domenica 29 dicembre 2013

Sfere

E' tornato a casa, finalmente. E' andato via un martedì pomeriggio, lo ricordo bene. Avevo appena suonato le tre. Un pomeriggio qualsiasi. Se ne è andato come al solito, in silenzio.
Poi per quasi una settimana non l'ho più visto. Percepivo negli altri abitanti della casa, in quei giorni, un'agitazione che si propagava nell'aria, e uno svolgere le quotidiane attività con uno spirito diverso, un sentimento di preoccupazione che non avevo mai notato. Loro continuavano ad andare e venire ma lui in quei giorni non c'era. In compenso il telefono squillava continuamente.
Non è molto che sono in questa casa. Sono stata per anni chiusa nella casa di campagna, ferma, una casa buia e fredda, perché priva di umani. Una casa che un tempo d'estate si animava delle voci di amici prima e di bambini poi, voci accompagnate gioiosamente dall'abbaiare dei cani. Il tempo che io segno era anche scandito dai ritmi della vita quotidiana, i pasti, la raccolta della verdura, di certe albicocche di cui ho sentito per lungo tempo le lodi. Poi il tempo è riuscito, con lo stesso procedere della goccia che scava la roccia, a cancellare tutto: solo i ricordi restano incisi nelle mie sfere, anche se a nessuno sono visibili.
Un giorno mi sono venuti a prendere e, con sorpresa e gioia, ho ripreso il mio servizio in un'altra casa, ma con persone a me familiari, e sono stata messa vicino alla camera da letto. Continuo a ricordare le ore che passano, specie di notte, a chi non riesce per tanti motivi a dormire. Nel silenzio, rotto soltanto da piccoli latrati di un cane sognante, batto tre rintocchi a distanza di mezzora l'uno dall'altro, e annuncio che è l'una e mezza. Lui mi carica con regolarità, e cerca di non farmi mai restare ferma, con l'accanimento di colui che ha la superstizione di credere che la sua vita sia legata, appesa forse, al proseguire delle oscillazioni di un pendolo. Ma a me fa piacere ritornare a essere coccolata, e cerco col mio suono di trasmettere non solo un po' di gioia ma anche i ricordi che, come tutti i ricordi, più sono sbiaditi e più diventano dolcissimi.
Non va più a lavorare, il mio padrone.
Non ho ben capito il perché, non riesco a capire le parole che gli umani si dicono. Capisco, interpreto, o forse invento, piccoli segni, atteggiamenti solo accennati, tonalità della voce. Sono soltanto una pendola della seconda metà del secolo scorso, ricordiamocelo, non un computer di ultima generazione. Però sono una pendola intuitiva, e i miei rintocchi, sempre uguali e sempre diversi, segnano un tempo che ha lasciato solchi profondi.
Non va più a lavorare, in questi giorni. Racconta però, e molto volentieri, a chiunque gli si pari contro, di questa nuova avventura che ha avuto, che, lo capisco da come gesticola, ha avuto per lui lo stesso impatto di un assalto a una nave di James Brooke sul praho di Sandokan, attorno a Mompracem. E si infervora, racconta dei suoi compagni di viaggio, fa vedere certi segni che gli sono rimasti sul corpo. Ma a guardarlo negli occhi si capisce che proprio un'avventura non deve essere stata, almeno dal punto di vista della piacevolezza che accompagna ogni avventura. Non lo vedo poi così divertito.
E racconta anche di questi compagni di viaggio, quello che sembrava morto e che una terribile scossa ha fatto rivivere, l'uomo dalla barba bianca, novello Yanez, e quello che aveva mangiato troppo dopo la battaglia, per la contentezza, e che stava morendo nella più stupida delle maniere. Tutti uomini dai capelli bianchi, e anche al mio padrone i capelli, nel giro di una settimana, sono un po' più imbiancati.
Non riesco però a capire se sia felice o disperato. Certo, raccontare una così grande avventura, e averla passata con poche ferite, lo dovrebbe rendere felice, ma la voce è spezzata nell'attesa impotente di un'altra prova, che lui teme, perché non sa se ce la farà.
E così alterna voce e sguardi di contentezza a momenti, magari quando suono quei tre rintocchi a distanza ciascuno di mezzora, in cui annega nella paura. E' persino anche ironico, a momenti, ma si vede bene che lo è solo per scacciare il panico. Non so davvero se questa avventura sia stata davvero divertente, ma c'è stata. Dovrà pur farsene una ragione.
Non va ancora a lavorare, il mio padrone.
Le bestie che sono in casa girano anch'esse con una certa inquietudine. Lui se le prende in braccio e le riempie di baci, ricordando forse quando in braccio teneva un pargoletto bisognoso di tutto, che adesso guida la macchina. Ma le bestie non sono bambini, sono molto più autonome, specie i gatti, per cui dopo due o tre strofinate si divincolano con agilità e scappano.
Non ha voglia di lavorare, il mio padrone.
L'unica cosa che fa volentieri, e lo capisco bene perché glielo leggo negli occhi, è mettersi ai fornelli e giocare ai pentolini. Dopo la sua avventura (adesso ce lo possiamo dire, una "piccola" avventura, condivisa con tanti umani, che forse a lui è andata anche meglio che a tanti altri) è svogliato e gira per casa come un'anima in pena. Non riesce a fare tutte quelle cose che prima dell'avventura gli riuscivano spontanee e facili, e ogni attività gli pesa. Ma non giocare con i pentolini. Ormai lui è capace a dire "ti voglio bene" soltanto cucinando qualcosa per chi gli è vicino, con il massimo dell'impegno. E il massimo dell'impegno significa uscir di casa la mattina per andare al mercato, e cercare con cura gli ingredienti giusti per quella ricetta, con un foglietto in mano fitto di una lista scritta con minuta grafia, non ancora tremolante per fortuna. E tenerlo in mano durante la spesa con la stessa attenzione con cui il navigante guarda la bussola nella notte senza stelle. E' buffo, il mio padrone. Ormai al mercato qualcuno, non tutti, lo riconosce e lo saluta cordialmente, "Come sta, dottore?" "Oddio, passiamo alla prossima domanda". Ma non riesce a trattenersi, e racconta, per la n-esima volta, la sua piccola avventura di fragile umano, ancorché grassottello, e così si guadagna qualche parolina di conforto, che gli fa bene.
Presto dovrà tornare a lavorare, il mio padrone. E io gli segnerò il tempo dell'uscita e del ritorno a casa, e vorrei che i miei rintocchi siano per lui il segno dell'augurio di quella spensieratezza che si è persa lungo la strada degli anni.
Forse io sono più fortunata di lui, vecchia pendola.




lunedì 26 agosto 2013

NOTTE

Siamo in tre, Tonio, io e il figlio di Salvatore.
E' qualche giorno che aspettiamo, perché il pescatore, amico di Salvatore, per tre sere di fila ci ha negato la partenza, anche se a noi il mare sembrava soltanto un po' mosso. Stasera abbiamo finalmente ricevuto un cenno di assenso.
Dire che ho sempre sognato questa notte passata in barca a pescare è un po' esagerato, soprattutto perché a diciott'anni non si ha un "sempre" dietro le spalle. Però questa notte in cui non dormirò nel mio comodo letto la immagino come un'avventura salgariana, e non mi dispiacerebbe che fossimo attaccati da un praho affollato da pirati vocianti.
Ci ha detto di presentarci alle dieci, ma non ci ha detto come. Il primo errore è stato quello di andarci a mangiare la pizza. Il secondo è stato quello di pensare che in una notte di agosto non ci potesse essere freddo.

Il buio della notte di luna nuova è spezzato soltanto dalla luce della lampara, assai fioca. Comunque siamo partiti, finalmente.
Non saprei dire il perché ma una volta che la prua solca le onde diventiamo silenziosi. Il nostro duca fuma, senza posa. Non ci guarda e non ci parla. La statua di un marinaio, si direbbe. Dirige il timone verso un punto che lui conosce ma a noi è sconosciuto.
Non è passato un quarto d'ora che al più magro di noi la pizza incomincia, lentamente ma con grande risolutezza, a fare il percorso a ritroso. Lui, come noi, cerca di fissare la sua attenzione all'onda separata e illuminata, unico oggetto degno di essere visto. La sua faccia per fortuna no, è così gialla che ci farebbe paura.
Un mugolio ci avverte comunque che la pizza vuole imperiosamente uscire. Per delicatezza (disinteresse?) gli voltiamo le spalle. Ma anche le nostre, di pizze, si dimenano furiosamente.
Il capitano prende qualcosa da un sacco, e glielo porge in silenzio. Scrocchia, sotto i suoi denti. Domattina scopriremo che è un pan secco strofinato con l'acciuga salata. Sta meglio, il giovane, e si accoccola sul fondo della barca, stringendosi le gambe con le braccia.
Non voglio guardare l'orologio e non saprei dire che ora sia. Non mi interessa. Al di là del fatto che ho i visceri in subbuglio e batto i denti per il freddo, mi sento bene.
Tante volte nella vita mi capiterà che una bella cosa sia sempre leggermente rovinata da un fastidioso neo. Un po' come fare l'amore col mal di schiena. Non esiste il piacere assoluto, ma, per fortuna, non lo posso ancora sapere.
La barca prosegue silenziosa. Aspettando i saraceni, o i tigrotti di Mompracem, mi guardo intorno, ma le stelle da sole non mi possono aiutare. Non vedo altre barche, e questo potrei capirlo, però non vedo né terra né orizzonte: un'onda, un'onda sola e improvvisa potrebbe ucciderci in un attimo, e sarebbe una morte infinitamente più bella che sopravvivere, per un caso maligno, nel mare freddo, con la consapevolezza di avere soltanto l'attesa della morte. Non posso ancora aver capito che aspettare la morte è il destino della nostra vita.
In questi pensieri, più di paura che di filosofia, mi accorgo che il motore si è fermato. Il nostro capo ha deciso di essere arrivato. Chissà quanto lontani siamo dalla terraferma.
Si alza e bofonchia qualcosa ai miei due compari, marinai mezzi addormentati di una notte, e incominciano a buttare le reti. Fuma sempre, quell'uomo.
Adesso tutto tace, di un silenzio così greve che mi impedisce di dormire. Anche lo stomaco si è zittito.
E' proprio in questo momento che incomincia quella parte di avventura che aspettavo con tanto desiderio, il momento in cui tutto ciò che hai attorno ti è d'aiuto a guardarti dentro. Solo me e la lampara che illumina qualche sfavillante metro d'acqua.
Il fatto è che "indietro" e "dentro" c'è davvero ben poco da vedere, e di quel poco emergono solo cose tristi, se non proprio dolorose, come certi sabati pomeriggio chiuso in casa...
Del resto io sono fatto così: il Navigatore, se volesse parlarmi con la sua beffarda saggezza, mi direbbe "Se nasci quadrato non puoi diventare rotondo". E se essere quadrato porterà sofferenza, a me e a chi mi sarà intorno, di questa bisognerà in qualche modo farsene carico.
L'amico silenzioso fuma, e darei volentieri le cinquecento lire che ho in tasca per sapere cosa pensa, se mai desideri pensare.
Mi sono persino abituato al freddo. Cerco di capire qualcosa nel disegno delle stelle ma riesco soltanto a realizzare che qualcuna è, chissà poi perché, più luminosa delle altre.
Non ho più nessuna paura. Cerco, e per qualche attimo ci riesco, a sentirmi una sola cosa con questa natura umida che mi è dintorno, voglio essere una stupida tessera di un mosaico del quale non potrò mai conoscere il disegno. Solo un soldatino, una sentinella, forse. Ma sento di avere un mio perché.
Non saprei dire quanto tempo sia passato, e continuo a non voler vedere l'orologio, che anzi desidero slacciare e dare in pasto ai pesci. Non lo faccio solo perché è un regalo della Comunione. Forse un po' mi assopisco.
Quando riapro gli occhi la barca non è più ferma: sta tornando a casa con la stessa serena placidità dell'andata. Ma ora la notte sta morendo, anche essa con grazia e delicatezza. Non vedo più le stelle ma, in compenso, riconosco un orizzonte che, di minuto in minuto, cambia colore. E improvvisamente il cuore mi si riempie di gioia, così come quando, più avanti negli anni, rivedrò dopo lungo tempo una persona cara. In fin dei conti non tutto è morte, c'è anche la nascita. E ogni nascita porta con sé la gioia di una vita ancora aperta a tutto ciò che di più bello si possa desiderare. Purtroppo non lo posso capire completamente, ho solo diciott'anni.
Ma non ce n'è bisogno, vorrei alzarmi in piedi, gridare alla luce, anche un po' anche piangere vorrei..... Il duce, che mi legge dentro anche se analfabeta, mi sta dicendo con gli occhi che ci sarà una nuova notte: "Stai tranquillo, "guagliò".
Arriviamo in spiaggia che il sole non è ancora sorto da dietro le montagne. I pescatori commentano sottovoce il risultato della notte, e capisco dalle loro espressioni che non sono contenti, se mai lo possano essere.
Solo il nostro vecchio comandante ridacchia sotto i baffi, con tre pesciolini addormentati in barca.


"All'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso".

Faber, 1970.


mercoledì 31 luglio 2013

CAMBIAMENTI

Mio padre vuole a tutti i costi che vada ad aiutarlo in ristorante, e io non ne ho nessuna voglia. Non ho voglia di andare a scuola, non ho voglia di lavorare. Ho solo voglia di divertirmi, di uscire tutte le sere con i miei amici e di baciare tutte le ragazze che me lo lasciano fare.
Ma mio padre è pesante! Continua a dirmi che non combinerò mai niente di buono. Forse. Ma è certo che non voglio fare la sua fine, chiuso tutto il giorno a sudare fra il caldo di quattro fornelli, sempre arrabbiato.
Iersera è arrivato a casa più nero del solito. Ho sentito dalla mia stanza che parlava a mamma: "In tutto il giorno solo un cliente....", soliti discorsi, che non ce la fa a pagare la cameriera e tutti gli altri conti. Figuriamoci se io voglio fare quella vita! Ho ben altri progetti in testa, io.
Poco fa è venuto da me e, con un tono che non ammetteva repliche, mi ha intimato di andare al ristorante per tutta la prossima settimana, cosicché metterà a riposo forzato la ragazza, e non la paga. Se è per questo non paga nemmeno me. Ma, visti l'espressione e il tono, non ho avuto il coraggio di rispondergli qualcosa di diverso da "Sì".

E adesso sono qui, con la divisa da cameriere dai bottoni dorati, che mi fa ridere solo a vederla appesa alla gruccia, addosso sarà ancora peggio. La devo indossare solo durante il servizio, così non me la sporco.
Entriamo alle otto di questo lunedì mattina autunnale triste e grigio come il mio umore. Si incomincia a lavorare. Devo sbucciare dieci kili di pomodori: so come si fa, ma sono piccoli e sono tanti. Mi ci metto di impegno, se faccio una cosa la voglio fare bene, anche perché non sopporterei che lui mi trovasse qualcosa da ridire. E dopo i pomodori le patate, gli zucchini. Poi pulire i calamari, attività che odio perché ogni tanto ci trovo dentro un pesciolino, residuo dell'ultimo pasto della vita e mi impressiono da morire. Sono freschi però i calamari, papà è andato al mercato del pesce stanotte alle quattro. Questi pesci, cefalopodi dovrei scrivere, hanno un qualcosa di bello e di armonioso che va oltre la loro breve vita.
Papà ha già cominciato a cucinare, con un occhio su di me. E anche io lo osservo di nascosto, sospendendo per qualche attimo la mia attività, e mi rendo conto che non avrebbe mai potuto fare un mestiere diverso. Parla con sé stesso e con il cibo. Lo coccola mentre lo cuoce. Lo vede trasformarsi e ne gioisce. Anche una "semplice" salsa di pomodoro diventa per lui l'occasione per dimostrare il suo impegno e la sua bravura. Nella sua salsa di pomodoro tutto deve essere perfetto, anche il numero delle foglie di basilico. E la assaggia chiudendo gli occhi, cercando di capire, soltanto con gli occhi del cuore, se tutto sia davvero perfetto. In questi momenti sono orgoglioso di lui e del suo ristorante. Meno quando bestemmia a mezza voce e mi tratta come l'ultimo degli imbecilli. Se vuole lo chef sa esprimere un'ironia parecchio sferzante, e riesce con estrema facilità a farmi imbestialire. La cucina avanti a tutto, e immagino anche avanti a me.
Cerco di non pensarci, a questo padre-padrone, e affetto le zucchine cercando di non lasciarci l'unghia e il dito, come l'ultima volta.
Lavorando il tempo passa veloce. E' già arrivata l'ora di mettere i pantaloni neri, le scarpe nere e la giacca con i bottoni dorati. Preparo i tavoli. L'ultima volta che non ho messo il bicchiere del vino al suo giusto posto, cioè davanti alla punta del coltello e spostato un po' a sinistra, mi ha detto di tutto. Inevitabilmente ho imparato, a mie spese. Ma non è cattivo, intendiamoci: ogni tanto mi sento una carezza sul collo e, voltandomi, vedo che ha gli occhi lucidi. Chissà cosa gli frulla, per quel cazzo di testa brizzolata....
Tutto è pronto. La sala è a posto. In cucina la linea è OK. Mancano solo i clienti. Aspetterò quaranta minuti prima che arrivino, i miei primi clienti di questa settimana di passione.
Sono in due, un uomo e una donna. Lui è corpulento, con un'espressione sorridente, lei, più alta di lui, ha un cespuglio di capelli biondi che le incorniciano il viso, da cui spiccano due occhi profondamente neri. Si siedono a un tavolo rotondo, dietro una colonna, vicini al pass. Almeno cento anni in due. Vecchi, semplicemente. Ma sono clienti, e io devo sfoderare con loro il migliore dei miei sorrisi. Per fortuna non è difficile, perché mi trattano con gentilezza e sono simpatici. Gli porto la carta e vado a prendere il vino. Mentre torno con la bottiglia dello champagne in mano, ghiacciato si è raccomandato lui, li trovo abbracciati e, con le bocche saldate, si baciano come se non si vedessero da anni. Pensavo fossero due amici ma non direi proprio. Mi ricordano certi baci che davo a Giovanna l'estate scorsa. Per nulla intimiditi dalla mia presenza continuano a baciarsi con gli occhi chiusi. Che fare? Provo a raschiarmi la voce e allora lui apre un occhio, e si stacca dolcemente. Ma la mano gliela stringe sempre con tale forza che le dita di lei sono sbiancate. Gli faccio assaggiare il Cliquot: "Va bene", mi dice. Meno male, papà dice che spesso il Cliquot sa di tappo. Ma ho come l'impressione che anche se gli avessi servito Champagne marca "cesso" sarebbe andato bene lo stesso.
Prendo la comanda e appena mi volto sono di nuovo abbracciati stretti, si sono avvicinati persino le seggiole. Mi volto per pigliare il macinino del pepe, che non mi serve, e vedo le mani di lui che le accarezzano delicatamente i capelli. Per tutto il pasto sarà più il tempo che dedicheranno ai baci che quello destinato al mangiare.
C'è qualcosa che non riesco a capire. Ma non si vergognano? Fossero due ragazzi come me li capirei, ma sono due vecchi, queste cose non le dovrebbero fare. Certo, il cliente può fare tutto quello che vuole, ovvio. Ma io mi sento in grande imbarazzo.
Loro due invece, con il massimo della naturalezza, continuano a scambiarsi saliva imperterriti.
"Peccato di non avere nel ristorante un divano letto con tre paraventi", mi sorprendo a pensare, trattenendomi dal ridere ma senza riuscirci, intanto che rientro in cucina con i piatti vuoti. Papà, che mi ha letto nel cuore, avvicina l'indice della mano destra alle labbra. Silenzio vuole. Ma sorride anche lui.
Gli porto infine il dessert. E lui le sta baciando la punta del naso. Lei ha un'espressione di felicità assoluta, mi fa pensare che si prenda tutti quei baci e se li conservi nel cuore. Sono felici, e a un tratto non li vedo più come due vecchi ma solo come due persone senza età, che vogliono solo scambiarsi il loro bene nel mio ristorante.
Oddio, sono bastati due sconosciuti e ho detto "il MIO ristorante", anche se è grazie a papà che questo ristorante ha qualcosa di magico.
Non posso lasciar perdere questa magia. Ho cambiato idea. Voglio lavorare qui.
Quando escono, in fretta e furia perché per loro deve essere tardi, la aiuto a infilarsi il cappotto e le mormoro titubante "Vi aspetto presto nel nostro ristorante". E il suo "certamente" è una promessa.




lunedì 29 luglio 2013

OCCHI

Eloise ha trentatré anni. Jacques ne ha tre. Il papà di Jacques non c'è, è solo il ricordo di una notte d'amore.
Non lo conosceva da molto, Enrico, se poi si chiamava davvero così. Giorni. Si erano incontrati una notte in un bar di Marsiglia, subito dietro il porto, quando lei, stravolta dal caldo, era uscita dal turno di notte della reception dell'hotel, e si era concessa una birra prima di tornare a casa.
Aveva sentito la presenza di quell'uomo ancor prima di vederlo, dietro di lei, ed era così stanca che aveva fatto fatica persino a voltarsi. Ma quegli occhi l'avevano stregata.
Non bello, non alto, non elegante, ma con due occhi che ti leggevano l'anima. Italiano, le aveva detto di essere, e lei aveva pensato subito a quei siciliani che gestivano il traffico delle bionde, bionde come i suoi baffi.
Anche se lei non aveva mai avuto difficoltà a trovarsi un uomo, riusciva a vedere in lui qualcosa di diverso, qualcosa che lei stessa non riusciva a capire interamente, qualcosa che l'aveva indotta a volerlo a tutti i costi. Eloise non era certo una donna "facile", né facile era mai stato conquistarla. Eppure, nel volgere del tempo che ci vuole per bere una birra, si era stabilito fra di loro un flusso molto tangibile, anche se poco descrivibile. Desiderio, amore, altro. Lo lasciò quasi subito e tornò a casa col cuore in tumulto.
Il mattino dopo telefonò al suo capo chiedendo di essere messa tutti i giorni a quel turno che finiva a mezzanotte, da nessuno ambìto, e lo ottenne con facilità. Era una donna sola, libera, poteva gestirsi il lavoro e la giornata come meglio credeva. Non gli aveva dato un rendez-vous per quella notte ma sperava che l'avrebbe rivisto. Dentro di sé ne era certa.
Si fece trovare seduta a un tavolino di quel bistrot, che per alcune notti li avrebbe accolti con dolcezza, con un'espressione di attesa che si sentiva addosso ma che non avrebbe voluto mostrare.
Enrico, quella notte, arrivò a mezzanotte e un quarto. Lei era alla seconda birra, e non riuscì a dissimulare il suo desiderio.
Lui cominciò a parlare a bassa voce ma sommessamente, in un francese carico di inflessioni siciliane, e lei, pur ascoltandolo con attenzione e capendo ogni parola, riusciva lo stesso a dissociarsi e a pensare simultaneamente al fremito che avrebbe provato a farsi accarezzare il seno da quelle dita nodose. Ma cosa aveva quest'uomo di così speciale? Eloise non lo capì mai. Lui parlava e lei ascoltava beata, anche se era indubbiamente un uomo logorroico.
Gli prese la mano e gliela strinse. Lui non si mostrò stupito neanche un po' e ricambio la stretta, con forza. Anche quella sera si lasciarono senza darsi un appuntamento.
L'ultima sera che si videro lei non gli lasciò più la mano, e senza dir niente se lo portò a casa. Il desiderio di essere accarezzata da lui era diventato un'idea fissa e, in quel momento, l'unico scopo della sua vita. Non si sbagliava, comunque. Quelle mani grosse, da contadino, ci sapevano fare. E fare l'amore fu come realizzare il sogno della vita.
Alle sette e quaranta del mattino lui la salutò con un bacio silenzioso.

Non pensava che quella notte, in cui era affogata nei suoi occhi, le potesse costare così tanto. Il posto di lavoro, tanto per cominciare. Le donne incinte non possono stare al banco della reception. E l'albergo non era certo disposto a pagarle un lungo periodo senza farla lavorare. La casa, la sua casa, arredata negli anni con tanto affetto, la dovette lasciare, perché l'affitto era in quella situazione insostenibile.
La cosa che le costò di più fu il doversi riavvicinare ai suoi genitori, che aveva bruscamente tagliato tanti anni prima, per crearsi la sua indipendenza.
Per lei fu incredibile essere riaccolta con grande dolcezza, lei e la sua gravidanza. Quando la videro la riabbracciarono in silenzio, e la strinsero entrambi con grande forza. Eloise gli aveva telefonato il giorno prima, spiegando, non senza imbarazzo, la situazione. Le venne anche in mente, lei che era stata educata dalle suore, la parabola del figliuol prodigo. Le chiesero se preferiva stare lì con loro o che le trovassero, e le pagassero, un alloggio, per lei e per il bambino. Eloise si sentì subito così tanto avvolta dal loro amore che, per la prima volta, dalla notizia di essere rimasta incinta, pianse a lungo, sfogando il terrore e l'incertezza di quel cambiamento di vita così radicale. Restò d'accordo con papà e mamma che avrebbero cercato insieme qualcosa, e che sarebbe rimasta con loro fino a quando non l'avrebbero trovato.

Le sembrava che la pancia le crescesse un po' di più ogni giorno, trovandovi sempre qualche cosa di diverso. Volle andare in sala parto da sola, e volle che i genitori restassero a casa. Arrivati a casa, quella mattina di luglio, lesse nei loro occhi una grande felicità. E anche lei, felice e orgogliosa di questa famiglia così delicata, che un tempo ormai lontano non era riuscita a comprendere, pianse di nuovo, per la seconda e ultima volta in quei nove mesi.

Jacques era un nome che le era sempre piaciuto, il nome di Casanova. Aveva trovato, grazie alla mamma, un piccolo lavoro che poteva fare a casa, scrivere sul computer testi autografi di scrittori, o sedicenti scrittori, forse. Così poteva stare vicina a lui.
Non voleva riconoscerlo e distoglieva il pensiero ogni volta che le veniva ma Jacques aveva gli stessi occhi di Enrico, e le stesse mani, in piccolo ma le stesse. Quando lo teneva in braccio, la notte, per farlo riaddormentare, sentiva lo stesso profumo della pelle del padre, e il suo pensiero riandava a quella notte: un sogno a occhi aperti, proprio come le era sembrato in quel momento.
Ma non aveva rancore, non si domandava perché fosse scomparso. In un certo senso pensava che quello fosse il destino che a lei era stato riservato, e contro il destino non si può combattere. Semplicemente lo accettava.

Una sera, Jacques avrà avuto tre anni, Eloise tornò a casa con un puzzle. Da un po' l'aveva adocchiato nel negozio sotto casa, ma c'erano volute tre settimane di risparmi per poterselo comperare. Vi era raffigurato un corsaro, con la benda nera su un occhio, buffamente vestito e con un'aria da gran bonaccione, barba e baffi biondi, occhi azzurri, sullo sfondo di una notte illuminata soltanto dal chiarore della luna piena, circondata da minuscole stelline. Poco credibile come corsaro ma troppo simpatico. Cinquemila pezzi.
Arrivata a casa spiegò a Jacques di cosa si trattava, ma lui continuava a rimirare il disegno sul coperchio della scatola, e diceva "bello, bello".
Gli spiegò che sarebbe venuta una fatina e che avrebbe messo qualche tessera ogni notte, e così nel giro di poco Jacques avrebbe avuto il suo bel corsaro nero appeso al muro della cameretta.
Tre mesi ci impiegò. L'80% delle tessere era nero come certe notti in campagna sanno essere, notti buie d'inverno, silenziose e solitarie. E così furono le sue notti, buie, perché non si poteva tenere la luce accesa ma solo una piccola abat-jour, silenziose e solitarie. Dopo avere finito di scrivere i suoi scartafacci di scrittori illusi da un successo che non verrà, si applicava a cercare le tessere del puzzle, e trovarne una era un piccolo successo. Gli occhi ci lasciò su quel puzzle.

E quando Jacques la mattina trovava qualche tessera in più, e la veniva a chiamare dicendole "Mamma, hai visto che è venuta la fatina del puzzle?" lei era pervasa da una felicità ancora più grande di quella che, in quella notte, le aveva portato Jacques.  


domenica 21 luglio 2013

Finalmente c'era riuscito (2, la vendetta)

Quella balorda ha avuto il coraggio di telefonarmi. Al terzo tentativo ho tirato su, più che altro per non sentire il trillo fastidioso del telefono. Ho cercato di essere molto formale ma non sono certo di esserci riuscito. Mi ha spiegato di una certa scuola, non ho ben capito, sembrava sincera. Per un attimo ho avuto l'idea di dirle che avevo invitato la mia vicina spagnola, ma poi ho lasciato perdere: si sarebbe accorta che era una cattiva bugia, o una bugia cattiva.
Comunque è riuscita a stupirmi: mi ha invitato a cena sabato sera.

Quel cretino faceva il prezioso...., so benissimo che schiatta dalla voglia di rivedermi e invece mi ha detto che aveva un impegno, che provava a disdirlo, che mi avrebbe fatto sapere. Non so neanche io se faccio bene a invitarlo. Uomo interessante, senza dubbio, forse curioso più che interessante. Assolutamente convinto di essere il miglior cuoco della terra: non ci vorrà molto a smontarlo.
Guida come un animale: è incredibile che abbia ancora la patente. Coltiva un look assurdo, fra il poeta maledetto e il gold standard del barbone. Torvo, a volte, dolcissimo se ne ha voglia. Chissà quanti anni potrà avere, sicuramente ne vuole dimostrare di più.
Certo che quando incomincia a raccontare.... ricordo bene quando l'ho conosciuto: era in quella piazzetta di Genova, nel centro storico, quella impregnata dal fumo degli spinelli. Era un giovedì pomeriggio ed ero uscita con Sara per lo shopping. Abbiamo comperato cose carini e inutili fino alle sette e mezza e, se avessimo potuto, saremmo andate avanti fino alle nove. Stremate ci siamo accasciate su scomode seggiole e abbiamo ordinato due Margarita, col lime, naturalmente.
Siamo state subito colpite da quel nostro vicino di tavolino così poco convenzionale, che raccontava al suo amico, con tono stentoreo, i trucchi per preparare l'anatra all'arancia. Siamo persino rimaste silenziose ad ascoltare. Raccontava e godeva, lo si capiva benissimo. E ogni ingrediente veniva analizzato, e ogni dose spiegata. Il suo amico, probabilmente aduso a tali sproloqui, aveva un'aria vagamente rassegnata ma io e Sara eravamo rapite. E l'uomo dalla barba fatta la settimana prima se n'è accorto. E' bastato incrociare gli occhi.
Ci ha chiesto se fossimo interessate anche noi alla cucina, anzi alla Cucina con la maiuscola, come ha detto. E noi a fare di sì con la testa. Allora si è alzato, ha preso due seggiole e ci ha invitato al loro tavolino. Così, è andato il nostro primo incontro. Son tornata a casa alle nove, navigando con una zattera su quel fiume di parole in piena.
Non potrei dire che non mi abbia colpito. Anche Sara se ne è accorta.

Vuole invitarmi a cena, la pazza. Non sa cosa rischia, ah ah. Finirà che ogni piatto che mi farà (ma quanti ne farà??) passerà sotto l'esame del mio occhio più che critico. Non gliene farò passare una, anche dell'olio le chiederò conto.
Non riesco ancora a rendermene ben conto ma credo di essere felice.

Stasera viene, e sono già pentita. Come puoi dare da mangiare a uno che si racconta esperto di cucina? Devo rapidamente inventarmi qualcosa ma la testa è orribilmente svuotata. Due spaghettini al burro col tubetto di concentrato? Perché no, del resto ho come l'idea che non venga per mangiare, ih ih. Ma voglio stupirlo.
Poco a poco si fanno strada nella mente alcune idee..... le tengo lì. Intanto pulisco un po' la casa. Dovrà essere perfetta. Poi la doccia, con quel bagno schiuma un po' oleoso che mi lascia sulla pelle un profumo molto sexy....
Sono le undici, devo andare al mercato a fare la spesa. La doccia mi ha chiarito il menù, non le idee circa il significato di questa cena. Ma per fare la spesa avere chiaro in testa il menù basta e avanza.
E' questo:
- risotto con verdurine fresche, petto di pollo e curry
- arrosto di filetto di maiale farcito all'ananas, con salsa alla senape profumata di pompelmo rosa
- un dolce al cucchiaio che ho già in mente, con le mitiche macine del mulino bianco inzuppate di caffè, e sopra una crema di panna e yoghurt.
Resterà a bocca aperta.

La donna dai capelli a cespuglio, come amo chiamarla nei miei pensieri, starà lavorando per me.... e io sono qui, stravaccato sul divano a cercare di dormire. Ho una voglia di lasciar perdere tutto. Non riesco ad alzarmi. Ho tre ore ancora. Il barbiere può essere una buona idea. La doccia prima o dopo? Dopo, dài. Tanto lo shampoo lo faccio lì. Magari me lo fa quella giovinotta.... adoro farmi fare lo shampoo: chiudo gli occhi e mi lancio in sogni osceni. Vado, vado......

Sono al mercato e ho voglia di scappare. Sarebbe il secondo bidone, lo so, ma mi è scappata ogni voglia. Ho la lista in mano ma giro a vuoto, non sono concentrata. Devo ricordarmi anche il pane e il vino, e per il vino non so dove sbattere la testa. Finirà che andrò in enoteca col menù in mano, a farmi spellare.

Eccomi a casa. Barba e capelli, e anche le mani, per sovrammercato. Mi tuffo nella doccia. E inevitabilmente incomincio a immaginare questa cena. Come sarà questa casa? Avrà un divano comodo? E come apparecchierà la tavola? Classico o informale?
In realtà sono tutti pensieri che ne mascherano uno solo: perché sono mesi che penso a questa donna? Che cosa mi piace in lei? Quelle poche volte che ci siamo visti, in campo neutro, ho cercato di mostrare sempre il mio lato migliore e forse anche lei ha fatto così. Adoro quella sua voglia di parlare, di raccontarsi, di condividere ogni cosa della sua vita. Una compagna ideale per uno che adora fare viaggi in macchina scambiando tre parole col vicino. Uno che in treno cerca gli scompartimenti vuoti. Oddio, se poi uno ha bisogno di me faccio in quattro ma il primo passo mai. Troppo pericoloso. Quelle tre volte che ci siamo visti mi ha fatto sentire accettato. Il problema è che non credo di avere grandi risorse. Certo come compagno di un happy hour penso di essere perfetto, magari anche di una cena, ma poi.....
Cercherò di fare una buona figura, le racconterò del libro che sto leggendo, "L'uomo che amava le donne". Magari riuscirò a farla divertire.


E' tutto pronto. Mi sono fatta un culo spropositato, sono in un bagno di sudore ma è tutto pronto. Il dolce è in frigo. L'arrosto è a intiepidire in forno.
Ho anche già fatto soffriggere la cipolla del risotto, per guadagnare tempo. Gewurtz Traminer, ho scelto, con l'aiuto del negoziante. Non so se mi ha indirizzato su quel vino per il prezzo. Non voglio domandarmelo. La tavola è pronta. Con le tovagliette, quelle con tanti tipi di pasta, mi fanno allegria. Due bicchieri ciascuno. Ma solo la forchetta e il tovagliolo, piegato come mi ha insegnato mia madre. Mancano venti minuti all'ora X. Friggo, come non mi era mai successo. Cosa avrà mai quest'uomo?

E' stato molto bello. Lei, era molto bella. Il bacino che le ho dato entrando mi ha rivelato una pelle morbida e profumata. Mi ha fatto un Negroni, perfettamente, e mi ha offerto certe pizzette con le mele e il gorgonzola. Ci siamo seduti a tavola piacevolmente brilli.
Le ho fatto i complimenti per la tavola. Una cena che anche io non esito a definire perfetta. Il risotto con le verdurine tutte separatamente cotte, un arrostino con un profumo di pompelmo da schiattare e un dolce che mi ha ricordato le colazioni da bambino. Mettiamola così: se cucina tutti i giorni così me la dovrei s. Ma non lo voglio neanche immaginare.
Il dopo cena, con i Queen sullo stereo, è stato rilassante. Ha parlato lei, e le ho fatto capire che a me piace ascoltarla. Entrambi non ci saremmo fermati più di assecondare i nostri piaceri. Tutto lì. Sono uscito felice, dimenticandomi che mi sarebbe piaciuto che si fosse abbandonata nelle mie braccia, che era un po' l'idea con cui sono entrato in quella casa.

E' uscito. Non volevo chiudergli la porta.
Stasera l'aspetto era certo meglio del solito. Aveva fatto anche la barba. Dargli un bacino quando è entrato in casa mi ha scatenato un brivido che ho sentito fino al quinto dito del piede. Tutto è andato molto bene. Dopo cena mi ha ascoltato con desiderio, guardandomi sempre fissa negli occhi, con quei suoi due occhi ingranditi dagli occhiali da presbite. Veramente qualche volta l'ho beccato con gli occhi sul decolletè, generosamente esposto. Ma li ha tirati subito su. Mi piace parlare, ho tante cose da dire. Mi piace avere un uomo davanti che mostra di ascoltarmi con grande tenerezza. Mi piace quest'uomo. Emette qualcosa di nuovo e di dolce. Perché non gli ho detto di fermarsi a dormire?


Mi ha appena mandato un messaggino ringraziandomi. Mi invita sabato prossimo.......... SONO FELICE.






domenica 14 luglio 2013

Foche

Sei solo in casa in una giornata estiva che sta ricominciando a farsi rovente dopo la pioggia liberatoria della notte e del mattino, che ti hanno comunque permesso di svegliarti (tardi, oggi è festa) non immerso nel solito bagno di sudore. Ecco perché ti alzi momentaneamente separato dal tuo solito schifoso umore.
Hai voglia di qualcosa di nuovo ma non sai ancora bene cosa. Un po' ti senti solo, son tutti in vacanza, la famiglia, gli amici. Un po' stai bene: il telefonino non squilla ancora.
Decidi che incominciare bene la giornata significa farsi il caffè alla turca, del resto è tanto che non lo fai. E' anche il segno che nella tua vita puoi prenderti una pausa, per fare qualcosa a cui tieni. Ti vai a cercare anche quel bollitore che hai comperato ad hoc ma non riesci a trovarlo. Reprimi la prima maledizione della giornata e ti imponi di farne a meno, ma non sarà perfetto.
E' vero, cerchi la perfezione in tutto e in quasi tutto quello che fai riesci a trovare un piccolo neo: ma in genere sei l'unico che se ne accorge. Ti salta anche in testa l'idea di invitare a bere il tuo caffè la vicina del piano di sotto, Encarnation, ti ha detto che si chiama, una spagnola. Ti ha suonato l'altra sera per presentarsi e ti ha lasciato piuttosto impressionato: un cespuglio di capelli scuri tenuto fermo da una pinza, e un sorriso parecchio intrigante, sexy, diciamolo pure. Ha un'irrefrenabile voglia di parlare, l'hai capito subito, e a te, quei cinque minuti, è piaciuto molto ascoltarla. Ti ha detto che canta e avresti voglia di sentirla. Magari la accompagni al pianoforte.
Ma lasci perdere tutto: hai un aspetto che ti fa paura: ti tieni l'opzione per un altro momento.

Anche perché nella mia vita c'è una novità! E mi ritorna in mente improvvisamente....Sì, un nuovo amore all'orizzonte, ma non è così o forse in un certo senso è anche così. Nella mia vita c'è una foca. Una fochina cicciottella, coi suo baffetti ed il bel musino che spunta dall'acqua. Non sono impazzito; è una foca che nuota all'acquario di Genova, in una delle tante vasche che i visitatori possono ammirare durante la visita. E io l'ho adottata! Si, ho deciso di adottare una 'fochina' dell'acquario di Genova... situazione originale, certo, ma ogni tanto è bello uscire dagli schemi che la vita ci impone.
A comperarsi un cane, un gatto od un pesce rosso sono tutti capaci, ma chi potrebbe dire di avere una foca? Io si! Ogni tanto mi collego col sito dell'acquario e posso vedere le sue foto, ora in una posa, ora nell'altra, e fa le capriole felice nella sua vasca, con il suo musino delizioso e buffo.
A volte quando sento pungente il bisogno di vederla, vado all'acquario a trovarla: e lei nuota felice, quasi fosse in grado di riconoscermi fra le tante persone che la osservano ammirate. Si potrebbe anche azzardare che ci capiamo al volo!
E così adesso, mentre sono solo nella mia casa, non mi sento affatto solo, perché penso a lei che nuota felice di avermi incontrato.

Così è la vita!





sabato 22 giugno 2013

La première fois

Siamo in treno, finalmente. Sono le due meno un quarto e il treno, con una lentezza esasperante, inizia la sua marcia. E' un sabato di novembre splendido, e non solo per il sole, che ha la dolcezza dell'autunno. Saliamo su una carrozza un po' vecchiotta, la littorina con i sedili in legno e la fila di porte per uscire. Io, lei e i nostri due amici. E soprattutto i nostri 19 anni.
Andremo a casa loro per questo week-end, in campagna, in val d'Elsa, dove uno dei due ha la casa dei nonni. Non ricordo neanche chi dei due nostri amici sia il padrone di questa casa. Ci hanno detto che è un posto proprio carino ma, ovviamente, potrebbe essere anche l'inferno in terra che non me ne curerei granché.
Non posso proprio dire di essere stanco. Al contrario del mio amico Franco, che fa il lavapiatti al ristorante, io studio, con i modi e ritmi che mi sono più consoni. Sarà per questo che l'anno scorso non sono riuscito a dare tutti gli esami. Lui il sabato dorme tutto il giorno, è l'unico giorno di riposo concessogli dal patron. Ma non si lamenta. Cerca solo di recuperare le forze. La nostra distanza sociale non ci impedisce di essere grandi amici, anche se non ci vediamo molto. Io poi ho questa ragazza che mi porta via il 99% del mio tempo libero. E debbo dire che ne sono estremamente felice.
E' la mia prima ragazza e vorrei proprio che fosse l'unica. La guardo senza farmene accorgere mentre sonnecchia tranquilla, ninnata dal rumore delle rotaie che la spinge ritmicamente contro la mia spalla, su cui appoggia la testa. Sarà felice anche lei, immagino, di questa prima vacanza insieme. E' proprio carina, con i capelli castani raccolti indietro e tenuti da un elastico, che le incorniciano quel visino da bambina un po' cresciuta. La sua amica mi piace di gran lunga meno, ma deve piacere a quell'omaccione del suo ragazzo, non a me.
Non è stato facile convincere i nostri. Ognuno di noi due ci ha messo del bello e del buono, ma alla fine ci siamo riusciti.

Ci aspettano tre ore di treno. Non ho voglia di chiaccherare. Mi accendo la pipa e fumo in silenzio, con gli occhi chiusi. Ripenso a questi due anni.
Ho avuto parecchia difficoltà a trovarmi una donna, principalmente perché ero, e sono, dell'idea che in me non ci sia niente di gradevole e di interessante. E di fisicamente piacevole, anche se non sono basso nè grasso. Chissà fra quarant'anni. Questa ragazza però forse ha saputo leggermi dentro e mi ha accolto con grande gioia. E per questo la mia riconoscenza è infinita. Non so cosa ci riserverà il futuro, anche se credo di esserne profondamente innamorato. Infatti non riesco a trovarle alcun difetto.
E' stata lei che mi ha proposto questo weekend, cogliendo al volo l'occasione offertale dalla sua collega. E mi ha anche promesso che faremo qualcosa in due, qualcosa non ancora fatta insieme. Ho una sciocca paura, se pur piccola, paura delle cose che non si conoscono bene. Ma so che vicino a lei tutto si risolverà.
Il treno continua a cantare la sua monotona canzone, ancora più lentamente, dopo che siamo scesi a Spezia e siamo saliti sul locale per A.
Finalmente arriviamo a M., minuscolo paese. Mi ricorda Rio Bo, che è una delle poesie che ho capito meglio, il paese del cuore. C'è vicino alla casetta un'aia, con un tacchino gigantesco che ha un'aria profondamente aggressiva. Questi animali mi hanno sempre fatto paura, sono meglio nel piatto. Nella casetta ci sono due camere da letto, che sono il motivo per cui siamo venuti, e un soggiorno con angolo cucina. Non ho gran voglia di cucinare, ho la testa altrove, ma è evidente. Mi fa piacere notare che la tv non c'è.
Usciamo con le prime ombre della sera e il loden ci fa proprio piacere. Propongo un aperitivo a un bar. Al bar, perché è l'unico del paese, e l'unico aperitivo che riusciamo a ottenere è un analcoolico in bottiglietta, di marca non ben precisata, così come il gusto. Gli stuzzichini sono un oggetto sconosciuto e il sacchetto di patatine che è appeso a una rastrelliera è ricoperto di polvere. Non cerco la data di scadenza. Però tutti e quattro ridiamo come degli scemi. La felicità è tanta, ci contentiamo di essere vicini e soli, e ogni intoppo diventa un'occasione di divertimento.
Decidiamo di andare dal macellaio, che è un parente loro: qualcosa bisognerà pur mettere sotto i denti. La cosa più semplice da cucinare, non mi piace ancora cucinare, sono le bistecchine di maiale con l'osso, che potranno essere cotte sulla griglia. Non ho ben chiaro in testa il fumo che faranno e penso che siano una buona idea. Cipolla e pomodori per la salsa degli spaghetti, una lattuga. Mele. Vino però un gran fiasco: mi dicono che il vino qui è buono. Ecco preparato il pranzetto degli innamorati.
Nella nebbia delle bistecche Edoardo ci racconta del servizio militare che sta facendo, con toni e accenti veramente comici. Mi faccio l'idea che, non ostante la corporatura, non sia proprio l'alpino perfetto, e rido fra me e me.
Dopo cena le ragazze sparecchiano e lavano i piatti. Che il fiasco resti lì! E, finito il rigoverno, spunta un mazzo di carte, un vecchio mazzo di carte, un po' unto. Cerco di impegnarmi. Noi giochiamo sempre uomini contro donne. Capirò col tempo che è il paradigma della guerra dei sessi. Per ora è solo un piccolo gioco per prendersi un po' in giro, con dolcezza, e chi perde è perché è "fortunato in amore". Si tratta solo di far arrivare una cert'ora.
E quell'ora arriva, e l'ansia che la accompagna nei minuti immediatamente precedenti è tanta. Non riesco a capire cosa lei abbia nella testa e questo mi preoccupa parecchio. Ma magari lei fa questo stesso pensiero. Il buio ci aiuterà.
Sotto le coperte, complice il silenzio della val d'Elsa, si compie questo piccolo rito con grande partecipazione e un po' di sorpresa, certo, e con l'idea di essere cambiati, in meglio.

Il tempo ne lascerà un ricordo un po' fumoso, come attraverso la boccata di una pipa.  



domenica 2 giugno 2013

Nota: nel mio soggiorno polacco ho conosciuto alcune studentesse di Civiltà mediterranea (Studi di cultura), e anche loro hanno scritto qualcosa da leggere al reading finale. Quello di Justyna Kantorowicz mi ha colpito molto e le ho chiesto di inviarmelo per poterlo pubblicare sul blog. 
E' talmente pieno di poesia che troverei offensivo apportare anche solo qualche piccola correzione. Per cui lo posto così come me lo ha mandato.


Era il 26 giugno. Il sole splendeva quella mattina e faceva in giorno molto caldo. Joanna ha deciso di andare il pomeriggio dopo il suo lavoro al parco di Łazienki. Tanti anni fa ci passava tantissimo tempo. Il suo posto preferito era il teatro sull’acqua – il posto delle sue immagini preferite, che le davano la speranza e unica gioia, che le accadeva nella vita.
Stava sempre in mezzo alla platea e stava osservando la scena vuota. Sulla scena vuota poteva accadere sempre tutto, era un posto pieno delle sue immagini, perché nessuno non la disturbava nel vedere e sentire buonissimo spettacolo e di vedere sulla scena le persone scelte da lei, e la protagonista poteva essere anche lei stessa. Sulla faccia sempre triste si vedeva in questi momenti un po’ di sorriso, come se accadesse qualcosa molto importante. In realtà era sempre così, che nel teatro sia vivo, sia morto e vuoto, come esso, accadeva sempre di più, che nella vita reale, anche se la sua era piena di avvenimenti. Semplicemente lo spettacolo aveva sempre la fine, e la vita non finiva mai, era solo un brano più lungo, o più corto, di tutto lo spettacolo. 
Joanna è venuta anche questa volta a sedersi, la sua faccia era molto più matura, di quella che aveva l’ultima volta quando ci è stata. Aveva 40 anni, anche se sembrava essere molto più giovane. Sedette in mezzo alla platea, accavallò le gambe, accarezzò una scalina con le dita della mano. Il suo corpo era molto leggero come una piuma, e l’anima pesante piena di pensieri. Perché sto proprio qui in mezzo alla platea? – si domandò. - Dovrei stare di là sulla scena. 
Stava guardando la piccola siepe che chiudeva la entrata. Questa palizzata che mai non le lasciava entrare le dava un sentimento di debolezza e di rabbia.
Perché sono nata proprio qui? – Pensava. Perché in Polonia? Perché a Varsavia? Polonia – il paese di tanti talenti che si sprecano. Varsavia – la città dove vincono quelli, che hanno l’armatura innata che circonda il loro cuore. Dove è il mio libero arbitrio? Dove è?
Se fossi nata in un altro paese, se la mia vita fosse stata più felice, molto probabilmente canterei nel teatro dell’opera. Se fossi stata più forte … Nel mio carattere da bambina si mescolava la voglia di cantare davanti alla gente e la vergogna e paura di loro. La natura artistica che mi costringeva a tutte le creatività artistiche e la natura filosofica e pessimistica, che mi faceva andare indietro e mi chiudeva in me stessa. Tutto non è stato come dovrebbe essere – il mio marito e la sua morte, la rinuncia del canto dopo aver finita l’Accademia di Musica, poi questo lavoro nel piccolo negozio per poter sopravvivere. Dai suoi occhi cominciarono a uscire le lacrime. Si alzò e cominciò ad avvicinarsi lentamente alla siepe, che si poteva saltare facilmente per entrare sulla scena. Si fermò davanti ai palini di legno e guardava se non c’era vicino nessuna guardia, che la potrebbe fermare. Non c’era nessuno. Tagliò le sue scarpe con i tacconi, che aveva messo proprio per andare in questo incontro con il teatro. Saltò con la velocità sopra la siepe dove era scritto “non entrare” e attraversò il ponte di legno. Entrò scalza sulla scena. Andava intorno al palcoscenico di pietra. Il suo volto era ancora pieno di lacrime, ma grazie al pianto sentiva già meno dolore e meno amarezza, dopo qualche passo si fermò, chiuse gli occhi. Stava fortemente sul palcoscenico. Sentiva come se i suoi piedi si rimarginassero con la terra, e come se la terra respirasse grazie a lei. Il suono di musica dell’opera le girava in testa. Il suo palato era già alzato, la laringe abbassata, la mandibola sciolta. Dopo che aveva preso il respiro ancora più profondo, cominciò a cantare. Era una delle bellissime arie di opera “Halka” di Moniuszko. Anche se lei non fu lasciata apposto da un uomo vivo a causa di un’altra donna, fu lasciata sola a causa della morte di Michele. Così capiva bene la tristezza nella quale non era più né speranza né voglia di vivere.
Adesso però si sentì come se lo potesse vedere, come se lui potesse arrivare da lei, abbracciarla e dirle, come sempre faceva: “Abbi forza. Non avere paura!”, e perciò canto l’aria che era ancora piena di speranza, l’aria nella quale Halka ancora credeva che Jaśko sarebbe venuto. La voce di Joanna era bellissima, delicata, ben condotta. Si sentiva, che aveva finito l’Accademia di Musica. Cantava “tornerà Jaśko, tornerà”, immaginando il suo Michele morto. E lo vede - la sua immagine nella prima fila di platea. Era piena di sorriso, a la guardava con orgoglio, era felice dei successi di Joanna. 
E lei, adesso, le cui lacrime sono state già asciugate dal sole, cantava con il suo piccolo sorriso. Quando finì le sembro che Michele fosse venuto sulla scena per abbracciarla, che le desse una forza nuova. 
Andrò negli Stati Uniti per cantare – pensò e lì troverò dei buoni insegnanti e tornerò al canto.
Mentre faceva queste immagini, sentì la voce che parlava, e si sentì come se qualcuno la destasse dal sogno. Era un uomo alla guardia del parco.
Esca subito dal palcoscenico – disse.
Lei stava stupita e lo guardava con curiosità, non si mosse. Lui ripeté la commenda e disse: Purtroppo lei deve pagare la multa. Ha cantato bene, brava! Però non c’e giustificazione. Non si entra là. 
Ma non ho soldi, veramente non c’e l’ho. Mi lasci andare! – Rispose.
L’uomo le guardava un po’ senza dire niente e alla fine la lasciò andare. Lei pensava allora all’assurdità dei suoi pensieri precedenti del viaggio negli Stati Uniti., ma dall’altra parte le rimase un po’ di forza dopo l’appuntamento con il suo marito morto. 
Farò quello che posso fare – pensò – anche se la mia ambizione di fare qualsiasi cosa fosse determinata. Voglio cantare. Adesso è importante che voglio. Perché non tutti e non sempre hanno questo dono di avere voglia. Sono determinata e artefice della mia sorte.








domenica 26 maggio 2013

FARSI DEI FILM


Un attimo prima che attraversiamo la Ulica Nowy Swiat, nell'attesa del semaforo verde, lo vedo, con gli occhi del volto e con quelli del cuore.
Non avrà 50 anni, ne sono sicuro, ma ne dimostra molti di più. Ha un'aria stanca.
Anche se oggi è freddo porta solo un impermeabile sfoderato che una volta doveva essere bianco, adesso è grigio, con un alone più scuro attorno al colletto. La barba non se la farà da almeno due giorni, nera, e contrasta sgradevolmente con il pallore dell'incarnato. Il naso è importante, quasi dantesco, gli occhi semichiusi, volti a pensare qualcosa che non può condividere con nessuno. Non ha quasi più capelli.
Non ostante abbia una borsa che da noi si associa alla figura del medico sicuramente non sta andando a fare una visita: ha un'aria soltanto smarrita e addolorata.
Forse ha perso un malato...

Un attimo prima giravo senza meta cercando qualcosa, sotto questa fredda pioggia polacca, che trasmette un'intrigante malinconia. Ebbene l'ho trovato. Non ho impacci, l'ombrello l'ho lasciato in albergo, in un impeto di ottimismo un po' napoletano.
Voglio capire se è davvero medico. Voglio seguirlo, pedinarlo. Qualche volta l'ho seguita una persona, ma a quel tempo era soltanto una ragazza con un viso splendido, che mi aveva rapito sull'autobus. Adesso la cosa è più seria. E l'età più avanzata. Non posso permettermi di farmene accorgere, non avrei una buona giustificazione.
Uno spruzzo di una pozzanghera schiacciata da una automobile che corre - chissà, forse gli hanno telefonato che è nato suo figlio - battezza in un certo senso questa mia decisione. E l'acqua fredda mi arriva fino all'alluce.

Trascorro dieci minuti a inseguirlo discretamente, o almeno così vorrei. Gli uomini di Varsavia hanno il passo "largo". Si ferma a un portone nero e suona il citofono. C'è una panchina lì vicino e mi siedo, vorrei con noncuranza. Forse l'inseguimento è già finito. Mi sento a disagio, come se ogni persona che passa affrettata sotto questa pioggia opprimente, capisse che io sono lì per lui. Non so dove mettere le mani. Fumo, come sempre. L'umido mi penetra nel collo che gradualmente si irrigidisce fino a diventare duro come il legno. Se mi potessi guardare allo specchio vedrei un uomo col collo storto.
Finalmente esce, il disgraziato. Sotto il braccio che non sostiene la cartella porta un grosso involto di carta di giornale. Non riesco a immaginare cosa possa essere, e mi incuriosisce sempre di più.
Adesso il passo è più veloce, per fortuna. Si inoltra in una viuzza stretta, ulica Warecka, mi sembra che si chiami. Devo tenerla a mente, potrei averne bisogno. Sbuchiamo in una piazzetta interna e lo vedo entrare in un bar. Lo seguo dopo dieci minuti.
E' molto bello, qui.
E' un bar ma è anche un cinema, con pareti ricoperte di poster di film famosi che in parte riconosco anche se il titolo è incomprensibile. Tavolini e divanetti sono disposti con garbo, bianchi. Essendo completamente fradicio mi sembra una buona idea sedermi e prendere qualcosa. Del resto è entrato qui, posso ben aspettarlo, anche se non lo vedo.

Mi dedico al mio sport preferito: guardarmi intorno.
Arriva, non proprio subito, un camerieretto. Avrà sedici anni e i capelli biondissimi. Ha un'aria un po' compunta. Marek, ho sentito che lo chiamavano i colleghi. Mi chiede cosa voglio, in polacco naturalmente. Faccio finta di essere un inglese e gli ordino una birra. Non mi viene in mente nient'altro da ordinare, o almeno il corrispettivo inglese. E' furbo il ragazzo: capisce al volo che non sono inglese. Portami questa birra, dai, senza starci troppo a pensare!

Tre tavoli avanti a me ci sono due donne, due amiche immagino. Mature è la parola gentile che mi viene in mente per definirle. Parlano davanti a due tazze, tè o cioccolata. Una delle due ha un vestitino color nocciola a pois bianchi, un filo di perle al collo, due orecchini pendenti. Porta la vera. Una pettinatura bionda a caschetto. un naso con un bel profilo. La sua amica ha un'aria un po'paesana, certo meno raffinata. Parlano animatamente.
E' arrivata la birra, e finalmente e me la assaporo a piccoli sorsi. E' buona la birra, qui. Queste due donne mi incuriosiscono davvero, ma non capisco un accidenti di quello che dicono. Sembra che la più anziana, quella con i capelli bianchi, consigli, o comandi, alla più giovane di non fare qualcosa. In effetti ha un'aria piuttosto vissuta. Un nuovo amore, forse. Ecco, sì, la biondina racconta all'altra di questo suo nuovo amore, un diplomatico greco di passaggio in Polonia, che lei ha conosciuto durante un'incontro ufficiale all'ambasciata greca di Varsavia, e dopo cinque minuti di conversazione lei aveva già una voglia insopprimibile di baciarlo. La sera poi si sono rivisti in un piccolo ristorante e si sono raccontati le vite fra il primo e il secondo piatto. Non vite brevi, anzi. Semmai spiccate capacità di sintesi. E adesso lei ha chiesto consiglio alla sua migliore amica, perché lui le ha proposto di lasciare tutto e di scappare in Grecia.
Infatti è un po' perplessa, la sua amica, e manifesta questa sua perplessità con una mimica molto facilmente comprensibile. Forse le consiglierà di non lasciare il vecchio marito ormai malandato. Ma lei, con un ciuffo ribelle che le cade sul viso continua imperterrita nell'esternare l'intenzione di scappare. Per sempre. Hanno un minuto di silenzio. Sembra che entrambe raccolgano le idee. Anche io. Poi, con mia somma sorpresa, i loro volti si avvicinano e le mie due nuove amiche si baciano, in maniera appassionata e indiscutibile. Un lungo bacio che, devo dire, mi stupisce e mi intriga. Si fermano soltanto quando realizzano che le sto fissando, ed entrambe mi tirano un'occhiataccia, come se volessi ficcanasare nel loro privato.

Distolgo lo sguardo, allora, per non rischiare serie conseguenze. Anche io devo raccogliere le idee: chi l'avrebbe detto, come potevo capirlo. L'ostacolo della lingua diventa un trampolino di lancio per una fantasia perversa.

Nel frattempo, senza che me ne accorgessi tanto ero assorto, è entrato nel bar un gruppo di ragazzi, che a poco a poco incominciano, dopo la prima wodka, ad alzare il tono della voce. E' un felice brusìo, voce di gioventù serena. Mi infastidisce piacevolmente. Avvicinano parecchi tavoli a farne uno solo e si siedono tutti intorno.
Ordino un'altra birretta al mio piccolo amico, che poi non sono birrette, te ne portano mezzo litro per volta.
Mi stordirò dolcemente. Che cantonata ho preso con le due lesbiche!!! Un po' mi vien da ridere. Ma magari qualcosa ci avevo acchiappato, bastava cambiare il sesso di un personaggio e tutto sarebbe anche tornato. Compresa la riappacificazione finale.

A un tratto, anche se immerso nelle mie riflessioni, mi rendo conto che le luci si spengono, e il locale resta illuminato soltanto dalla luce proveniente dall'esterno. I ragazzi si sono zittiti improvvisamente e anche gli altri clienti sono incuriositi.
Si apre una porta ed entra...... ma è lui! Il mio medico triste! Ma non è un medico, è un cuoco, molto orgoglioso di portare un vassoio con uno splendido tacchino farcito alla moda americana, tutto punzecchiato di stelline scintillanti. Ecco cosa aveva dentro il giornale!
Ma guarda! Ma chi l'avrebbe mai detto! Adesso ha un'aria molto goduta nel sostenere la sua creazione, decorata con tante bandierine americane. Si è anche fatto la barba. Quando le luci si sono accese posa il tacchino al centro del tavolo e incomincia a sporzionarlo, e a servirlo nei piattini di carta agli astanti. Al termine, dato che ne ha consumato molto poco, si volta e il suo sguardo incrocia il mio. Mi porge con un gesto cortese un piattino, che io non rifiuterò certamente.
Grazie, sconosciuto cuoco polacco. Se solo sapessi il film che mi ero fatto su di te il tacchino me lo metteresti per cappello. Ti faccio il migliore dei miei sorrisi. E mangio.

Varsavia, 25 maggio 2013




martedì 14 maggio 2013

VECCHI


Era parecchio che non ci andava. Ettore si era tenuto quel piccolo desiderio per troppo tempo.
Un giro al Luna Park. Solo un semplice giro al Luna Park. A Pescara non era come a Roma, dove il Luna Park dell'EUR è permanente. A Pescara viene una volta all'anno, da inizio dicembre a più o meno metà gennaio.
Ogni anno si riprometteva di tornarci e ogni anno, quasi sempre per ottimi motivi, certo, si ritrovava al 10 gennaio sapendo che il Luna Park non avrebbe finito la settimana. E gli restava un discreto amaro in bocca. Sapore dell'infanzia, ma mica solo dell'infanzia.
Ricordava bene le numerose volte che c'era andato con papà. Solo un po' più grandicello si era accorto che anche a papà piaceva salire sulle attrazioni o parteciparvi, e che lo faceva non soltanto per accompagnarlo.
E mentre da piccolino quella presenza a fianco era lo sprone ad impegnarsi allo spasimo, ad esempio nel tiro all'orso con il fucile – orso che più che altro muggiva – pochi anni dopo l'averlo vicino lo riempiva di orgoglio.
Non ci sarebbero voluti tanti anni che quella presenza sarebbe diventata fastidiosa, sostituita, ma solo per l'adolescenza, dagli amici. Ricordava Ettore, molto distintamente, anche quel biglietto da 10, abilmente sfilato dal portafogli di papà, per pagarsi il Luna Park, andandoci quando e con chi avrebbe voluto lui. Aveva quindici stupidi anni.
Intanto la ruota girava del tutto inesorabilmente ed Ettore si era ritrovato in un batter d'occhi con i suoi, di figli, a recitare la stessa parte, per la quale si sentiva del tutto inadeguato. Motivo per cui, anche se non poteva sapere cosa avrebbero pensato i bambini, si adattò a farla, nello stesso modo in cui immaginava l'avesse recitata papà.
E il tiro all'orso mugghiante continuava a essere lì, gettonato specialmente da Robertino, che voleva continuamente gareggiare con lui. Lo metteva in piedi sul bancone e lo aiutava a sostenere il fucile, più lungo di lui. La bambina preferiva tirare le palline nella vaschetta dei pesciolini rossi, e non riuscendo a centrare il piccolo buco, si finiva inevitabilmente, per non farla lacrimare, col pesciolino rosso in mano, acquistato, non vinto, che mai era durato fino a Carnevale, anche quando la Pasqua era bassa.
Queste cose pensava Ettore dentro di sé.
E poi gli anni erano passati, i bambini cresciuti.
A lui era rimasta questa specie di voglia, di divertirsi in maniera spensierata al Luna Park, o almeno di far finta di divertirsi, ma se non altro farlo bene.
Il problema è che non puoi essere spensierato se i pensieri ce l'hai, specie se sono svariati. E fra l'altro non puoi farti un giro al Luna Park e andare sull'autoscontro da solo, non puoi scontrare i ragazzi. Nella migliore delle ipotesi ti prendono per un vecchio rimbecillito, nella peggiore per un maniaco. E non hai nessun bisogno di fare quattro chiacchiere in questura.

Nello stradone che porta al Luna Park, dopo una cert'ora, c'è la possibilità di avere compagnia a pagamento. Il sabato sera, anche dopo quell'ora, le attrazioni continuano a funzionare.
Irina, si chiama la ragazza. Con la minigonna anche la settimana prima di Natale. Mi fa malinconia e basta. Non suscita ancora altre reazioni. Concordiamo un compenso orario, ora in cui lei farà tutto quello che voglio io. Tre ore possono essere un buon inizio, per non stare solo. Dopo avere ricevuto il permesso del cosiddetto fidanzato torna da me e me la prendo sottobraccio. Avremo dieci minuti di cammino, dieci minuti per conoscerci.
E' rumena. Cerco di farla un po' raccontare, mi piace ascoltare i racconti. Ma ha una certa difficoltà con la lingua, no, non in quel senso lì. Con la lingua italiana.
Con l'intenzione maligna di farla spaventare la prima giostra che le propongo è l'otto volante, giro che lei sostiene con grande naturalezza, anzi, ne vorrebbe un secondo. E' per me che sarebbe troppo.
Entriamo allora in quella attrazione dove c'è un percorso da fare al buio, a piedi, con improvvise luci e rumori, e fili pendenti dal soffitto, e scheletri che compaiono all'improvviso, e spifferi gelidi. Dammi la mano Irina, e gliela prendo. Tutto devi fare, tutto quello che voglio. Si diverte la ragazza, forse non ha neanche vent'anni. E più lei si diverte e più io mi immusonisco, perché non riesco a divertirmi come vorrei.
Provo a trascinarla dal sempiterno tiro all'orso, forse è davvero lo stesso padrone di quando ero bambino. E sfoggio la mia abilità. 20 su 20, e poi 40 su 40. Grande Ettore. Batte le mani e ride divertita, mi dà persino un bacino sulla punta del naso. Sbaglio, e so il perché, ma le chiedo di provare anche lei. E la aiuto a sostenere il fucile, come facevo con Robertino, cosicché la posso abbracciare. Ma non ne azzecca uno. Ci viene regalato il mitico peluche, visti i denari spesi.
Irina, lo vorresti un krapfen? Quei bei krapfen il cui olio di frittura viene gelosamente tramandato da un anno all'altro? Perché no? Tre morsi, dicansi tre. La ragazza ha appetito, del resto le cosce non sono propriamente magre.
La imbarco infine in quella giostra costituita da piccole carrozze che girano in tondo, Avalanche express mi pare che si chiami, e durante il giro a un certo punto le vetture vengono ricoperte da un tendone che porta il buio. Tipica giostra da innamorati, è per questo che ci sono voluto salire.
Si diverte come una pazza, e la forza centrifuga me la spinge addosso. Approfitto del buio e le do un bacio, su una bocca in cui il sapore del krapfen e il profumo del rossetto di bassa qualità si mescolano. Tutto posso fare, ricordatelo. Mi restituisce il bacio con grande impegno. E' tenera Irina.
E' passata un'ora, la voglia di Luna Park me la sono levata. La riporto dal fidanzato.
Ho voglia di abbracciarla e lo faccio, stringendola con tutte le mie forze.
Domani è il mio ultimo giorno di lavoro.




lunedì 13 maggio 2013

Bottiglioni


La psichiatria, dopo un periodo in cui era "di moda" andare dallo "strizza", è approdata in televisione, e lì affascinanti attori/psichiatri ricevono altrettanto affascinanti attori/pazienti, in sedute altamente inverosimili.
Glamour è la parola d'ordine: tutto deve essere glamour, compresa l'umana sofferenza che di suo non lo è granché.
Che si provino, i grandi cineasti, a filmare una visita in un ambulatorio del servizio di igiene mentale dove vado tre mattine alla settimana. Di glamour non c'è traccia; forse, a guardare con occhio smaliziato e corrosivo, l'unico spettacolo che viene in mente è il circo, non solo per la varietà che si presenta all'osservatore ma soprattutto per la malinconia che traspare, come un alone di fondo, in ogni "numero" presentato.
E lo psichiatra a cui passa davanti agli occhi questo film di miseria e di tristezza deve innanzitutto fare i conti con il senso di assoluta frustrazione che quegli incontri gli procurano.
E non c'è stipendio, o onorario professionale, che possano ripagare il sentirsi sgradevolmente impotente. L'errore che fa il mondo è pensare che lo psichiatra lavori per il denaro. Probabilmente lavora soltanto per punirsi.

L'altra sera ero di turno per l'ospedale. Una serata estiva, con l'aria ancora densa del caldo della giornata; serata in cui fai l'andirivieni fra il soggiorno e il bagno per rinfrescarti, perché sei in un bagno di sudore ineliminabile, e non respiri neanche bene, a volerla dire tutta. Davanti alla televisione le immagini si sfuocano e si mescolano con quelle che hai dentro. Ti mancano i tuoi bambini. Avresti voglia di sentire le loro grida, anche se le zittisci sempre. Volti di uomini, del passato e del presente. Ti accendi la tua sigaretta per tenerti sveglia: non sia mai che chiamino dall'ospedale e tu stai dormendo: non lo sopporteresti il casino che ne verrebbe fuori.
Due boccate e inizi a russare, perché hai il naso chiuso da morire. La sigaretta ti cade in grembo e ti bruci una coscia. Altro giro in bagno, bestemmiando per l'ustione. Questa volta sotto il rubinetto ci metti tutta la testa, col tuo cespuglio di capelli che ti ostini a considerare radi, anche se sai che a lui piacciono. L'acqua fredda ti dà un barlume di lucidità e riconosci quel volto allo specchio, quelle belle labbra, e in un flash ricordi gli uomini che le hanno baciate, volti che ricordi con grande precisione, nei lineamenti e nel carattere, e ti sovviene anche l'ultimo, che non vuoi ancora baciare.
Il naso continua ad essere completamente tappato: è la maccaia.
Quasi quasi ti piacerebbe che il telefono squillasse: anche se sei una donna ti stai davvero rompendo i coglioni, in questa serata irrespirabile di luglio.
L'angelo custode dei giovani psichiatri, maligno come sanno esserlo soltanto certi tumori, esaudisce nel giro di tre minuti la richiesta del tuo inconscio.
"Ciao Paolina, sono Salvatore. Abbiamo bisogno di te. C'è il solito barbone strafatto che fa casino. Vieni e dammi una mano perché ho solo due alternative: o la dose di serenase buona per una giraffa o lo butto dalla finestra direttamente, anche se siamo solo al pianterreno". Salvatore scherza sempre, è un ottimo diagnosta ma con i pazienti è negato. L'anatomopatologo dovrebbe fare. Cadaveri e vetrini. Vetrini e cadaveri. "Dammi il tempo di vestirmi. Cinque minuti".
Mentre mi infilo i pantaloni mi ricordo che ultimamente lo scooter fa i capricci: ci mancherebbe anche questa. Eventualmente chiamerò un taxi.
Salvatore mi abbraccia quando arrivo. E' proprio un bravo ragazzo e ha avuto sempre, come ancora adesso leggo nei suoi occhi, un desiderio di me molto evidente, evidente non solo per uno psichiatra con un po' di esperienza ma anche per tutti quelli che gravitano intorno al pronto soccorso. Le nostre strade però non si sono mai incrociate. "Vai nel box 3, il toro scatenato è tutto per te". "Dammi un camice". "Eccolo". Mi avvio senza paura, aspettandomi un energumeno. Non voglio pensare a Sara, che qualche anno fa in una situazione come questa si è buscata un coltellata.
Apro la porta scorrevole e cerco di capire rapidamente cosa succede e chi ho di fronte. La magrezza mi colpisce subito, più di tutto il resto. L'espressione è torva, mi sembra incazzato come una vipera. "Buonasera, sono la Dottoressa Zoppi". Come se non avesse parlato nessuno. Va avanti e indietro come una fiera in gabbia. E borbotta fra sé e sé. Mi arriva uno sbuffo alcoolico nauseante: deve avere fatto un bel pieno. Continua a fare come se non ci fossi. Sergio, si chiama. Ha 45 anni ma li porta da schifo. Sulla camicia, piena di macchie, ha un giubbotto jeans logoro. I pantaloni li sta perdendo: è già arrivato all'ultimo buco della cintura.
Devo assolutamente catturare la sua attenzione, altrimenti non se ne esce.
"Sieda un attimo, ci fumiamo una sigaretta" gli dico offrendogli il pacchetto delle Marlboro. Buona mossa, si siede al mio fianco, con un po' di difficoltà perché l'equilibrio è quello che è. Più che fumare succhia avidamente, e la sigaretta se ne va in una boccata. Gli metto il pacchetto davanti. Il contatto c'è stato.
"Sente delle voci?". "Sì, la sua".
Mi hanno insegnato che la domanda è stupida ma fino a un certo punto: la risposta ti permette di avere un'idea della lucidità del tuo interlocutore.
Mi chiede, con un gesto cortese, di potersi servire liberamente delle Marlboro. "Fai pure" è il senso del mio gesto di risposta.
Per un attimo i nostri occhi si incrociano: nei suoi leggo miseria, solitudine, tristezza infinita. Chissà lui cosa legge nei miei.
La mia diagnosi è che Sergio avrebbe soltanto bisogno di essere abbracciato da qualcuno. Qualcuno che non c'è. L'unico abbraccio che può permettersi, a buon mercato, è quello col bottiglione di vino. E più bevi e più dimentichi il bisogno di essere abbracciato.
"Le metto su una flebo di vitamina: vedrà che si sentirà meglio in pochi minuti". Spenge la sigaretta, mogio, e si allunga sul lettino senza rimostranze: si vede che si sente veramente male. A essere sincera nella flebo ci metto anche qualcos'altro, solo per farlo sentire un po' meglio.
"Stia tranquillo, fra cinque minuti di orologio son qui da lei". Non mi risponde ma ha capito. Gli appoggio la mia mano sulla sua e gliela stringo leggermente.

Utilizzo quei cinque minuti per telefonare alla signora che ha chiamato il 118, impaurita dalle escandescenze, più violente del solito, del vicino di casa.
Mille volte ho sentito questa storia, declinata nelle sue più varie accezioni ma sempre tragica, e mai mi ci sono abituata. Mamma e figlio da soli, chiusi in un cerchio magico cui contribuisce anche la misera pensione di lei, con i bisogni ridotti all'essenziale, in una relazione che esclude ogni altra persona. E quando la mamma muore il cerchio si spezza, il vuoto non è colmabile e il vino e le sigarette riempiono, come possono, giornate tutte uguali, e diventano i tuoi principali interlocutori. Ti bastano solo la poltrona e la televisione.
Cosa cazzo può fare un semplice psichiatra? Niente, solo fargli passare una notte più tranquilla del solito. Oltre ovviamente a restare con l'ennesimo amaro in bocca, per non essere stato in grado di fare qualcosa per Sergio. E' per questo che adesso mi sento uno schifo, non per i vestiti appiccicati addosso.
Ogni giorno che passa sono certa di avere sbagliato mestiere, anche se non saprei immaginarmi di farne un altro.
Vado da Sergio. La flebo lo ha tranquillizzato. Il respiro è superficiale. Deve essere stato anche un bel giovanotto. Trattengo a fatica il desiderio, forte, di dargli un bacio, anche se è sporco e puzza.
Vado a scrivere il referto della visita psichiatrica di pronto soccorso, mi levo il camice e me ne vado, più triste e più dubbiosa di ieri.