A settembre incomincerò a vagare per editori... piccoli e grandi. Buona fortuna a me...
Corinnah, avendo la mattinata
libera dal giornale, andò a trovare lo zio. Non lo vedeva da
parecchio: era talmente strano che a volte la metteva a disagio.
William Croft, fratello di suo padre aveva settantanove anni e viveva
da solo in New Jersey. Non avrebbe potuto essere più diverso da
Edward: ordinario alla prima impressione ma capace di follie
incomprensibili. Simpatico, sempre pronto alla battuta, anche salace.
Non aveva mai avuto un gran rapporto con suo fratello ma la sua morte
l'aveva colpito profondamente.
In passato era
stato il proprietario di un piccolo supermercato, più volte visitato
dalla criminalità, e l’ultima rapina era stata
l'occasione per chiudere tutto e ritirarsi. A quel tempo aveva già
superato i sessanta. Qualche soldo da parte era riuscito a metterlo,
e non aveva grandi bisogni. Aveva vissuto sempre da solo, metodico
nelle abitudini, con gli anni era diventato ossessivo. Non era giunto
al punto di contare i passi ma Corinnah sapeva che se fosse arrivata
fra le otto e le dieci del mattino non lo avrebbe trovato in casa: lo
zio era fuori a passeggiare, per quanto glielo permettesse l'artrosi
alle ginocchia. Suonò alle dieci e tre minuti.
«Ecco la grande giornalista...»
«Buongiorno vecchio pazzo»
«Entra, tanto sei già qui. Ma un
giorno o l'altro ti rimanderò in quella tua schifosa New York»
«Come al solito non ti ho portato niente: non esiste qualcosa che
possa farti piacere»
«Sta zitta sciocca donna, le
donne non devono parlare.»
L’abbracciò forte, anche se
Corinnah notò che la stringeva meno del solito. Come sempre lo zio
era molto curato nella aspetto e aveva la barba appena fatta; la
camicia bianca di bucato e sopra un maglione girocollo bordeaux di
lambswool a coste. Il profumo, che Corinnah adorava, era sempre lo
stesso: English Lavender, di Atkinsons. Curava il proprio aspetto lo
zio, ma solo per sé. Corinnah aveva rinunciato da parecchio tempo a
capire se lo zio avesse mai avuto una donna. O un uomo. Un amore
comunque.
Continuando a punzecchiarla la
fece entrare, precedendola. Camminava con difficoltà e senza il
bastone non ci sarebbe riuscito. Ma quando Corinnah gli porse il
braccio rifiutò.
«Invece delle tue sporche birre
ti preparerò un karkadé, infuso del fiore dell'ibisco, che tu non
conosci ancora. So che ti piacerà.» Lo zio non ricordava, da un
anno all’altro, che a Corinnah offriva sempre il karkadé,
spacciandoglielo come l’ultima novità proveniente dal vecchio
mondo. A Corinnah quel gusto non dispiaceva ma lo doveva bere a occhi
chiusi per non vederne il colore. Vecchio vampiro. “Eppure nella
tua vita di birre ne avrai vendute tante...”
Erano seduti davanti alla finestra
e Corinnah aveva il prato di fronte. Il sole veniva riflesso da ogni
filo d’erba ancora bagnato dalla rugiada e il prato luccicava
allegramente. Lo zio, al di là delle battute, era dimagrito e
pallido.
«Cosa mi racconti di bello?» gli
chiese Corinnah.
«Veramente poco. Ho le vertebre
marce e mi hanno dovuto mettere un busto. Il dolore è
insopportabile. Ho la prescrizione per gli oppiacei ma preferisco
farmi le canne. C’è un angolo del prato dove coltivo quella buona,
ah ah ah»
«Mi spiace zio.» Sorbì un
sorso di sangue caldo a occhi chiusi. Chissà se lo zio sapeva che
l’erba buona non si può coltivare. Chissà se qualcuno, in quel
quartiere, l'avrebbe denunciato.
«Hai
bisogno di qualcosa?»
«Sì, numerose.» Corinnah fu
sorpresa: lo zio non aveva mai chiesto niente e lei sapeva che aveva
un gran vanto nel farsi tutto da sé.
«Il tempo che mi è stato
assegnato sta finendo. Vedo che hai sentito il mio richiamo, portato
dalle nuvole.» Non ricordava neanche più che Corinnah lo andava a
trovare più o meno una volta all’anno.
«Ti ho preparato una lista di
compiti da fare e ti ho dato la firma sul conto in banca. Devo
sistemare le mie cose e l’unica che può aiutarmi a farlo sei tu. A
te non lascio niente: non hai bisogno di nulla. In questo quaderno
c’è la lista delle cose da fare. Poi c’è una persona: sappi che
lei è stata la persona più importante della mia vita. Non ti posso
chiederle di volerle bene come l'ho amata io ma vorrei chiederti di
starle vicino in ogni sua necessità quando io non potrò più farlo.
La dovrai cercare non appena resterà sola.» Corinnah posò la
tazza, sorpresa. Non sapeva bene cosa dire: sapeva che lo zio era
imprevedibile, ma non immaginava fino a questo punto.
«Stai davvero così male? Non hai
una cera così brutta», disse sorridendo, cercando di
sdrammatizzare.
«So riconoscere l'approssimarsi
del capolinea. C’è un momento in cui capisci che proseguire, oltre
che inutile, è poco dignitoso. Però è giusto lasciare le proprie
cose in ordine: la scrivania della vita è sempre stata un marasma.
Adesso è il momento di mettere ogni cosa a suo posto. Si accese
tranquillamente la sigaretta.
«Non ti sei mai sposato...»
«Non essere curiosa. Non voglio
spiegarti i fatti e le decisioni della mia vita, ti chiedo soltanto
di darmi una mano»
«Stai tranquillo. Dimmi solo cosa
devo fare»
«Nel quaderno hai scritto tutto.
Il giorno dopo la mia cremazione la cercherai.»
Corinnah era triste e nello stesso
tempo incuriosita da morire. L’amore segreto... Non l’avrebbe mai
detto, anche se lo zio un certo non so che di misterioso ce l’aveva
sempre avuto. Chissà che storia c’era dietro... una persona
sposata? Single come lo zio? Ma allora perché non vivevano assieme?
Chissà com’era stata l'intimità fra di loro: non riusciva a
immaginarseli.
Lo zio si alzò dicendole «Se non
ci dovessimo più vedere, ma non è certo, sappi che mi hai fatto il
regalo più grosso. La mia cenere te ne sarà riconoscente.» Era
serio, anche se queste ultime parole le disse in modo un po’
teatrale.
Corinnah pensò “Faccio solo il
mio dovere” e gli rispose «stai pur certo che aiutarti in questo
momento è per me un piacere.»
Intanto che accendeva la macchina
lo vide ritto sulla soglia di casa, col braccio alzato. Lo salutò
anche lei, con due colpi di clacson.
“Anche
questa è fatta,” pensò lo zio. “Corinnah è una brava ragazza,
sono tranquillo. Adesso mi resta solo da pensare a me stesso.” Tirò
fuori dal frigorifero quell'avanzo di frittata di pasta che si era
fatto il giorno prima, ricetta importata in America dopo i suoi primi
soggiorni in Calabria, dove andava per le battute di pesca al tonno.
Si apparecchiò la tavola come ogni giorno e incominciò a mangiarla,
assaporando ogni boccone. Chissà che non fosse davvero l’ultima.
Prepararla era sempre stato un grande piacere. Berci sopra un buon
vino Savuto di Calabria sarebbe stata la morte sua. “Sua di chi??”
si domandò, ridendo per l'involontario doppio senso.
Alle quattro sarebbe andato al
casinò. Avevo organizzato tutto come pensava di dover fare e adesso
poteva dedicarsi solo a sé stesso. Prese la busta e mise i soldi nel
portafogli. Chiamò un taxi. «Atlantic City. Golden Nuggett.»
Sapeva bene quello che voleva
fare: puntare quei soldi sul ventisei della roulette, uno dei due
numeri a fianco dello zero, il numero che quando esce fa vincere il
banco. Non sapeva invece perché voleva buttare via, così
stupidamente, una somma così alta. Buttare via quei soldi era una
sua esclusiva pertinenza, era l'estrema affermazione che solo lui era
il padrone della sua vita e solo lui poteva decidere cosa farne. E
proprio fare qualcosa di inutile, priva di ogni finalità, gli dava
ancora la sensazione di essere vivo e vitale: sapeva bene che la
realtà era diversa. Rischiare tutti quei soldi includeva anche la
possibilità di una vincita incredibile, tre milioni e seicentomila
dollari, cosa che avrebbe scombussolato tutti i suoi piani. Gli
avrebbe dato anche la dimostrazione che esisteva la possibilità di
guarire...
Rischiare... Ricordava bene lo zio
quel periodo della sua vita di adolescente in cui aveva fatto quel
gioco assurdo... Stupido solo come si può esserlo a quindici anni...
Buttarsi a capofitto da una discesa che terminava in un incrocio, con
una bicicletta a cui aveva tagliato i freni per evitare ripensamenti
dell’ultimo attimo, con il cervello annebbiato dall'alcool. Solo
rischiare la vita lo faceva sentire completamente vivo. Questo gioco
spaventoso era terminato quando qualcuno, che lo aveva visto per
caso, aveva informato suo padre di questo genere di imprese e il
buonuomo, terrorizzato, gliene aveva date tante da fargli perdere
ogni forza di uscire di casa per quindici giorni, durante i quali si
era convinto a cambiare gioco. Non si rendeva conto di essere vivo
solo per un caso.
All’ingresso del casinò si fece
cambiare i soldi e, arrivato al tavolo della roulette, posò tutte le
fiches, bene impilate, sul numero ventisei. Erano dieci fiches da
diecimila dollari ciascuna. Gli altri giocatori lo guardavano con
curiosità, qualcuno con ammirazione. Il croupier diede un colpo alla
ruota e lanciò la pallina. Tre, quattro giri forse, qualche salto
fra i numeri. La pallina si fermò dentro la casella dello zero e si
sentì un mormorio di disappunto. Lui l’aveva in un certo senso
previsto, c’era andato comunque molto vicino. Con lo stesso aplomb
con cui era arrivato se ne andò.
Giunto in strada aspettò che il
semaforo fosse rosso per i pedoni e, richiedendo l'ultimo sforzo alle
sue ginocchia, si tuffò tranquillamente sotto il primo autobus.