giovedì 25 agosto 2016

CURRICULUM


Bettina quella mattina si era alzata presto, alle cinque e un quarto. L'appuntamento era alle dieci e mezzo ma lei voleva avere tutto il tempo necessario per ricontrollare il curriculum. Era troppo importante e doveva essere perfetto.
La sveglia, regolata sulle sei, non aveva neanche avuto il bisogno di suonare perché un clic "dentro", in quel sonno più volte interrotto, l'aveva richiamata alla scarsa luce dell'alba invernale.
La prima imprecazione era maleducatamente uscita dal pensiero cercando le ciabatte. Mai che fossero al loro posto.
Arrivò in cucina con gli occhi ancora assonnati, senza a riuscire a trovare l'occorrente per colazionarsi. "Fatti almeno il caffè", si disse, "il resto lo cercherai dopo".
Anche il caffè quella mattina stentava a salire, non ostante lei fosse sicura di non averlo schiacciato nel filtro, segno di una giornata storta. Ma ancora lei non poteva immaginare quanto.

Dopo la frutta riprese in mano il curriculum. Non aveva voluto usare il cosiddetto formato europeo, tanto non era un professore universitario, e a lei piaceva che fosse più discorsivo. Aveva inserito tutti i suoi studi, a partire da quella scuola elementare che tanti tristi ricordi le aveva marchiato, per finire a quella laurea tanto desiderata, anche se in cuor suo, se le fosse stato permesso, lei avrebbe voluto fare il medico. Il Medico. In particolare l'internista, specialità per la quale si sentiva particolarmente portata. Ma, oggi lo possiamo dire con cognizione di causa, ciò per cui lei era disperatamente portata era il poter aiutare il suo prossimo.
In questo la sua laurea e la sua professione la aiutavano solo parzialmente.
Poi c'erano le esperienze lavorative, in un certo senso il punto dolente del curriculum, almeno dal suo punto di vista. Tutte attività in cui aveva dato letteralmente l'anima e da cui, invariabilmente, aveva ottenuto poco denaro e minima soddisfazione. Certo, aveva fatto della pratica ma tutto quello che faticosamente aveva studiato e imparato le era servito davvero poco.
Non aveva dimenticato gli hobby, primi fra tutti i suoi adorati fiori, di cui giustamente andava orgogliosa, e le sue aspirazioni, a nostro parere davvero modeste. Ma Bettina si dava molto meno valore di quello che davvero aveva.
Comunque il suo curriculum, dieci fogli in tutto più un floppy, era anch'esso perfetto.

Si vestì con cura e attenzione. Indossò un collant grigio velato e una gonna anche essa grigia. Una camicetta di lino color perla tirata fuori dal cassetto per l'occasione, ancora profumata di lavanda. Un filo di trucco, per evidenziare ancora meglio quelle due lanterne che aveva sotto la fronte, un rossetto di un rosso solo minimamente sfacciato. A lei piaceva così ed era sicura che al direttore del personale non sarebbe dispiaciuto.
Uscì di casa alle otto e mezza, due ore in anticipo sull'appuntamento. Non voleva arrivare per nessun motivo sudata.

Sull'autobus notò un uomo che la guardava con insistenza, ma lei era stata educata, dalla nascita potremmo dire, a far finta di niente. Anche se cercò a sua volta di guardarlo, cercando di non farsene accorgere. Quell'uomo aveva un aria studiatamente trasandata. Una volta era stato biondo ma adesso i corti capelli sulla carta d'identità erano stati definiti brizzolati. La barba di alcuni giorni. Due baffoni che facevano venire in mente una foca o un leone marino, in questo aiutati da un fisico non proprio asciutto. Teneva in grembo una borsa floscia, in cui a più riprese rovistava senza dare l'impressione di avere trovato quello che cercava. O forse era un gesto per darsi una qualche importanza. Bettina ne era rimasta come ipnotizzata e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, anche se doveva farlo. Le avevano insegnato che non era buona educazione.
Finalmente lui scese dall'autobus, e Bettina lo cancellò dai suoi ricordi. Era sceso alla fermata prima di quella a cui sarebbe dovuta scendere lei.

Arrivò all'azienda con mezzora buona di anticipo. Non volendo fare la figura dell'ansiosa, anche se a quel posto ci teneva davvero assai, decise di farsi un giro alla Rinascente. Chissà che non le venisse qualche buona idea per arredare la sua nuova casa. Di tante cose ancora aveva bisogno quella casa. Di un uomo, anche.

Come dio volle l'ora passò, fra servizi all'americana e stoviglie decorate a fiori verdi.
Bettina uscì e entrò nell'azienda. Con tutta la sua gentilezza chiese del direttore del personale. Fu indirizzata dagli uscieri al secondo piano. A lei piacevano le scale, le riteneva un buon esercizio, e non aveva alcun torto, vista la snellezza delle sue gambe. Comunque l'ascensore la terrorizzava. Se avesse dovuto salire al dodicesimo piano non avrebbe potuto fare a meno di arrivare un po' sudata.
Una segretaria che non avrebbe sfigurato in un calendario per camionisti, con un seno assolutamente inverosimile, le disse di accomodarsi in una saletta poco più avanti, chiusa da una porta di vetro smerigliato. Sarebbe stata chiamata.
Si avviò con il suo bel curriculum sotto il braccio ed entrò. C'era solo un'altra persona.

Lo riconobbe immediatamente. L'uomo dell'autobus, la foca.
Sulla camicia, bianca, spiccava una macchia marroncina, goccia di caffè colata dai baffi, pensò lei con un moto di simpatia. E lui portava anche la macchia con grande noncuranza. E fumava. Nella saletta d'aspetto i portacenere del resto non mancavano e l'aria era pesante del fumo di più giorni. Bettina pensò che presto si sarebbe alzata ad aprire la finestra.
Anche lui l'aveva riconosciuta, non immediatamente ma l'aveva ben riconosciuta. Bettina non capiva se le guardava più le gambe o più gli occhi ma la guardava con profondità.
Dopo avere realizzato che mai e poi mai lei gli avrebbe rivolto la parola lui esordì con un "Anche lei per il curriculum?". Una bella voce, forse leggermente nasale.
"Sì, certo", rispose. E si accorse di balbettare. "Speriamo che serva a qualcosa..." continuò lui, con incertezza.
Voleva farla parlare. E allora prese il coraggio a quattro mani. Si alzò dicendo "Io sono Franco B. Forse ambiamo tutti e due allo stesso posto ma nulla vieta che ci stringiamo lealmente la mano. E che vinca il migliore". Franco si stupì della naturalezza con cui gli era uscita questa frase.
Ma non era solo naturalezza. Era anche desiderio. Di conoscerla.
Anche lei si stupì che le avesse rivolto la parola. Tutti le avevano sempre fatto capire che lei era una insignificante nullità ed era stupefacente che qualcuno in circa dieci parole li smentisse così categoricamente. Le si strozzò la parola in gola e per forse due secondi, o due minuti, non fu in grado di emettere suono o di muovere il braccio. E lui, lì, fermo, con il braccio esteso e la mano, che grande mano, aperta verso di lei.
Ci si tuffò dentro, quella mano, Bettina, intuendone la schiettezza.
"Piacere Franco. Io sono Bettina F. Che vinca il migliore, certamente".
Franco le si sedette a fianco. Incominciò a parlarle e lei ne restò affascinata. Non capiva le parole ma soltanto la nuvola sonora che esse costituivano, nuvola su cui lei galleggiava. Una nuvola che poteva essere di bla bla bla come poteva essere la declamazione del quinto canto dell'Inferno - Quali colombe dal disìo chiamate.... - una nuvola fatta di alito di sigaretta, di caffè, di voglia di raccontarsi... Franco che voleva andare via.... Franco che voleva una vita diversa, ma che doveva anche lui consegnare il curriculum anche se questo avrebbe inevitabilmente voluto dire che era in competizione con lei. Noi sappiamo bene che Franco in competizione non lo avrebbe mai voluto essere con nessuno....

Improvvisamente i loro sogni cedettero il passo a due colpi secchi, sul momento non riconoscibili, a cui seguirono grida disperate, troppo vicine a loro. Franco la prese per il braccio e la strappò via dalla seggiola su cui lei era rimasta incollata.
"Vieni via, piccola". Dopo aver sbirciato oltre la porta di vetro smerigliato uscì trascinandola, cercando da andare nella direzione opposta a quella da cui aveva sentito gli spari. Lei lo seguiva passivamente, non capendo bene quello che stava succedendo.
In qualche maniera arrivarono in strada. Franco ansimava. Camminarono forse cinque minuti, mano nella mano, fino a quando entrarono in un piccolo bar. Con un'aria pulita. Si sentivano, lontane, le sirene della polizia.
Nel giornale di domani avrebbero letto che il direttore del personale era stato freddato con due colpi di 357 Magnum da una donna disoccupata. Disperata. Doveva essere uscita da quella sala d'aspetto un attimo prima che c'entrassero loro.
In quel bar, davanti all'ennesimo caffè, Franco le disse "Che culo che abbiamo avuto, cara la mia Bettina...." e lei annuì, pensando al curriculum rimasto nella stanza fumosa.
Ma chissenefrega del curriculum.....


martedì 2 agosto 2016

Botanica

Coltivare un giardino è un piacere dello spirito un po' asettico: prescinde infatti da qualsiasi influenza e trae massima soddisfazione soltanto dalla perfezione formale.

Coltivare delle rose è invece un bisogno del cuore: la cura per esse richiede tutto ciò che di bello e di buono alberga nel più profondo di noi, anche se il nostro meglio è inestricabilmente legato al nostro peggio.
Ecco perché ogni rosa in un bicchiere porta con sè una piccola lacrima.