martedì 26 febbraio 2013

Chat


La possibilità che il mondo moderno offre, quella di parlarsi, e di conoscersi, attraverso la rete, era stata da entrambi ampiamente sfruttata.
Lui era un anonimo impiegato della banca principale del Paese, e il suo unico compito consisteva nel contare i soldi, per otto ore al giorno. Tornava a casa esausto, perché sapeva che se i soldi fossero mancati ce li avrebbe dovuti rimettere di tasca propria. Certo, lui era parecchio preciso ma un errore può ben capitare a tutti.
Aveva un amico, sarebbe meglio dire un conoscente, col quale passava alcune serate al mese, non molto eccitanti: giocavano a carte, si giocavano un centesimo a punto, e lui contava i punti con la stessa pignoleria che usava al mattino per il denaro.
Il suo cane era il trait d'union con il mondo: lo obbligava a uscire due volte al giorno, a vedere qualche essere umano, a scambiare due parole.
Nel complesso si sentiva abbastanza demoralizzato.
Non si lasciò scappare quindi l'occasione, offerta dalla Banca, di fare un corso di informatica, perché l'argomento lo interessava e soprattutto perché il corso lo avrebbe liberato dalla schiavitù della conta per una lunga settimana. Decise che avrebbe fatto il corso con l'abito blu, quello delle cerimonie.
Il corso non era male: avere a disposizione quella macchina diabolica era affascinante. Giorno dopo giorno, aiutata dalla direttrice del corso - una brunetta dai lunghi capelli ricci, e con due occhi scuri e profondi molto sexy - imparò a usare Office, a navigare in internet, a usare la posta elettronica.
Imparò anche a chattare.
Parlare con qualcuno standosene comodamente seduto in poltrona, magari in mutande e pantofole, lo intrigava da morire. E infatti il mercoldì si comperò il computer. La linea telefonica tradizionale non era molto veloce, ma per la chat sufficiente.
In meno di mezzora trovò un'anima con la sua stessa pena, tale Anna24. Quella sera l'approccio fu piuttosto timido, dopo un quarto d'ora decisero entrambi di salutarsi educatamente.
Però lui andò a letto lievemente eccitato, e faticò a dormire. Pensava alla faccia di Anna24, si domandava se il giorno dopo l'avrebbe ritrovata, e se mai fosse riuscito a conoscerla. Chissà se era sola o con marito e figli, chissà che lavoro faceva. Se avesse potuto costruirsela gli sarebbe piaciuta paffutella, con i capelli neri e cortissimi, con due occhi egualmente neri, vestita con una divisa bianca, un'infermiera, chissà. Magari non altissima. Finalmente si addormentò.
La sera dopo erano entrambi lì, alle ventuno, precisi come sa essere solo la morte. Dal che lui ne dedusse che Anna24 era proprio "come lui".
Lui si era dato come nickname Luigi36, lasciando un po' di ambiguità su questo 36, che avrebbe potuto parimenti essere l'età attuale o l'anno di nascita. Fra sé e sé convenne che il 24 di Anna molto poco probabilmente poteva essere l'anno di nascita.
Incominciarono, sera dopo sera, a raccontarsi le loro vite, con una sincerità insospettata persino da loro stessi, in parte dovuta all'anonimato in parte, preponderante, al bisogno che sentivano di raccontarsi come pensavano di essere, o forse come volevano sembrare di essere.
Partirono dalle cose più belle, come è ben comprensibile, seguite a breve da quelle più brutte, entrambi cercando di sorvolare sul problema più pressante, quello della solitudine e della noia.
Così le serate passavano veloci, e il giorno entrambi erano sereni e nella dolce attesa dell'appuntamento della sera.
Ci volle un mese perché il più ardito dei due, Anna24 (non ce ne meravigliamo) gli scrivesse "Vorrei dipingerti meglio. Mandami una tua foto". Luigi36 ricordava bene il giorno e l'ora, le 23 e 42 minuti. "Certamente, te la mando domani. Dammi il tempo di sceglierne una bella".
E mo'? Richiesta imprevista, scompenso totale.
E se fosse andato a farsene quattro in uno di quei chioschetti in mezzo alla strada, come nel film di Amèlie? E se fosse andato da un fotografo professionista farsi uno di quei bei ritratti in bianco e nero, magari un po' tenebroso?
Scartò subito la seconda ipotesi. I fotografi bravi ti leggono l'anima meglio di quanto non possa fare tu stesso. E lui non voleva farsi leggere l'anima, e tanto meno farla leggere ad Anna24.
Optò per una foto che aveva un paio d'anni, un ritratto a mezzo busto sullo sfondo di un lago delle Dolomiti, un po' finti entrambi. Scannerizzò la foto come aveva imparato al corso e la mandò.
La risposta gli arrivò in giornata, una foto allegata a una mail senza testo.
E lui scoprì che per mesi aveva chattato con una donna più vecchia di lui di dodici anni, una donna con qualche capello bianco, certo, ma con un'espressione dolcissima, proprio come la serenità che gli aveva trasmesso in quei mesi. Nella foto teneva in braccio la gatta, pigramente distesa.
Le scrisse che aveva urgente bisogno di sentire la sua voce.



lunedì 25 febbraio 2013

Innamorarsi


LAURA
Lo stiamo aspettando. France è seduto sul divano, ha tirato su i piedi. Se non lo conoscessi direi che è tranquillo, ma so che non è vero. Mi ha detto che affronterà Camillo a viso aperto. Vuole quei soldi a tutti i costi: sembra che questo benedetto autosalone sia la cosa che desidera di più al mondo.
E' bello il mio amore, alto, atletico, con quegli occhi blu luminosi e quell'espressione dolcissima, anche se, quando vuole, sa essere una tigre.
Chissà se Camillo gli darà i soldi: mio marito è talmente lunatico che potrebbe anche mettergli le mani addosso.
Eccolo, sta arrivando. Ha bevuto, come sempre, e barcolla un poco. Non capisco perché ha in mano il fucile e lo punta su di lui.
Oddio, gli ha sparato. France è rimasto riverso sul divano, macchiato dal sangue spruzzato. Coi suoi meravigliosi occhi stupiti, con dentro ancora il sogno dell'autosalone. Cerco di muovermi con circospezione per uscire da questa stanza, con passetti sempre più veloci, ma mi ferma un dolore improvviso alla schiena, che mi spezza il respiro e mi fa cadere. Gli occhi mi si annebbiano. Sto morendo. Morire così, per amore, è la cosa più bella di questa mia vita. Muoio contenta.

CAMILLO
Quella troia non doveva farmi questo torto. Tutto le ho dato, l'ho presa dall'immondezzaio, l'ho educata, l'ho vestita come una regina. Le ho fatto provare i piaceri più sublimi e le esperienze più incredibili: tutto le ho dato, a incominciare dal mio nome e dal mio titolo. Mille amanti le ho procurato, perché doveva amare solo me. Io sono l'unico vero uomo della sua vita e, volente o nolente, se lo deve cacciare in testa. Con me tutto, senza di me il nulla.
Non riesco a capire cosa ci abbia trovato, in quel mezzo finocchio bastardo. Di uomini come lui, e anche di gran lunga più belli e aitanti, ne ha avuti a centinaia, non lo può negare, ci sono le foto nei miei album. Rapporti occasionali dei quali ricordo bene ogni particolare, con gemiti di piacere che diventavano urla strazianti, e solo allora godevo anche io.
E adesso la troia mi viene a raccontare che è innamorata: che cazzata! Una donna come lei non deve innamorarsi, ammesso che ne sia capace.
Adesso vado su: so bene che saranno insieme. Mi porto il fucile: chissà che non riesca a terrorizzarlo e a farlo scomparire per sempre dalla nostra vita.

FRANCE
Roby e Alex sono venuti da me ieri sera. Mi hanno proposto di fare un affare insieme a loro, vogliono comperare un autosalone. In questi anni, che tutti chiamano del boom, ciascuno vuole comperare una macchina, che è diventata un po' il simbolo del benessere, anche se è solo una piccola 600 Fiat. Chi è ricco compera macchine sempre più care e sempre più belle, per dimostrare a tutti la sua ricchezza e la sua forza.
I ragazzi hanno già trovato anche i locali, in corso Buenos Ayres. Loro pensano che quei venti milioni potrei chiederli a Laura, che tanto suo marito è straricco. Devo dire che questa idea non mi piace granché.
Certo, i primi tempi il conte mi dava dei soldi per le mie prestazioni ma adesso è tutto diverso. Quando facciamo l'amore il conte non c'è (lo dobbiamo fare di nascosto), lui e quella maledetta macchina fotografica.
Laura è stata con centinaia di uomini ma mi piace pensare che sia stato un teatrino fatto soltanto per compiacere il marito, per carità , ottimamente recitato.
Non capisco lui, impotente e quindi inutile, ma soprattutto non capisco lei, perché si sia piegata a questo gioco, che ben presto è diventato un gioco al massacro, con l'unico risultato di di sentirsi più vuoti e più soli, e questo lo capisco bene.
Sono contento che mi ha incontrato!
La prima volta che abbiamo fatto l'amore, non la prima ma la prima da soli, non abbiamo detto niente, (e da lì in poi sempre in silenzio) e lei, come una gatta, mi si è arrampicata addosso e mi ha stretto con forza. So che mi ama, anzi, ci amiamo. Non potrà negarmi di parlare col marito per quel prestito.

LAURA
In questa vita, che sta diventando sempre più miserabile, mi è capitato qualcosa di nuovo. Mio marito mi ha portato a casa, ieri pomeriggio, un meraviglioso ragazzo, con due occhi blu come il mare di Itaca e Cefalonia, e una mascella da far invidia a Mussolini.
Chissà dove cazzo lo ha raccattato. Non avevo nessuna voglia di scopare ma Camillo non conosce la parola no. Per cui, dopo che lui è andato a prendere l'attrezzatura fotografica, è cominciata la sceneggiata. E “occhi blu”, col quale avevo scambiato neanche due parole, non solo si è dimostrato all'altezza del compito richiesto ma ha avuto una delicatezza che mi ha stupito. Prima di iniziare mi ha detto “mi scusi” (mai successo). Anche Camillo era eccitato e deliziato, mi sono accorta che è venuto prima di noi.
Non me lo devo far scappare: un amante così lo vorrebbe ogni donna. Sentire la sua testa appoggiata sul mio ventre mi ha trasmesso un calore che mi ricorda tutti i bambini che non sono riuscita ad avere, e in quel momento gli occhi mi si sono allagati.
Camillo l'ha mandato subito via, con un pacchetto di banconote da diecimila, ma non prima che io fossi riuscita a mettergli in mano una strisciolina di carta con il numero di telefono del mio appartamento privato. Si è preso i soldi che gli ha dato Camillo con un po' di incertezza. Non me lo devo fare scappare.

CAMILLO
Finalmente sono riuscito a convincerla a sposarmi. non è stato facile: l'ho irretita coprendola di regali, e facendole balenare l'illusione di una vita immersa nel lusso più sfrenato. Viaggi, gioielli, amici importanti, il cinema, persino. L'ho frastornata con tutte queste cose, fino a farle mettere in secondo piano il fatto che il debito coniugale lo dovesse pagare come volevo io.
Non mi piace andare con una donna. Ci ho provato alcune volte ma non mi piace. Non sopporto di lasciarmi andare. In quei momenti non sono soltanto nudo, sono pericolosamente indifeso. E non mi piace per niente, perché dalla pancia mi sale un'angoscia che mi tronca il respiro. E devo scappare. E' molto più semplice, e anche più divertente, guardare gli umani che scopano, così come le bestie che si accoppiano. E più sono simili alle bestie e più mi diverto, e in fondo li invidio, loro che non si fanno tanti problemi.
La macchina fotografica ben presto è diventata una necessità. Leica, naturalmente, per un uomo del mio rango. L'ho fatta venire apposta dalla Germania; il fotografo mi ha consigliato di corredarla di un obiettivo 50 mm, perché dice che è quello più simile alla visione dell'occhio umano. Quando sfoglio il mio album il controllo è totale, e la mia ansia è a zero. Bene. Ricominciamo.

LAURA
Sono andata via di casa un mese fa, non ne potevo più.
Tutto mi stava stretto: non sopporto l'essere poveri. A scuola ho conosciuto delle ragazze della mia età, ricche, e il poterle frequentare mi ha aperto l'orizzonte su un mondo di cui non sospettavo l'esistenza.
Meno male che ho un corpo che, adeguatamente velato, fa venire grandi voglie a questi ragazzotti di provincia. Ma non voglio concedermi a questi zotici. Voglio un uomo ricco, che mi faccia diventare famosa, magari come un'attrice del cinema. Voglio essere circondata e coccolata da uomini ricchissimi che mi dimostrino di desiderarmi alla follia.
Voglio tutto quello che non ho avuto, e che ho il diritto di avere. Gli uomini mi desiderano. Io desidero i loro soldi. Si può fare. Si deve fare.





lunedì 11 febbraio 2013

Ignoto militi


Tante volte la mamma mi ha fatto vedere quel documentario, quello del treno che ha trasportato il soldato sconosciuto morto, da Aquileia a Roma, e tutta l'Italia al passaggio lo salutava. Con lui se ne sono andate le speranze di una generazione di italiani, perché i regnanti europei si volevano fare i dispetti. Bastardi.
Io sono cresciuto così, col sentimento del ricordo e col desiderio di non far piangere mai la mamma. Non è stato facile, specie quelle sere accanto al fuoco, mentre facevo i compiti, e la mamma, mentre faceva la calza o rammendava, a momenti si fermava, e dagli occhi che guardavano lontano incominciavano a sgorgare copiose le lacrime. La abbracciavo forte allora, ma capivo di non poter consolare il suo dolore con i miei baci. Il babbo, il Dottore, come lo ha sempre chiamato in mia presenza, non l'ho conosciuto.
Lei l'ha conosciuto quando è venuto a fare il medico condotto nel paese vicino, con la famiglia, e gli ha donato la sua giovinezza. Non posso sapere nulla di questo amore, che per parte della mamma è stato assoluto e incondizionato. So che quando lei è rimasta incinta lui è semplicemente scomparso. Solo una piccola rimessa mensile è stata il simbolo del ricordo. Oggi non sarebbe più così, ma a quel tempo la mamma non disse una parola e accettò, solo per me, di essere esclusa dalla vita di lui. Morì tanti anni dopo, senza mai aver proferito una parola cattiva verso quell'uomo che le aveva dato le cose più belle e le cose più brutte della sua vita.
Se oggi ho questo lavoro da operaio metalmeccanico dell'Italsider lo devo a lei, che ha avuto l'ostinazione di farmi finire quella scuola professionale, che ho sempre odiato. E anche questo lavoro lo odio. Mi permette soltanto di proseguire quella vita modestissima che ho sempre fatto con mamma. I turni in fabbrica sono pesanti, e quando sono all'altoforno la sera a casa non riesco neanche a respirare bene. Quelle sere mi monta su una carogna che uscirei e, avendone la forza, ammazzerei la prima persona che incontro, solo per sfogarmi, e gridare al mondo il mio diritto alla felicità. Felicità che non ho nemmeno ancora assaggiato.
Domenica pomeriggio mi è capitato un fatto strano.
Passeggiando sul corso per fare venire l'ora di cena, ho incrociato un uomo anziano, che camminava appoggiato a un bastone, che mi assomigliava tantissimo. Sul momento non ci ho fatto molto caso ma a casa, mentre il telegiornale snocciolava le solite sciocchezze, mi è ritornato insistentemente in mente, e mi sono persino alzato a guardarmi bene nello specchio del bagno.
Mi è balenata nel cervello un'idea pazza. E se fosse lui? Io sono nato nel 19.. quindi lui, come mi diceva la mamma, dovrebbe avere circa trenta anni più di me. Quel vecchio aveva almeno 75 anni, quindi l'età ci starebbe. Non so neanche io cosa pensare. Me ne vado a letto ma non riesco a dormire, quel volto mi si presenta davanti e ogni volta che mi giro assume un'espressione diversa.

Stamattina in fabbrica sono assonnato, ovviamente. Lavoro con il minimo impegno e aspetto soltanto l'ora di uscire: chissà se lo incontrerò di nuovo. Il fato mi aiuta, e non poco: non solo lo incontro ma lo vedo inciampare e vacillare: con un balzo gli afferro il braccio destro e gli impedisco di rovinare a terra. Mi guarda con riconoscenza, con occhi velati. Lo accompagno al bar, perché si vede che si è spaventato, e gli offro un caffè, l'unica cosa che posso permettermi: infatti io non lo prendo. Mi dice che non dovrebbe uscire ma che non ne può fare a meno, perché vive da solo e stare tutto il pomeriggio in casa lo fa impazzire. Parla con difficoltà e non riesco a capire bene tutto quello che dice, anche perché continuo a guardarlo negli occhi. E' lui, ne sono sicuro, ma come fare ad averne la certezza?
Gli dico allora che qualche volta posso accompagnarlo io, quando non lavoro, così da poter uscire a fare quattro passi più tranquillamente, e così gli si illuminano quegli occhi umidi da vecchio, e non la smette più di ringraziarmi. Mi spiega dove abita e restiamo d'accordo che andrò giovedì, alle cinque della sera.
Così sono cominciate le mie passeggiate con questo vecchio, ed è probabile che anche lui si sia reso conto che ci assomigliamo come due gocce d'acqua. Mi parla sempre con quella sua parlata difficile, è di natura chiacchierone così come io sono di natura taciturno. Io ascolto e cerco di farmi un'idea della sua vita. Tante cose mi ha raccontato nel giro di questi mesi. Della moglie e dei figli, lei morta e loro fuori Novara, per forza di cose poco presenti.
Quando ha incominciato a raccontarmi del suo lavoro ho capito che avrei potuto farcela, a capire se avevo ragione. Mi ha detto che si è laureato a Torino nel 19.., con lode e pubblicazione della tesi, sull'endemia di gozzo nella val Curone, e il relatore era stato il Pierantoni, illustre Clinico Medico. Naturalmente ha dovuto anche spiegarmi cosa fosse “endemia” e cosa fosse “gozzo”. Ma io lo ascolto rapito. Questo vecchio, e non dovrei proprio dirlo, mi sta incominciando a diventare simpatico.
L'asino è cascato quando mi ha raccontato che per un certo periodo ha dovuto fare il medico condotto a C.... Da quel giorno non ho più avuto dubbi, e le nostre passeggiate erano avvelenate dal desiderio di abbracciarlo mescolato assieme all'impulso di spaccargli la testa a calci, per come si era comportato con la mamma.
Diventavamo sempre più “amici”, e non avevo cuore di allontanarmene.
A Natale si presentò con una busta in mano e quando io gli dissi “ma Dottore, non è assolutamente il caso” ci restò parecchio male, tanto che io mi misi la busta in tasca e cambiai discorso. Solo a casa mi ricordai di aprirla e rimasi a bocca aperta quando ci trovai dentro l'equivalente di tre mesi di stipendio. Non sapevo più cosa pensare. Che mi avesse riconosciuto anche lui? Che mi volesse dare una mano? Del resto il mio lavoro lo conosceva e avrebbe potuto ben immaginare il mio cronico bisogno di soldi. Misi la busta nel cassetto del comodino, per tempi più difficili. Quella notte il mio sonno fu più sereno, e sognai un Babbo Natale con le sue fattezze.
E così andarono avanti le nostre passeggiate, per qualche mese, e ogni tanto lui si presentava con la busta in mano, che io accettavo e intascavo. Ma mai, lo posso giurare, gli chiesi un solo centesimo, così come mai mi permisi di parlare della mamma. E dire che ne avrei voluto tanto desiderio.
Oggi il portiere mi ha detto che il Dottore si è dovuto ricoverare in ospedale. Grazie a un amico infermiere sono riuscito a entrare in ospedale fuori dall'orario di visita, non voglio incontrare nessuno. Non l'ho visto bene per niente. Respirava a fatica ma è stato contento di vedermi. Poche parole abbiamo detto, e lui le sussurrava. Prima di andarmene gli ho detto: “Stia tranquillo, dottore. Ci vediamo domani”. E' morto nel pomeriggio.
Sul giornale c'è scritto che il funerale sarà mercoldì mattina, alle nove, e io, a costo di farmi licenziare, mi sono dato malato. Non c'è tantissima gente. Ci sono i figli, i nipoti, i vecchi amici. Tutta gente che io non conosco. Qualcuno mi guarda con occhio curioso, forse per il mio abbigliamento da operaio. Mi addosso al muro in fondo alla chiesa e per la prima volta riesco a pensare a lui come mio Padre, e vorrei andare ad abbracciare la bara. Ma non posso, sono un bastardo. E anche alla fine della funzione cerco di nascondermi dietro le altre persone. Nessuno deve sapere, nessuno deve capire.
Andrò a salutarlo per bene al cimitero, sempre che riesca a capire dove sarà.


P.S. Nel cassetto del comodino del Dott. G.G. i figli trovarono una lettera indirizzata all'operaio, chiusa e col francobollo, che, per rispetto al Padre, spedirono.
Noi siamo riusciti ad avere la possibilità di leggerla.
“Caro Nicola, riceverai questa mia quando non potremo fare più le nostre passeggiate. So bene che mi hai riconosciuto la prima volta che mi hai visto ma tu non sai, forse, che anche io l'ho fatto, e stavo per cadere proprio per quel motivo. Quante volte avrei voluto abbracciarti e quante volte mi sono trattenuto! Ho sempre pensato di non essere degno della tua considerazione, e ne sono tuttora convinto, mentre il mio respiro è sempre più debole. Non c'è bisogno di essere medico per capire che si sta morendo. Scusami per tutto il male che ho fatto a tua madre e a te. Ho imparato bene cosa vuol dire “dolore dei peccati”, e questo dolore, anche in questo momento, è ancora lacerante come il primo giorno. Spero che con i miei piccoli aiuti la tua vita sia un po' migliorata, anche se non potranno mai ripagare la sofferenza che vi ho imposto.
Ti abbraccio con tutta la forza che mi rimane.
Tuo Padre, che si è privato del piacere di sentirsi chiamare da te “Papà”.