venerdì 3 agosto 2018

Lo zio

Pubblico l'ultimo estratto tratto dal mio romanzo, in dirittura d'arrivo.
A settembre incomincerò a vagare per editori... piccoli e grandi. Buona fortuna a me...


Corinnah, avendo la mattinata libera dal giornale, andò a trovare lo zio. Non lo vedeva da parecchio: era talmente strano che a volte la metteva a disagio. William Croft, fratello di suo padre aveva settantanove anni e viveva da solo in New Jersey. Non avrebbe potuto essere più diverso da Edward: ordinario alla prima impressione ma capace di follie incomprensibili. Simpatico, sempre pronto alla battuta, anche salace. Non aveva mai avuto un gran rapporto con suo fratello ma la sua morte l'aveva colpito profondamente.
In passato era stato il proprietario di un piccolo supermercato, più volte visitato dalla criminalità, e l’ultima rapina era stata l'occasione per chiudere tutto e ritirarsi. A quel tempo aveva già superato i sessanta. Qualche soldo da parte era riuscito a metterlo, e non aveva grandi bisogni. Aveva vissuto sempre da solo, metodico nelle abitudini, con gli anni era diventato ossessivo. Non era giunto al punto di contare i passi ma Corinnah sapeva che se fosse arrivata fra le otto e le dieci del mattino non lo avrebbe trovato in casa: lo zio era fuori a passeggiare, per quanto glielo permettesse l'artrosi alle ginocchia. Suonò alle dieci e tre minuti.
«Ecco la grande giornalista...»
«Buongiorno vecchio pazzo»
«Entra, tanto sei già qui. Ma un giorno o l'altro ti rimanderò in quella tua schifosa New York» 
«Come al solito non ti ho portato niente: non esiste qualcosa che possa farti piacere»
«Sta zitta sciocca donna, le donne non devono parlare.»
L’abbracciò forte, anche se Corinnah notò che la stringeva meno del solito. Come sempre lo zio era molto curato nella aspetto e aveva la barba appena fatta; la camicia bianca di bucato e sopra un maglione girocollo bordeaux di lambswool a coste. Il profumo, che Corinnah adorava, era sempre lo stesso: English Lavender, di Atkinsons. Curava il proprio aspetto lo zio, ma solo per sé. Corinnah aveva rinunciato da parecchio tempo a capire se lo zio avesse mai avuto una donna. O un uomo. Un amore comunque.
Continuando a punzecchiarla la fece entrare, precedendola. Camminava con difficoltà e senza il bastone non ci sarebbe riuscito. Ma quando Corinnah gli porse il braccio rifiutò.
«Invece delle tue sporche birre ti preparerò un karkadé, infuso del fiore dell'ibisco, che tu non conosci ancora. So che ti piacerà.» Lo zio non ricordava, da un anno all’altro, che a Corinnah offriva sempre il karkadé, spacciandoglielo come l’ultima novità proveniente dal vecchio mondo. A Corinnah quel gusto non dispiaceva ma lo doveva bere a occhi chiusi per non vederne il colore. Vecchio vampiro. “Eppure nella tua vita di birre ne avrai vendute tante...”
Erano seduti davanti alla finestra e Corinnah aveva il prato di fronte. Il sole veniva riflesso da ogni filo d’erba ancora bagnato dalla rugiada e il prato luccicava allegramente. Lo zio, al di là delle battute, era dimagrito e pallido.
«Cosa mi racconti di bello?» gli chiese Corinnah.
«Veramente poco. Ho le vertebre marce e mi hanno dovuto mettere un busto. Il dolore è insopportabile. Ho la prescrizione per gli oppiacei ma preferisco farmi le canne. C’è un angolo del prato dove coltivo quella buona, ah ah ah»
«Mi spiace zio.» Sorbì un sorso di sangue caldo a occhi chiusi. Chissà se lo zio sapeva che l’erba buona non si può coltivare. Chissà se qualcuno, in quel quartiere, l'avrebbe denunciato.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Sì, numerose.» Corinnah fu sorpresa: lo zio non aveva mai chiesto niente e lei sapeva che aveva un gran vanto nel farsi tutto da sé.
«Il tempo che mi è stato assegnato sta finendo. Vedo che hai sentito il mio richiamo, portato dalle nuvole.» Non ricordava neanche più che Corinnah lo andava a trovare più o meno una volta all’anno.
«Ti ho preparato una lista di compiti da fare e ti ho dato la firma sul conto in banca. Devo sistemare le mie cose e l’unica che può aiutarmi a farlo sei tu. A te non lascio niente: non hai bisogno di nulla. In questo quaderno c’è la lista delle cose da fare. Poi c’è una persona: sappi che lei è stata la persona più importante della mia vita. Non ti posso chiederle di volerle bene come l'ho amata io ma vorrei chiederti di starle vicino in ogni sua necessità quando io non potrò più farlo. La dovrai cercare non appena resterà sola.» Corinnah posò la tazza, sorpresa. Non sapeva bene cosa dire: sapeva che lo zio era imprevedibile, ma non immaginava fino a questo punto.
«Stai davvero così male? Non hai una cera così brutta», disse sorridendo, cercando di sdrammatizzare.
«So riconoscere l'approssimarsi del capolinea. C’è un momento in cui capisci che proseguire, oltre che inutile, è poco dignitoso. Però è giusto lasciare le proprie cose in ordine: la scrivania della vita è sempre stata un marasma. Adesso è il momento di mettere ogni cosa a suo posto. Si accese tranquillamente la sigaretta.
«Non ti sei mai sposato...»
«Non essere curiosa. Non voglio spiegarti i fatti e le decisioni della mia vita, ti chiedo soltanto di darmi una mano»
«Stai tranquillo. Dimmi solo cosa devo fare»
«Nel quaderno hai scritto tutto. Il giorno dopo la mia cremazione la cercherai.»
Corinnah era triste e nello stesso tempo incuriosita da morire. L’amore segreto... Non l’avrebbe mai detto, anche se lo zio un certo non so che di misterioso ce l’aveva sempre avuto. Chissà che storia c’era dietro... una persona sposata? Single come lo zio? Ma allora perché non vivevano assieme? Chissà com’era stata l'intimità fra di loro: non riusciva a immaginarseli.
Lo zio si alzò dicendole «Se non ci dovessimo più vedere, ma non è certo, sappi che mi hai fatto il regalo più grosso. La mia cenere te ne sarà riconoscente.» Era serio, anche se queste ultime parole le disse in modo un po’ teatrale.
Corinnah pensò “Faccio solo il mio dovere” e gli rispose «stai pur certo che aiutarti in questo momento è per me un piacere.»
Intanto che accendeva la macchina lo vide ritto sulla soglia di casa, col braccio alzato. Lo salutò anche lei, con due colpi di clacson.
Anche questa è fatta,” pensò lo zio. “Corinnah è una brava ragazza, sono tranquillo. Adesso mi resta solo da pensare a me stesso.” Tirò fuori dal frigorifero quell'avanzo di frittata di pasta che si era fatto il giorno prima, ricetta importata in America dopo i suoi primi soggiorni in Calabria, dove andava per le battute di pesca al tonno. Si apparecchiò la tavola come ogni giorno e incominciò a mangiarla, assaporando ogni boccone. Chissà che non fosse davvero l’ultima. Prepararla era sempre stato un grande piacere. Berci sopra un buon vino Savuto di Calabria sarebbe stata la morte sua. “Sua di chi??” si domandò, ridendo per l'involontario doppio senso.
Alle quattro sarebbe andato al casinò. Avevo organizzato tutto come pensava di dover fare e adesso poteva dedicarsi solo a sé stesso. Prese la busta e mise i soldi nel portafogli. Chiamò un taxi. «Atlantic City. Golden Nuggett.»
Sapeva bene quello che voleva fare: puntare quei soldi sul ventisei della roulette, uno dei due numeri a fianco dello zero, il numero che quando esce fa vincere il banco. Non sapeva invece perché voleva buttare via, così stupidamente, una somma così alta. Buttare via quei soldi era una sua esclusiva pertinenza, era l'estrema affermazione che solo lui era il padrone della sua vita e solo lui poteva decidere cosa farne. E proprio fare qualcosa di inutile, priva di ogni finalità, gli dava ancora la sensazione di essere vivo e vitale: sapeva bene che la realtà era diversa. Rischiare tutti quei soldi includeva anche la possibilità di una vincita incredibile, tre milioni e seicentomila dollari, cosa che avrebbe scombussolato tutti i suoi piani. Gli avrebbe dato anche la dimostrazione che esisteva la possibilità di guarire...
Rischiare... Ricordava bene lo zio quel periodo della sua vita di adolescente in cui aveva fatto quel gioco assurdo... Stupido solo come si può esserlo a quindici anni... Buttarsi a capofitto da una discesa che terminava in un incrocio, con una bicicletta a cui aveva tagliato i freni per evitare ripensamenti dell’ultimo attimo, con il cervello annebbiato dall'alcool. Solo rischiare la vita lo faceva sentire completamente vivo. Questo gioco spaventoso era terminato quando qualcuno, che lo aveva visto per caso, aveva informato suo padre di questo genere di imprese e il buonuomo, terrorizzato, gliene aveva date tante da fargli perdere ogni forza di uscire di casa per quindici giorni, durante i quali si era convinto a cambiare gioco. Non si rendeva conto di essere vivo solo per un caso.
All’ingresso del casinò si fece cambiare i soldi e, arrivato al tavolo della roulette, posò tutte le fiches, bene impilate, sul numero ventisei. Erano dieci fiches da diecimila dollari ciascuna. Gli altri giocatori lo guardavano con curiosità, qualcuno con ammirazione. Il croupier diede un colpo alla ruota e lanciò la pallina. Tre, quattro giri forse, qualche salto fra i numeri. La pallina si fermò dentro la casella dello zero e si sentì un mormorio di disappunto. Lui l’aveva in un certo senso previsto, c’era andato comunque molto vicino. Con lo stesso aplomb con cui era arrivato se ne andò.
Giunto in strada aspettò che il semaforo fosse rosso per i pedoni e, richiedendo l'ultimo sforzo alle sue ginocchia, si tuffò tranquillamente sotto il primo autobus.