venerdì 31 agosto 2012

NOTTE AD APRICALE



Marco aveva svuotato rapidamente la scrivania, coperta solo dalle cose essenziali: le penne, il portacarte, qualche foto sotto il vetro, poche cose perché non aveva mai sentito veramente suo quel lavoro. Passò a ritirare l’ultima busta paga, bagnata di sudore e pregna di rabbia.
A casa riempì la sacca da viaggio, svuotò il frigorifero e prese il libro sul comodino, ultimo rifugio dalle tristezze della vita. In strada la vecchia Duecavalli non aspettava altro, dài, partiamo, mormorò. Certo che partiamo, mia cara, e vedrai che ci divertiremo.
Alle otto di quella sera di agosto, dopo solo due ore di guida, Marco imboccò il bivio di Camporosso, deciso a trovare un po’ di refrigerio nell’entroterra. Arrivò ad Apricale poco dopo, inconsapevolmente attratto.
Quando, dopo quella curva stretta, la vide improvvisamente, triangolo di case spalmato sulla collina, ne restò colpito, come se Apricale non fosse un paese come tutti gli altri. C’erano pochissime automobili a quell’ora e poté fermarsi un attimo per scendere a vedere meglio. Tutti i rumori della natura si erano spenti, e la luce si faceva sempre più fioca. Per un istante fu dimentico di ogni cosa, soprattutto del fatto che era di nuovo senza lavoro.
Dentro il silenzio, sentì il suo ritmo battere all’unisono con quello del mondo, un ritmo che prescindeva dal tempo.
Rientrò in macchina, col desiderio di esplorare meglio quel piccolo paese e quella grande emozione. Parcheggiò in cima al paese, in uno spiazzo stranamente vuoto. Gli stava crescendo dentro una curiosità incontenibile.
La prima persona che vide fu un vecchio candido, alto e ossuto, che portava una gerla che sembrava sospesa, tanta era la leggerezza con cui la sosteneva. L’uomo gli fece soltanto un gesto con la mano, come a dirgli: “Vieni, è ora che cominci il tuo giro qui da noi”.
Marco prese quindi la prima stradina alla sua sinistra, sormontata da un archetto. Camminava lentamente, guardandosi intorno, cercando qualcuno. In cielo il nero, senza stelle, aveva quasi preso il posto dell’azzurro. Si diresse verso una ripida discesa, al fondo della quale distingueva un lampione  con una luce fioca.
Lo vide solo pochi metri prima della luce. Ma ancor prima di vederlo fu colpito da un odore intenso, come quello che si sprigiona dai cespugli di pitosfori, dolce e pungente. Ma non c’erano pitosfori là, solo qualche vaso di gerani. E questo grosso gatto, a cui lui si avvicinò circospetto. Quello non fece una piega. “Ciao, Marco”, gli disse voltandosi.
Quando ti trovi in una situazione che non hai mai vissuto la tua memoria perde qualsiasi riferimento e non riesci più a capire se i tuoi sensi trasmettano al cervello informazioni di realtà.
“Ciao, Marco”, ripeté il gatto, sempre placidamente accovacciato sul gradino della casa. Marco però non voleva rispondergli, altrimenti avrebbe dato ragione a quella parte di sé stesso che sommessamente gli suggeriva che non c’è nulla di strano ad essere salutati da un gatto.
Pensò a uno scherzo, ma non aveva incontrato e non vedeva nessuno.
Prese tempo, mugolò un “Ciao” più di pancia che di bocca e studiò l’avversario.
Era un gattone che sembrava un cuscino, e per dimensioni e per morbidezza. Il manto, come la maggior parte dei gatti – che però non parlano – era bianco con striscie grigie variamente orientate. L’oscurità gli dilatava enormemente le pupille.
Pensò che comunque era libero di parlare con un gatto, del resto non avrebbe dovuto dirlo a nessuno. E nessuno era lì presente, per testimoniare che lui parlava ai gatti. “Come è andato il tuo viaggio? So che quando parti non sei mai di buonumore”. Marco trasecolò, se non fosse stato buio lo si sarebbe potuto vedere scolorire. Ma doveva considerare normale ciò che normale non era. “Hai ragione”, rispose col suo solito tono  di voce, che in quella situazione diventò un rauco falsetto. “E’ che mi prende un’angoscia che mi stritola la pancia. Certe volte penso che non dovrei mai partire e restare sempre a casa. Casa e lavoro, lavoro e casa”. “Adesso casa-casa, mi sembra”, lo interruppe il gatto, con un’espressione che a lui parve un mezzo sorriso. “Non solo mi mancava il gatto parlante, ci voleva anche quello sarcastico”, pensò Marco.
Il gatto disse soltanto “Seguimi, per favore”.
Lo precedette fino a uno slargo sul limitare del paese, da dove si poteva finalmente vedere il cielo liberato dalle nuvole, con una magnifica stellata. Stettero un quarto d’ora in silenzio, Marco disteso sull’erba, il gatto accovacciato vicino a lui, distante un centimetro in più di un braccio teso.
“Ciao Marco, adesso devo andare. Aspetta qui”. Sparì nel buio.
Marco pensò che neanche nel migliore dei suoi spinelli sarebbe riuscito a immaginare di avere a che fare con un gatto parlante, capace anche di leggerti la vita.
Gli sembrò di addormentarsi per qualche minuto.
Improvvisamente sentì un rumore, a lui non era familiare, un rumore sordo, un fremito lontano, ritmato. Girò la testa e vide una gatta siamese. Due occhi azzurri brillanti nell’oscurità.
Marco non aveva mai amato particolarmente i gatti, lui e i gatti seguivano vite semplicemente parallele. Ma quella gatta aveva un musetto sul quale si sarebbe sentito di stampare un bacio. Ovviamente non se lo permise, anche se fu lui a fare il primo passo, ridendo di sé stesso in silenzio. “Come ti chiami?” le chiese. “Isabella”, “Ah, bel nome”. Attimo di silenzio, in cui ebbe la certezza di essere capitato all’altro capo del mondo. E allora decise che sì, i gatti parlavano, almeno ad Apricale, e allora tanto valeva farci dei bei discorsi. Chissà cosa ne sarebbe potuto uscire, forse un  racconto.
Provò quindi a fare il galante. “Lo sai che sei molto carina?” “Certo, ma non siamo qui per parlare di questo”. “Ah”, fece Marco, offeso dal tono un po’ tagliente. La gatta stava seduta, arrotolata su sé stessa.
A Marco venne in mente quella donna, che aveva riempito gli ultimi tre anni della sua vita. Una donna che sempre più di frequente gli dava una senzazione di profondo disagio. Non sapeva se era innamorato di quella donna, non sapeva se era mai stato innamorato di qualcuno, non sapeva neanche cosa significasse veramente la parola “innamorarsi”. Isabella lo guardava con occhi penetranti, come se gli leggesse quei pensieri, chiedendogli a un tempo di leggere meglio quello che lui stava incominciando a intravvedere.
Improvvisamente la gatta, come colta da scossa elettrica, si alzò e incominciò a camminare, rientrando in paese. Marco la seguì ipnotizzato. Realizzò che se quella gatta fosse stata una donna sarebbe stata bellissima, e si sentì avvolto da un folle desiderio.
Isabella, indifferente a quei pensieri, scendeva verso la piazza, di buon passo. Arrivata si diresse a un angolo, dove, confuso con le pietre del selciato, stava un grosso gatto certosino. Marco si accorse che parlottavano, sorpreso di non sentirli. Isabella con due balzi fu fuori portata.
“Vieni pure avanti, Marco”, se ne uscì fuori il certosino con un bel vocione baritonale, di un tono assolutamente divertito. Marco, che quella sera non si sarebbe più stupito neanche se gli avessero parlato i sassi, avanzò con baldanza.
Il certosino incominciò a camminare in tondo nella piazza e Marco si accorse che procedeva in maniera molto buffa, dimenando la parte posteriore del tronco, sculettando quasi, ma non in maniera armonica e regolare bensì con gesti di imprevedibile ampiezza e frequenza. Ne risultava un ballo estremamente divertente e il gatto stesso era il primo a divertircisi. “E ridi, dài, fai un sorriso anche tu, idiota” gli disse, parandosi davanti a lui seduto con le zampe anteriori estese, come i gatti dei faraoni. Da fermo sembrava un gatto serio, ma non lo era.
Ripensandoci quel sedere che sballottava a destra e a sinistra era troppo comico, e a Marco salì finalmente una risata sincera, lunga, come da troppo tempo non ne venivano più.
Lo prese una nuova voglia di vivere e un entusiasmo che l’avrebbe presto reso capace di dare il giusto colpo di timone alla sua vita.
“Questi gatti sono fenomenali”, pensò.
Seduto al margine della piazza, nel buio della notte rideva felice, con un certosino storpio accoccolato sulle gambe, che si prendeva pigramente piccole carezze sulla testa, ridendo sotto i baffi.






UN'INDAGINE LUNGA UN GIORNO


Il medico legale arrivò tre ore dopo essere stato avvisato. In quel lasso di tempo l’appuntato Federici, dopo che il giudice e i suoi superiori andarono via, aveva approfittato del silenzio e della solitudine, e si era messo a curiosare. Perché era curioso come una scimmia. Ogni omicidio per lui era fonte, se non di godimento puro, di interesse spasmodico.
Si trovava in un ristorante famoso, il cui patròn e chef era acclamato come il nuovo Bocuse, portatore di ricette e sapori segreti, che deliziavano i palati di una clientela facoltosa. Certo che lui non si sarebbe mai potuto permettere di andarci. Ma non gli interessava, aveva i suoi locali di fiducia.
Il delitto era avvenuto nell’immensa cucina, che per estensione ricordava quella di certe dimore principesche.
Era lo chef la vittima, una vittima smembrata senza nessun criterio anatomico né gastronomico, ridotta in pezzi non più lunghi di mezzo metro. La testa separata dal collo con un’espressione ancora stupita negli occhi. Federici fu colpito dalla contemporanea presenza di tagli di carne, bovina questa volta, tagliati però in maniera da poterne agevolmente riconoscere l’uso culinario che se ne sarebbe fatto.
Il risultato era una cucina era disseminata di pezzi di carne e di sangue: e in una pentola sul fuoco sobbolliva un quarto anteriore assieme a un ginocchio non bovino. Federici pensò che il killer, se non fosse stato disturbato, si sarebbe fatto un buon brodo, di carne.
Sogghignò fra sé e sé.
Cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una qualche traccia. Quasi subito trovò, vicino a una mannaia per ossa, una vera matrimoniale. La sollevò con la pinzetta che portava sempre in tasca e lesse “Jean – 24.9.2013”. Poco probabile che fosse del cuoco. Se la ficcò in tasca col massimo della naturalezza.
Si sedette a pensare. Perché il bue tagliato bene e l’uomo selvaggiamente depezzato?
Quando finalmente il medico legale arrivò potè andarsene a casa, a dormire sul divano abbracciato al cuscino, dando le spalle alla televisione accesa.
L’indomani, giorno di riposo, Federici andò in Curia, dal suo amico Don Franco, uno dei rarissimi preti che parlava come mangiava. Avevano fatto solo le scuole medie insieme ma non si erano mai persi di vista, e qualche volta erano usciti assieme agli altri e il Don era certo fra quelli più casinisti.
“Ciao, Don, risolvimi un problema”. “Ciao, Sarebbe?”. “Bisogna risalire da una vera matrimoniale al suo padrone. Ce la fai? » « Ci provo ».
Nel 2012 anche il Vaticano è informatizzato e la stampante sputò rapidamente la sposa assassina, Marie Durand, al momento del matrimonio domiciliata in via Galletta al n. 59 interno 1.
Federici andò a mangiarsi la bistecca da Gianni, osteria che cucinava bene solo agli amici. E lui era fra gli amici. Alle tre e mezzo del pomeriggio, dopo essersi mezzo azzuffato con un avventore sul valore di un attaccante della squadra cittadina, complice un dito di vino di troppo, si avviò malfermo sulle gambe verso via Galletta, poco distante.
Era in borghese e il caldo, il vino e l’abbigliamento diedero alla donna che aprì la porta l’idea di avere davanti un qualche muratore venuto a chiedere qualcosa. Le scappò una mezza risata. Lo fece accomodare e andò a preparargli il caffè.
Il soggiorno della signora Marie era in penombra, e questo ne acuiva il senso di tristezza e di disagio. Divani e poltrone erano tanto consunti da non poter più dire di che colore fossero stati, se mai avevano avuto un colore. Un paralume ricoperto di polvere. Tutto grigio. La stessa signora Marie aveva un incarnato grigio che la diceva lunga sulla sua salute, anche a un appuntato.
Mentre Federici avvicinava la tazzina alla bocca lei esordì: “Vedo che ha fatto presto a trovarmi. Vuole sapere perché ho ucciso quel bastardo?”. Il caffè bollente gli andò di traverso e incominciò a tossire con grande strepito. Non si immaginava di certo di essere aggredito in maniera così diretta. Quando si riprese bofonchiò: “Intanto lei me lo dica”.

La donna si mise comoda. “Michel era un grande cuoco, anche se di un’ambizione sfrenata. Voleva essere il migliore del mondo. E il più famoso. Non meno di Escoffier, perlomeno. Io e mio marito eravamo tutta la sua brigata di cucina. A noi proponeva i suoi piatti più nuovi da assaggiare, tutti i giorni e il nostro giudizio era per lui sostanziale. Noi il braccio e lui la mente.
Quando mio marito fu ricoverato in Ematologia, tre settimane fa, gli fu diagnosticata una leucemia mieloblastica. Il medico che mi comunicò la diagnosi mi disse anche che spesso queste malattie sono dovute a tossici, specie composti chimici aromatici.
Mio marito l’ho perso in una settimana.
La settimana successiva l’ho spesa cercando in cucina, certa che Michel avesse usato qualche cosa che non andava bene. Non ho dovuto faticare per cercarla, una boccetta con un liquido denso verde, riposta assieme alle spezie, con una scritta: benzene.
Una piccola ricerca sulla rete mi ha confermato i sospetti.
E quel bastardo lo usava per cucinare: ecco perché tutti i suoi clienti lo portavano in palma di mano e dicevano che i suoi piatti fossero così particolarmente “aromatici”. Non poteva essere diversamente, ma portavano in sé la morte. Noi che tutti i giorni li mangiavamo siamo i primi a volare via. A me non restano molte settimane.
Sono assolutamente convinta che quell’uomo di merda abbia avuto quello che si meritava, e nel momento giusto, quando stava preparando il suo celebrato “bollito con salsine aromatiche”.
Federici aveva ascoltato tutto, partecipando alla rabbia della donna. Si domandò cosa può spingere un uomo ad avvelenare i propri simili ricercando a tutti i costi di soddisfare il loro palato, e non si diede risposta.
Si alzò e borbottò qualcosa alla signora Marie, sapendo che non l’avrebbe più rivista. Lei restò seduta, contenta, se così vogliamo dire, di rivedere presto il marito.
Federici, sulla mensola dell’anticamera, posò la vera.



TORBIDE ATMOSFERE


La coppia al tavolino ha appena finito di bere caffè e acqua minerale. Lei ha un vestito scuro con le spalle nude, anche se al collo ha una pashmina bianca, più volte avvolta. E’ seduta in modo da far vedere buona parte delle cosce, non magre, e se le accarezza.
E’ palesemente sulle spine. Lui, con una polo giallo canarino, sembra più tranquillo. Oltre a essere più vecchio.
Hanno deciso di imbarcarsi in quella nuova avventura, spinti da un pizzico di follia e da giornate gonfie di noia. E’ lei ad avere insistito e lui non ha avuto il coraggio di dirle di no. Magari, quando si arriverà al dunque, lui si tirerà indietro, certo con un gesto elegante, del tutto convinto che è meglio lasciare un dubbio sulla propria virilità piuttosto che dare la certezza dell’impotenza.
La coppia che aspettavano emerse improvvisamente dal tunnel di pietra. Non avrebbero potuto non essere quelli che aspettavano, anche perché, come da accordi, entrambi portavano addosso qualcosa di giallo. Lui aveva capelli più bianchi che grigi, lei capelli ricci e rossastri. La donna seduta al bar guardò bene quest’uomo, col quale aveva deciso di giacere di lì a poco. Incominciò a pensare se puzzava già di sudore. Nulla di più romantico. Concluse saggiamente che una moderata puzza di sudore, ovviamente accompagnata da altre caratteristiche idonee alla particolare bisogna, poteva essere anche accettabile.