, e devi trovare dentro di te un'energia che non è più energia muscolare ma energia di pura provenienza spirituale, e non tutti ce l'hanno, e non tutti i pochi che ce l'hanno riescono a tirarla fuori. Ed è solo questa energia che ti permette di continuare a mettere una pedalata dietro l'altra, senza neanche domandarti quando arriverà l'ultima, e pedali come se questo strazio non dovesse mai finire, perchè non ti senti più umano....ti senti qualcosa di più.
Fausto Coppi, che è stato davvero "qualcosa di più", non foss'altro per il mito che ne ha creato  l'immaginario collettivo,  ha scalato il Tourmalet nel '49 e nel '52.




Padri e figli, ovvero aggiustare le cose tardi ma benino


E' solo per caso, uno di quei casi che sembrano governati da una mano altrui e misteriosa, che una di quelle due o tre cose significative della tua vita si chiariscono in un attimo, e come per l'effetto di un lampo di luce leggi con chiarezza dentro te stesso tramite un altro, con cui condividi qualcosa......

Hai delle cose nella vita che ogni volta che ti passano per la mente il cuore si gonfia improvvisamente di lacrime che devono uscire con grande forza, e sono cose apparentemente banali, che per altri non hanno tutto questo grande significato, e che non tutti capiscono anche quando gliele spieghi, ma forse perché tu stesso non sei capace a spiegarle bene. Ecco perché hai deciso di scriverle, per spiegarle meglio e per trovare qualcuno che le capisca.

Dài che si parte, ma bisogna prenderla alla lontana.
Eduardo De Filippo, che da qui in avanti chiamerò semplicemente E., nasce il 1900 e scrive la sua prima commedia, “Farmacia di turno”, a vent'anni, e nel 1931 ha già una sua compagnia teatrale.

Filumena Marturano la scrive nel 1946, subito dopo quella guerra che noi per fortuna abbiamo vissuto solo nei racconti delle nostre famiglie, che comunque  abbiamo imparato bene.
[La versione a cui faccio riferimento è quella recitata da lui stesso con Regina Bianchi, nell'edizione televisiva che è diventata di universale distribuzione in cassette e DVD].

La storia è presto detta: Filumena, anche se prostituta, ha allevato per lunghi anni tre figli, di nascosto dal suo amante “fisso”, Domenico Soriano, e per convincerlo a sposarla gli dice che uno dei tre giovani è davvero suo figlio, cosa che lo scompensa di brutto.
Filumena sarà capace di spiegargli, con grande pazienza, il significato della paternità.

All'inizio del terzo atto Domenico, “prova”, senza tanta convinzione, a parlare ai tre giovani, spiegando che, dato che da lì a poco sposerà la loro mamma, e non solo (“ho già preso l'appuntamento con l'avvocato per la pratica che vi riguarda. Domani vi chiamerete come me, Soriano...”) gli “piacerebbe” che non lo chiamassero più Don Domenico..... la risposta dei tre non è solo negativa, è anche molto dura (“Certe cose... bisogna sentirle dentro”).
Domenico, con grande eleganza, sorvola e cambia discorso: ha quasi imparato la lezione di Filumena e a questi tre ragazzi ci tiene davvero, ha la delicatezza di non insistere.

Ecco, non passano che due pagine, devo citarlo testualmente:
.................
DOMENICO (si alza dal tavolo e guarda tutti lungamente. Poi, come una decisione immediata) Lasciammo sta' 'e cose comme stanno, e ognuno va p' 'a strada soia... (ai ragazzi) Io vi devo parlare... (Tutti attendono sospesi). Sono un galantuomo e non mi sento di ingannarvi. Stateme a sentì...
I TRE Sì, papà!
DOMENICO (commosso, guarda Filumena e decide)
….............

Con un colpo di teatro formidabile E. dà la voce al cuore dei personaggi, che prorompe con naturalezza al di sopra e al di là di tutte le parole che erano già state dette.

Fin qui, cara lettrice e caro lettore, non ci sarebbe niente di che, nel senso che questo colpo di teatro può essere più o meno commovente a seconda di cosa ci portiamo dentro, e cioè di come è stata la nostra relazione con il padre, e se abbiamo risolto certi conflitti oggi non più risolvibili con la presenza.

Ma c'è di più, molto di più.
C'è una storia che ho letto per caso e che spiega bene cosa ci poteva essere nel cuore di E. quando ha scritto queste righe.

La mamma dei tre fratelli De Filippo era la figlia del fratello della moglie di Eduardo Scarpetta, famoso attore e scrittore napoletano, nato nel 1853, famoso anche per il numero dei figli che ha avuto, perché gli piacevano le donne e perché pensava, dico io, che avere tanti figli da tante donne fosse una bella cosa, che ti dava lustro.
E probabilmente, in questa famiglia allargata e famosa, i ragazzi venivano anche educati in qualche modo.

La notizia che però ha scatenato le mie fantasie è che i figli nati fuori dal matrimonio, così come E., lo potevano chiamare soltanto “zio”.
E dàai, questo no! Non lo capisco, e non riesco ad accettarlo.
Me lo figuro, questo ragazzo, che adolescente scopre chi è il padre ma non lo può neanche chiamare “papà”.
Un bocconcino di m. niente male da digerire, cento anni fa come adesso.

Ecco che allora E., quando è grande, (ma non prima di aver fatto passare vent'anni dalla morte di Scarpetta, prima non ce la fa proprio...) mette questo padre nella commedia, dentro un personaggio che gli assomiglia tanto, anzi, calca anche un po' la mano facendolo forse peggiore, e si vendica gelidamente, rappresentandolo mentre è lui che  chiede di essere chiamato “Papà”, a figli che gli oppongono un netto rifiuto.
Brutta m., questa volta te l'ho fatta pagare....., davanti a tutti!

Ma questa vendetta (come tutte le vendette) ha un sapore cattivo, e lascia in bocca solo un gusto di polvere da sparo, e la guerra non piace a nessuno.
Tanto meno a E., che il rapporto con il padre non l'ha risolto, è morto quando lui aveva 25 anni: sì, la vendetta andrà anche bene però è anche vero che ognuno di noi cerca un po' di serenità.....
Non passano che poche righe che a questo padre, che si sarebbe anche già fatto una ragione del rifiuto, viene regalata, con un atto di amore gratuito, perché non meritato, la tanto agognata parola, che non rappresenta più la mera condivisione del DNA ma invece è il simbolo dell'accogliere e dell'essere accolti, che è il fine della nostra vita.

Queste due paginette ovviamente non vogliono e non possono essere una nota di critica letteraria,  piuttosto una riflessione, da medico (e cioè da quotidiano frequentatore  di umanità malata non solo nel corpo) su quanto certe cose, apparentemente irrilevanti, possano aiutarci a capire noi stessi.