Solo una piccola spiegazione.
Pitch è un foglio con dieci righe scritte. Deve colpire la fantasia di un produttore di Hollywood e convincerlo, con la lettura di un minuto, a fare un film con quella storia.
E' il compito che l'apprendista scrittore si è prefisso in questi giorni in cui fa anche un breve corso di scrittura per il cinema.
Si augura pertanto che i suoi pochi ostinati lettori vogliano dirgli con grande franchezza se questa storia ha un barlume di originalità.
Donatella è medico pediatra, prepensionata. Va ogni tanto in Ospedale perché i colleghi la chiamano: lei sa leggere nella sofferenza di un bambino.
Alcuni anni fa ha perso un bambino e, insieme, il marito.
Un giorno visita un bambino che porta lo stesso cognome del marito e gli assomiglia da morire: capisce che è il figlio di lui. Questo bambino ha pressapoco l'età del figlio che lei non è riuscita a far nascere.
Donatella sa benissimo cosa ha il bambino. E' combattuta tra il suo dovere di medico e il desiderio di punire il marito che è scappato. Insiste per vedere il padre e lo minaccia di non curare suo figlio. Vuole vederlo piangere.
Il giorno dopo si attarda a parlare col bambino, come avrebbe fatto una mamma.
Donatella darà la dritta giusta ai colleghi. La febbre incomincia a scendere.
Un blog dove ho infilato le cose che ho scritto, più o meno alla rinfusa, per non perderle e per condividerle
giovedì 24 gennaio 2013
lunedì 21 gennaio 2013
La tigre
L'appuntamento era alle quattro e mezza, per fortuna non troppo presto, così da non avere ancora il pranzo sullo stomaco, né troppo tardi, per permettergli di tornare a casa a un'ora decente, senza suscitare sospetti e in tempo per la cena.
Uscito dal lavoro con la più classica delle scuse, il dentista, intanto che guidava gli venne da chiedersi da quanto tempo era stato stabilito quell'incontro. Non riusciva a ricordarlo con precisione, giorni, certo, ma il giorno preciso in cui gli aveva scritto "vieni a prendere il caffè da me alle quattro e mezza" non riusciva proprio a ricordarlo. Frase ambigua, senz'ombra di dubbio.
Ricordava invece molto bene la sensazione che aveva avuto leggendola: quella sensazione, provata poche volte nella vita, di avere a disposizione i denti e il pane.
Già molti anni prima il suo cuore aveva sobbalzato per quella donna. E infatti a quel tempo ci aveva provato, almeno come lui era capace di farlo, ma la liason si era a un certo punto bloccata contro un ostacolo, che lui, più o meno inconsapevolmente aveva frapposto.
Di recente c'era stato un riavvicinamento, forse perché lei, uscita da una qualche storia disastrosa, aveva sentito il bisogno di ricominciare subito. E quindi, nel breve volgere dei giorni compresi fra febbraio e aprile, si era conquistato quell'invito, "vieni a prendere il caffè da me".
La tigre abitava da sola, in un palazzo storico del centro di Mantova, nel quale il padre le aveva lasciato qualche appartamento, in uno dei quali aveva messo a vivere la figlia, ben controllabile. A quel tempo aveva un paio di anni più di lui. Aveva sempre coltivato una smagliante forma fisica, che era la sua maggior fonte di gioia. Faceva un lavoro normalissimo, che lei considerava di grande importanza: al di là di questo neo era una donna carina, giovanile, aperta, e non dava certo l'idea della tigre. Lui la vedeva con gli occhi velati dal sentimento e molto difficilmente avrebbe immaginato come sarebbe andata a finire.
Lui era un ometto qualsiasi, non insignificante, si badi bene, ma una persona comune nel più ampio senso della parola, con un lavoro comune, se pur discretamente retribuito, una famiglia comune, una moglie e due figli e una comune mancanza di qualsiasi interesse. L'età e la gola gli avevano fatto aumentare troppo il giro vita, e per lui la forma fisica era soltanto il ricordo della giovinezza. Cercava di lavorare poco e di mangiare tanto quando è a tutti noto che bisogna fare il contrario.
La sua "ossessione fondamentale" erano le donne. Non riusciva a vedere o a parlare a qualsiasi donna senza immaginarsela fra le proprie braccia, bisognosa di affetto e parimenti pronta a darne. Anche le donne casualmente incontrate nell'ambito del suo lavoro, un ufficio pubblico, suscitavano in lui fantasie molto perverse, come ad esempio un viaggio in pullman da Mantova a Venezia con la mano stretta nella mano, senza alcuna necessità di parlarsi, oppure qualche bacio ben dato su quel muretto appena fuori da paese natìo, in una luminosa notte d'agosto, su quel muro dove le coppiette si distanziavano spontaneamente di una cinquantina di metri. Insomma il nostro eroe voleva vivere una vita da quindicenne, e non voleva rassegnarsi all'idea di avere quarant'anni di più. Forse, e dico forse a ragion veduta, a quindici anni queste cose gli erano mancate, lasciando un vuoto che reclamava di essere riempito.
La tigre invece aveva sposato il primo amore, quello che probabilmente le aveva dato a quindici anni quelle cose che ad Alberto erano mancate. E aveva cercato di tenerselo stretto il più possibile, anche donandogli una figlia. Del marito della tigre non abbiamo notizie precise: certo è che a un certo punto si trovò un'altra, che poi avrebbe anche sposato, e lasciò la tigre sola senza tanti discorsi.
Alberto intanto si cercava un parcheggio. E un fiorista. Se vai a casa di una donna, e c'è anche una remota probabilità che scopi, è forse opportuno che tu faccia il signore, foss'anche la prima volta della tua vita. Obbligatorie le rose rosse, col gambo lungo, appena sbocciate, come l'illusione del vostro amore. Non gli bastarono i liquidi che aveva in tasca: usò il bancomat, incurante della traccia. Però un mazzo degno di una regina, pensò lui infilandosi nel portane con difficoltà. "Suona al tredici", gli era stato detto.
Si ascoltò il cuore: batteva, certo, meno velocemente di quello che si sarebbe ragionevolmente aspettato.
La porta di casa era socchiusa.
Venne risucchiato dalla bocca di lei, senza una parola. Le rose caddero sul tappeto. Erano entrambi circa della stessa altezza per cui il bacio poté protrarsi a lungo - oggi chi mai potrebbe dire quanti minuti? - in un silenzio interrotto soltanto dagli schiocchi delle lingue.
Già da quel momento però, anche se piacevole oltre ogni dire, la mente di Alberto vagava, gli affioravano alla coscienza ovvi rimorsi e meno ovvie fantasie che con quel momento e con quel contesto non avevano niente a che fare, tarli di un momento di felicità. E lui non ci poteva fare niente.
La tigre lo trascinò verso la camera da letto e lui la seguì con difficoltà, con le labbra ancora appiccicate dalla saliva di lei. Pensò alla trasmissione del virus della mucca pazza, attraverso le secrezioni.
Fu molto più veloce la tigre, a spogliarsi, priva di qualsiasi pudore, felice di esibire il suo corpo statuario, mentre lui, anche se fosse stato l'Apollo del Belvedere, avrebbe avuto la stessa difficoltà a svestirsi. Si sentiva molto più Efesto e il levarsi i calzini gli costò parecchio.
Oltretutto con la finestra aperta, "sta tranquillo, tanto non ci può vedere nessuno". "Tranquillo un cazzo, stupida, come fai a non accorgertene".
In quell'attimo il pensiero parassita fu la fuga, poco proponibile dall'ultimo piano.
La tigre gli si avvinghiò addosso: praticamente lo immobilizzò. Sempre in silenzio, come a seguire con diligenza un suo preciso piano strategico. A dir il vero anche lei ebbe un attimo di perplessità, forse abituata a ben altro genere di reazioni, o almeno a una qualche reazione.
Soffocando una risatina si applicò a cercare di ottenere, questa volta necessariamente in silenzio, quel tipo di risultato che avrebbe alla lunga potuto soddisfare anche lei.
Niente, era come avere a che fare con un condannato a morte. Comunque anche questi tentativi si protrassero a lungo e, come nel caso dei baci di poco prima, non possiamo precisamente dire per quanto tempo. Alla fine del quale entrambi reputarono saggio accendersi una sigaretta.
giovedì 17 gennaio 2013
Lavasecco automatica
I
Walter
era appena arrivato a casa, non erano ancora le nove. Era andato in
lavanderia a fare il risciacquo delle macchine, a stirare una
considerevole pila di camicie e aveva anche lavato per terra. Tutto
era stato lasciato in ordine.
Quella
lavanderia suscitava in lui sentimenti ambigui: certo, era la
principale fonte del suo sostentamento, e in quei tempi non era poco,
ma era allo stesso tempo una schiavitù, un dovere quotidiano che
veniva inevitabilmente avanti a tutto. E a tutte.
Essere
il dominus di una lavanderia automatica, aperta 24 ore su 24,
richiede energie spirituali non indifferenti, per cui la vita di
relazione di Walter era pesantemente condizionata, e ogni
appuntamento a una cert'ora doveva essere interrotto, proprio come
Cenerentola, con la quale Walter si sentiva, a parte la differenza di
sesso, profondamente affine.
Aveva
provato, una volta che aveva conosciuto una bionda particolarmente
intrigante, ad affidare la gestione di un paio di serate a un giovane
pugliese, associando le banconote del compenso a una check-list molto
dettagliata di cose da fare. Gli era sembrata un'idea perfetta:
nessuno avrebbe potuto sbagliare. Quello invece c'era riuscito e i
soldi che Walter aveva speso per far riparare una delle tre lavatrici
lo avevano indotto a rinunciare per sempre a un aiuto esterno.
Arrivò
a casa con l'umore a terra, come da qualche tempo a questa parte.
Il
suo medico aveva deciso di costringerlo a mettersi a dieta e quindi
in frigo c'erano solo cavolfiori bolliti, tre giorni prima, e una
mattonella di crescenza, a un angolo ricoperta da una polverina
verdastra. Acqua, naturalmente, a volontà. Nella fruttiera alcune
mele, ma non di quelle buone. Anche la lampadina appesa al soffitto
trasudava malinconia. Per un attimo fu sul punto di reinfilarsi il
cappotto e di andare in trattoria, almeno per vedere qualche essere
vivente. Si sedette invece a tavola e incominciò a sbocconcellare il
pane rimasto, ultimo tozzo della sua preparazione domenicale da un
kilo di farina integrale. Era buono il suo pane, anche il giovedì.
Accese lo stereo: la radio trasmetteva l'ouverture del Pipistrello, e
con un tale brio che, anche se odiava il ballo, gli venne voglia di
alzarsi, di abbracciare una seggiola e di fare un giro attorno al
tavolo. Bello Strauss, però. Si aprì una scatoletta di sgombro:
voleva festeggiare.
Dopo
mangiato incominciò a fumare, naturalmente tossendo, e si accomodò
davanti al computer, la sua personalissima finestra sul mondo.
Walter
cercava, con grande accanimento, notizie di cronaca in tutti i
giornali on-line del mondo, ma notizie particolari: le notizie che
lui chiamava “quelle che fanno bene al cuore”. E quando ne
trovava una ne gioiva e la archiviava accuratamente per poi potersele
andare a rileggere nel momenti di più cupa disperazione, perché
malinconico lo era sempre.
Quella
sera, che non avrebbe dimenticato, trovò del tutto casualmente un
banner, cioè una réclame, di una telecamera “da guardia”.
Questo aggeggino permetteva di riprendere locali anche di una certa
metratura e aveva persino l'audio incorporato. Era facilmente
occultabile perché l'obiettivo aveva un diametro di quattro
centimetri e poteva essere gestita dal telefonino.
Oddio,
non era proprio a buon mercato. Walter pensò ad alta voce che la
sicurezza del locale sarebbe notevolmente aumentata. In realtà era
la possibilità di ascoltare e vedere i clienti non visto, che gli
procurava una sorta di eccitazione sessuale. Ma non voleva rendersene
conto.
Decise
di comperarsela, del resto era parecchio che non si faceva un regalo,
e secoli che non riceveva un regalo, anche se faceva finta di
dimenticarselo. Scrisse i numeri della carta di credito e premette
Invio.
II
Adesso
stare a casa era più divertente, era come andare in trattoria ma un
po' più stimolante, perché i clienti della lavanderia, ignari di
essere visti, erano del tutto liberi nell'espressione di sé stessi.
Passando
i giorni Walter imparava a conoscerli e a riconoscerli, e a farsi
un'idea – al limite sfruttabile anche a fini commerciali – del
tipo medio che frequentava il suo negozio.
E
il tipo medio che frequentava il suo negozio era come lui, il
classico tipo “solo come un cane”, con una qualche piccola
disponibilità economica che gli permetteva di non doversi lavare la
biancheria da solo, ma non molto di più. Impiegati, commesse, gente
con abiti dimessi, tristi anche questi come i loro padroni.
Gente
che non aveva ancora perso la dignità dell'abito in ordine, anche se
giacche e pantaloni erano di colori talmente diversi fra loro da fare
a pugni. Era quella l'unica violenza che potevano permettersi.
Giovani e meno giovani, accomunati dalla voglia di trovare una
qualsiasi scusa per stazionare a casa il meno possibile, dove li
aspettava un tavolo e un letto vuoto.
I
giorni passavano e Walter trovava che quell'attività di piccolo
spionaggio gli aveva un pochino migliorato la vita. Non è che
facesse i salti dalla gioia, intendiamoci, però arrivava a casa con
una certa curiosità, e stava intere serate davanti al monitor del
computer a vedere la telenovela della realtà. E più la sera
avanzava e più gli incontri si facevano curiosi.
L'avevano
colpito in particolare due persone.
Erano
comparse in TV pressoché nello stesso periodo e, nel giro di poco,
avevano incominciato a parlarsi sempre di più e sempre più
volentieri. Walter, senza fare troppo caso a quello che si dicevano,
vedeva le loro espressioni cambiare di giorno in giorno, e dopo
qualche tempo era riuscito a percepire, molto facilmente perché la
conosceva benissimo anche lui, un'evidente espressione di ansiosa
attesa negli occhi del primo arrivato. La stessa espressione che gli
faceva venire in mente come stava lui quando aspettava quella donna
che per un certo tempo gli aveva fatto dimenticare la sua solitudine,
anche se poi, per dirla chiaramente, non gli aveva concesso neanche
un bacio. E lui alla fine non era riuscito a reggere al tormento di
quella passione non corrisposta. Ma non gliene faceva una colpa.
Capiva bene che l'amore non si può ottenere facendo qualcosa. Si
dona, se si vuole.
Si
concentrò sui due piccioni.
Ogni
volta che Walter osservava la donna cercava di mettere a fuoco dove
l'avesse già vista, ma era difficile ricordare. Una sera il
flashback si schiarì, e la vide cantare in quel teatro dove era
andato parecchio tempo prima. Una cantante, quindi.
Era
una bella donna dai capelli lunghi e scuri, leggermente radi, alta,
con un'espressione aperta e un sorriso intrigante da morire. Veniva
due o tre sere alla settimana, dopo le sei, probabilmente all'uscita
dalle prove. Portava con sé un grosso sacco di biancheria. Non può
essere soltanto la roba di due persone, pensò Walter. Caricava la
lavatrice e si sedeva dolcemente sugli sgabelli, con un giornale in
mano, senza alcun desiderio di leggerlo. Nel giro di un quarto d'ora
arrivava lui. Ancora più alto di lei, miope da morire, con
un'andatura dinoccolata.
Non
caricava nemmeno la lavatrice. Posava il sacco, quello sì di un
single, e incominciava a parlarle. Dopo i primi incontri il volume
della conversazione era diventato veramente basso, nonostante la
manopola del volume fosse al massimo, e non era neanche possibile
leggere il labiale perché si parlavano all'orecchio, stando seduti
l'uno a fianco dell'altra.
Lei
annuiva e rispondeva, qualche volta sorridendo. Chissà cosa le potrà
mai avrà detto lui per farla ridere.
Dopo
qualche tempo lui si fece più intraprendente e una sera che Walter
era arrivato tardi li sorprese mano nella mano. Lui aveva
un'espressione difficilmente cancellabile dalla memoria.
L'espressione di chi non ha niente ma è convinto di avere tutto.
Felicità allo stato puro. Felicità che trascendeva, molto
semplicemente, il tempo e lo spazio. Felicità di un attimo, certo,
ma un attimo che vale cent'anni.
Quanti
anni avrà avuto quel giovane? Forse gli stessi anni che avrebbe
avuto suo figlio, se fosse nato.
Quella
sera Walter andò a dormire con così tanta tristezza addosso che
avrebbe voluto chiudersi dentro un cassetto.
Ma
come tutte le cose belle anche i due giovani, dopo pochi mesi,
finirono per non venire più alla lavanderia e a Walter restò sempre
la curiosità di sapere che fine avessero mai fatto. E soprattutto se
avessero continuato ad amarsi.
Non
si sentì più di accendere la telecamera.
Una
domenica andò al canile municipale e si prese il bastardo più magro
e sparuto che ci fosse.
Ricominciarono
insieme a riempire il frigorifero, e lo stomaco.
giovedì 3 gennaio 2013
Anna e Paolo 2: il commissario Pelle
Il Commissario Pelle non
sopportava quelle sveglie improvvise, quelle telefonate nel mezzo della notte
che gli ricordavano quella ricevuta dall’ospedale, quando suo padre era morto.
Per cui arrivò sul luogo
dell’omicidio incazzato e isterico. Farina, il suo assistente, caì al volo che
non era il caso di contrariarlo: il Dottor Pelle in fin dei conti era un buon
cristo e un apprezzabile superiore.
Era un ometto troppo grasso per essere alto soltanto un
metro e sessanta, con una vistosa pelata incorniciata, solo dal di dietro, da
una banda di capelli nerissimi e ricci spessa due dita, e con due baffoni a
cespuglio, corvini anche loro. Gli occhi, azzurri come il cielo, erano poco
verosimili, tanto che i suoi colleghi pensavano che Pelle si tingesse i baffi e
i (residui) capelli. Il suo problema era solo l’avvicinamento inesorabile del
giro vita all’altezza, che ne faceva sostanzialmente un cucciolo di leone
marino, un’otaria baffuta.
Incontrandolo per la strada non
poteva non indurre al sorriso. Del leone però aveva il carattere e il segno
zodiacale, e ben lo sapeva chi,per propria sfortuna, aveva dovuto subirne
l’interrogatorio, feroce. Pelle portava un vecchio basco comperato a Genova e
un cappotto grigio logoro e con il 50% dei bottoni, per cui a vederlo girare di
prima mattina non dava certo l’idea di essere uno dei più fini segugi della
Polizia di Ferrara. Sembrava piuttosto un barbone, accompagnata in caserma da
un agente in divisa, che invece era il suo assistente. Pelle sapeva benissimo qual’era
l’impressione che dava il suo aspetto, cionondimeno lo coltivava e in un certo
senso se ne gloriava. Era mancino e,
per sua fortuna, era sempre stato assecondato in questa sua differenza: lui
riteneva, non senza qualche ragione, che avere l’emisfero cerebrale destro
dominante lo potesse aiutare a capire quello che passava per la testa degli
umani, che poi era proprio il suo mestiere.
Si riteneva un bravo cuoco, e
quindi era del tutto rassegnato a quell’impressionante giro vita. Con suo hobby
allestiva cene per intimi amici, non meno di venti per volta, che si
trasformavano in saturnali.
Detto questo è ben facile
immaginare che anche lui lavorasse per la pagnotta, come tanti, e coltivava il
sogno di un ristorantino con venti sedie, non una di più.
Pelle voleva bene a Farina,
cionondimeno quando era incazzato anche Farina doveva starsene a distanza di
sicurezza, perché se no le grida si sentivano da un piano all’altro della
caserma.
Quella mattina era comunque di
umore pessimo, per la levataccia e per la digestione nulla delle trenta
acciughe ripiene della sera precedente; eppure si era bevuto una bottiglia di
Traminer, tutta, per digerire bene.
Entrò dentro la pizzeria,
abbagliato dalle luci accese. Sul fondo, vicino al bancone del pizzaiolo, era
disteso per terra a coprire il cadavere un lenzuolo, troppo piccolo, dal quale
spuntavano a un’estremità caviglie e piedi, nerissimi. Due belle caviglie e due
bei piedi, ancorché di taglia superiore
al 40, dentro scarpe nere senza tacco, non prive di una certa eleganza, notò
Pelle.
Si guardò intorno: una pizzeria
come tante altre, forse un po’ deprimente per il troppo neon. Qualche seggiola
per terra, lo spigolo del bancone del pizzaiolo sporcato di sangue.
Pelle prese un angolo del
lenzuolo e lo spostò il più delicatamente possibile, per scoprire completamente
il corpo. Il volto era tumefatto e coperto di sangue, un’orbita apparentemente
svuotata, alcuni denti rivolti all’indietro. La fisionomia della donna non era
più riconoscibile. Pelle ebbe un senso di sconforto, pensando alla ferocia che
si era accanita su quel volto, ferocia senza senso. Il resto del corpo, invece,
non presentava segni di violenza, almeno a un primo esame. Sembrava una donna
giovane, con un gran bel corpo, un bel seno e due bellissime gambe, vestita con
una divisa da lavoro che finiva ben al di sopra del ginocchio. Con la stessa
delicatezza Pelle rimise a posto il lenzuolo: rispettava i morti, chiunque
fossero stati, figuriamoci quella povera ragazza.
Si sentiva uno straccio. Fece chiamare
la scientifica.
Si allontanò di qualche metro e
si mise a sedere a un tavolo, per interrogare il patron della pizzeria, che
aveva trovato la ragazza. “Per favore mi porti subito qualcosa da bere” fu la
prima frase di Pelle. L’uomo, sorpreso, rispose però con grande prontezza
“Stravecchio?” “Perfect, ma porti la bottiglia”. L’uomo andò al bar, prese la bottiglia e un bicchiere e tornò a
sedersi. Pell esi era già acceso la sigaretta, incurante dell’assenza del portacenere
sul tavolo. L’uomo si rialzò e andò a prenderlo.
L’interrogatorio, ma non era un
interrogatorio, fu breve. L’uomo raccontò che la ragazza era un’emigrata dal
Rwanda, da molto in Italia e con i documenti in regola. Lui l’aveva assunta da
pochi mesi e le aveva dato in affitto il bilocale sopra la pizzeria, scalandolo
dallo stipendio, s’intende. La ragazza era cameriera e donna delle pulizie, e
questo spiegava la sua presenza nel locale alle sei del mattino. I pasti li
consumava lì in pizzeria. Giorno di libertà: il mercoldì, giorno di chiusura
della pizzeria. Lamentele: nessuna. Cosa facesse il mercoldì a lui non era dato
di saperlo. Uomini: mai visti.
Pelle lo interruppe chiedendogli
se fosse sposato “certo, con tre figli di 5, 4 e 3 anni”, rispose con malcelato
orgoglio. Pelle avrebbe anche voluto chiedergli se aveva la televisione in casa
ma era sicuro che non sarebbe stato capito.
Quello che gli interessava vedere
l’aveva visto e quello che voleva sapere l’aveva saputo. Era già sicuro che
quello era un delitto commesso da uomo o donna che dieci minuti prima di farlo
non ci pensava nemmeno. Ci doveva essere stata una scintilla.
Gli chiese infine, spegnendo col
pollice la terza sigaretta, chi fossero gli avventori della sera precedente.
L’uomo ricordava una comitiva di una ventina di ragazzi, una terza media a
occhio e croce, arrivati presto e andati via presto. Poi, sul tardi l’uomo
ricordava una coppia di adulti, ben vestiti, forse usciti dal teatro. Lei era
molto bella, rossa di capelli. L’uomo
ricordava bene che, entrati entrambi di buon umore e sorridenti, uscirono
immusoniti, forse perché l’uomo aveva rivolto un complimento di troppo ad
Aisha. Di tutto ciò Pelle prese nota diligente.
Erano arrivate le 9. “Farina! Andiamo a fare colazione!” gridò Pelle, alzandosi e infilandosi il cappotto. Il primo caffè del mattino lo pagava sempre lui.
martedì 1 gennaio 2013
Fontane
Giannino era contento da morire quando gli dissero che
sarebbe andato dalla zia Angela. Non succedeva spesso ma quella volta mamma e
papà si erano, finalmente, decisi a fare quel famoso “viaggetto” in Costa
Azzurra, che poi sarebbe durato un paio di settimane. E quindi, per custodire
il Killer, si erano rivolti ad Angela, cugina prima di mamma, donna minuta ma
volitiva, mite nell’apparenza ma ferrea nelle decisioni. Temporaneamente sola,
pertanto ottima per tenere a bada il Delinquente, provare a fargli fare qualche
compito, insegnarli un po’ di educazione. Oltretutto cuoca raffinata, e con
gran gusto estetico per i piatti da portare in tavola.
La casa della zia Angela era a un dipresso dal mare e lei
contava di stancare la Belva con lunghi bagni mattutini, così da potersi godere
almeno un paio d’ore di pace nel pomeriggio, durante le quali Attila avrebbe
dormito. Mai calcoli furono più smentiti dai fatti!
Restava comunque il fatto, di
molto tranquillizzante, che per qualsiasi emergenza Paola, la sorella sposata
di Giannino, era presente in città, e a lei Angela avrebbe potuto rivolgersi
per ogni bisogna o, al limite, per la riconsegna del “pacco” alla legittima
famiglia, cosicché papà e mamma avrebbero potuto terminare tranquillamente il
loro giro.
Paola non aveva preso con sé in
prima battuta il Ciclone perché il suo sposo, dopo l’incendio della camera da
letto, le aveva imposto di non farlo mai più entrare in casa.
Giannino dal canto suo non stava
più nella pelle: sapeva che avrebbe fatto i bagni in uno splendido mare, che
avrebbe mangiato benissimo e che avrebbe avuto la libertà di rovistare ogni
angolo di quella che aveva sempre considerato una casa affascinante.
Finalmente venne il gran giorno:
Giannino si preparò con grande cura la sua valigetta, non quella dei vestiti, a
cui aveva già pensato mamma, ma quella con gli utensili necessari ai suoi
giochi: il coltellino americano, di gran lunga migliore di quelli svizzeri, con
quella pinza-tenaglia che tutto tagliava, le forbicine, la pinza con i denti di
topo, tutta roba “presa a prestito” dall’ambulatorio del babbo, una domenica
pomeriggio.
A Giannino la zia piaceva:
entrambi giocavano molto sull’ironia, anche se lui aveva solo 12 anni, e fra
loro era un continuo fiorire di battute e di risate. La vacanza incominciava
davvero con i giusti presupposti.
Quella sera lo Scapestrato mangiò
un po’ svogliato, anche se la zia gli aveva fatto una meravigliosa quiche al
salmone, perché lui aveva la testa da un’altra parte. Aveva adocchiato uno
scatolone non abbastanza ben nascosto che esternamente aveva un’immagine molto
allettante, una specie di fruttiera a tre piani, marrone, con scritto sopra
“fontana di cioccolatte”. Neanche nei sogni più sfrenati il Terremoto si era
mai immaginato che esistesse una fontana, attrezzo di per sé stupido e inutile,
dalla quale uscisse il cioccolatte.
Tanto disse e tanto fece che
riuscì a convincere la sfortunata zia: la prese semplicemente per stanchezza.
Lo Scriteriato in questo era un grande maestro: riusciva infatti a mettere a
perdere gli umani intorno con un tale impegno che nessuno gli poteva resistere
più di dieci minuti.
Del resto anche la zia aveva una
certa curiosità, perché quell’aggeggio, vinto a una fiera di beneficenza, non
aveva ancora avuto l’occasione di usarlo. E mal gliene incolse. Decisero in
armonia che lei sarebbe andata a comperare il cioccolatte (questo sì svizzero!)
e lui avrebbe letto con attenzione le istruzioni.
Anche questo ben presto si
dimostrò errore concettuale gravido di conseguenze nefaste.
Un kilo di cioccolatte comprò la
zia, perché se si fa si deve fare bene.
Il Mostro la rassicurò sulla
grande semplicità di funzionamento dell’apparecchio, desunta dal libriccino di
istruzioni, redatto in otto lingue e la zia, incautamente, non domandò all’Assassino
quale era stata la lingua letta. Costui le disse che per sciogliere il
cioccolatte sarebbe bastato aggiungere un po’ di Calvados, e Angela, presa
anch’essa dall’entusiasmo, non si domandò che cosa il Calvados avesse a che
fare con tutto questo.
Il Demente le spiegò, con fare
molto scientifico, che mentre lui metteva in funzione l’arnese lei avrebbe
dovuto pelare al vivo arance e mandarini, e fare cubetti di un centimetro di
lato con mele, pere e ananas, e infilzarli
tutti in lunghi stecchi, così poi da avere in mano spiedini pronti da inzuppare
nel cioccolatte, solidificato un attimo dopo essere stato tirato su.
Era davvero in gamba il suo
Giannino, pensò con una punta di orgoglio Angela, e sapeva il fatto suo. Lo
lasciò armeggiare in sala e lei si ritirò in cucina a pelare la frutta.
Dopo un quarto d’ora entrò in
sala reggendo un magnifico vassoio carico di frutta: ebbe come l’impressione
che qualcosa non fosse al suo posto ma non riuscì nell’immediatezza a capire
cosa fosse.
Il Fetente guardava rapito la
fontana, che, ben lungi dall’emettere cioccolatte emetteva soltanto un sordo
rumore, che ricordava la centrale di Fukushima 30 secondi prima
dell’esplosione. Il cioccolatte, sciolto, avrebbe dovuto, volendolo, risalire
lungo una vite senza fine per uscirne in cima, in marroni rivoletti che
dovevano fare tre salti come le Marmore. Questo nelle intenzioni e nelle
aspettative. La realtà fu di molto più tragica. La macchina infernale sputava, con sempre maggiore potenza,
catarroni di cioccolatte in tutte le direzioni, soffitto compreso, per cui in
pochi attimi poltrone, tappeti, quadri e muri, vennero spruzzati da questa
diarrea gocciolosa. Angela ebbe un attimo di smarrimento, Giannino di estasi,
in accordo con la sua natura maligna.
Con un urlo lacerante la zia si
avventò sulla fontana e strappò il filo dal muro, ma non così velocemente da
non ricoprirsi a sua volta di cioccolatte al Calvados.
Adesso l’Abominevole batteva le
mani, possiamo ben dirlo, felice.
Inutile rimarcare il fatto che la
valigia dei vestiti non venne neanche aperta.
Angela finì di pulire il mercoldì
mattina, perché si era di sabato. Resistette al desiderio di buttare la fontana
nella spazzatura ma solo perché non c’era ancora la differenziata “oggetti
diabolici”.
Omaggio a Vamba, a Pellegrino Artusi e,
naturalmente, ad Angela
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