Don Gennaro non era proprio quel che si dice un uomo
qualunque. Era entrato in seminario a 25 anni, dopo avere fatto tutto quello
che aveva voluto. A 16 anni, finita con difficoltà la terza media, complice
anche la sua incapacità assoluta di andare d’accordo con i genitori, si era
imbarcato su una delle tante navi che girano per il Mediterraneo. Era stata
un’esperienza durissima e se avesse avuto la possibilità di conoscere Dante
avrebbe ben fatti suoi quei versi “…come sa di sale lo pane altrui…”, ma non lo
conosceva. In quei quattro anni infernali aveva dovuto crescere e a casa era
ritornato un uomo. Incattivito forse, ma non solo. Un uomo che aveva capito che
in certi momenti sentire vicino la solidarietà di un tuo simile può fare molto
bene.
Certo era diventato un po’ un solitario, anche perché in
quella nave era l’unico a cui piacessero certe cose, e spesso neanche lui
sapeva dirne il perché. Armeggiando con una vecchia radio recuperata in una
stiva aveva trovato una stazione pirata che trasmetteva musica classica e, in
quell’unica ora giornaliera libera dal lavoro, ascoltava rapito, e si provava
anche a cantare certe arie d’opera che gli riempivano gli occhi di lacrime.
Quando sbarcavano nei porti, come
tutti, andava a cercarsi una donna e qualcuna di queste addirittura la era
andata a trovare anche più di una volta, ma era un amante frettoloso e
distratto. Certo non si presentava mai a mani vuote ma in quanto ad aprire il
cuore era tutta un’altra cosa. Gli ufficiali non lo stimavano, perché lo
vedevano diverso dagli altri, e lui li ricambiava con un odio schietto,
quell’odio che, molto semplicemente, pensi che ti impedirà di tirare un
salvagente a un uomo che vedi in mare. I suoi compagni non lo consideravano uno
di loro ma il lavoro lo faceva, presto e bene, e questo era tutto quello che a
loro interessava.
Quattro anni di questa vita,
ingentilita soltanto da una vecchia radio gracchiante, lo avevano anche
cambiato nell’aspetto: una barba rossa, arruffata, e un occhio che era
diventato attento e penetrante.
A 20 anni, da un certo punto di
vista rassegnato a convivere con la madre, il padre era morto quando lui era
per mare, si cercò un posto di lavoro a Napoli. Sarebbe stato molto facile
lavorare con quelli lì, che avevano sempre bisogno di cavalli freschi ma
Gennaro con la droga non voleva averci niente a che fare. A Marsiglia aveva
avuto l’occasione di vedere un ragazzo in preda a una crisi di astinenza e non
gli era punto piaciuto. La fortuna e/o il Cielo, vollero che Gennaro trovasse
qualcosa da fare in un doposcuola gestito dal vecchio prete. Non gli veniva
chiesto di aiutare una cinquantina di ragazzi a fare i compiti, del resto non
ne sarebbe stato all’altezza, gli veniva chiesto di cercare di tenerli un po’ a
bada, di farli giocare o, comunque, di non farli scappare. Sei ore al giorno, tutti i giorni.
Duecentomila lire al mese. Sua madre non fu particolarmente contenta ma quel
piccolo aiuto e l’avere in casa un figlio che credeva perduto le aprirono un
mezzo sorriso nella bocca sdentata.
Gennaro invece, forse perché
ricordava la dura vita della nave, da subito in mezzo ai ragazzi si trovò bene.
Il più grande poteva avere dodici anni, il più piccolo sei, e lui,
inconsapevolmente, si sentiva il fratello maggiore di tutti. Si inventava dei
giochi per loro e vedeva che si divertivano parecchio, giochi in cui non c’era
un protagonista ma c’era una squadra, che contro un’altra squadra poteva
vincere se soltanto avesse messo insieme le proprie forze e se ogni giocatore
di quella squadra fosse stato impiegato nella maniera migliore, cioè secondo le
sue capacità. E lui era un arbitro che alla propria imparzialità teneva da
morire. Voleva essere giusto, a tutti i costi.
Quando era il momento dei compiti
cercava di richiamare alla memoria quelle poche cose che aveva imparato a
scuola ma spesso era in difficoltà. Possiamo dire adesso che voleva così bene a
quei ragazzi che la sera cercava di studiare, sui suoi vecchi libri che mammà
non aveva buttato via, per poterli aiutare meglio nei compiti il giorno dopo.
Il vecchio prete vedeva tutto
questo, ed era capace di vedere anche molto oltre. Aveva sentito con le
orecchie del cuore qualcosa in quel ragazzo che meritava di essere coltivato. E
quindi pregava per quel ragazzo, pregava tanto. Aveva una piccola statua della
Madonna di Pompei e a Lei lo aveva affidato, perché continuasse la sua opera
con i ragazzi, per levarli dalla strada. Due rosari al giorno almeno, uno alle
quattro del mattino e uno alle undici della sera, il più faticoso anche se
quello che dava maggiore serenità.
Anche Gennaro, uomo tutto sommato
piuttosto selvatico, si era affezionato al vecchio prete, perché lo vedeva
trattare quei ragazzi come fossero tutti figli suoi, e tutti con la stessa
giustizia che usava lui nel gioco, tutti eguali, ma unici ed irripetibili.
Nei loro rari momenti di libertà
Gennaro vedeva il vecchio prete assorto in preghiera, con il rosario in mano e
questa cosa lo riempiva di stupore. Ragazzi e preghiera. Preghiera e ragazzi.
Poco a poco trovò del tutto naturale unirsi a lui nella preghiera e ad usarla
come arma, a quanto pare molto efficace, nelle avversità che il prete e i
ragazzi ogni giorno incontravano. Lui gli regalò anche un vecchio libro di
preghiere, unto e bisunto e tenuto insieme da un elastico, che Gennaro si affrettò
a finire con grande diligenza. Il vecchio prete capì che quando sarebbe stato
il momento i suoi ragazzi non sarebbero rimasti soli.
Dopo cinque anni Gennaro entrava
in seminario. Era certo di voler diventare ed essere come il vecchio prete.
Quando partì sua madre, per la prima volta, buttò fuori qualche lacrima di
felicità.
In quegli anni del seminario i
suoi ragazzi gli furono da guida e mèta, anche perché lui non era proprio
abituato allo studio e cose da studiare ce n’erano tante, e i professori severi.
Tutte cose nuove per lui, teologia, sacra scrittura, liturgia. Fu ordinato
sacerdote il 18 luglio del 1980 e il suo più grosso cruccio fu che il vecchio
prete fosse mancato pochi mesi prima. Ma Gennaro era certo che quel giorno gli
fosse comunque molto vicino, anche più della mamma che era lì in chiesa.
Il vescovo lo destinò alla
parrocchia di Sant’Angelo dei Lombardi e don Gennaro vi andò col cuore pieno di
letizia, sicuro che anche lì i “suoi” ragazzi non sarebbero mancati. E infatti.
Non molti in verità, ma a tutti ogni giorno cercava di trasmettere quelle cose
che aveva dentro e che sapeva che a loro sarebbero servite: onestà, cioè
mostrarsi a tutti come si è, e giustizia, cioè trattare tutti alla stessa
maniera, cose che facilmente permettevano di andare la sera a dormire con il
cuore in pace.
Era riuscito, non chiedetemi come
perché neanche io sono riuscito a saperlo, a portarsi dietro la Madonna di
Pompei del vecchio prete e l’aveva sistemata in una nicchia vuota della
parrocchia. Pregandola quotidianamente, come lui gli aveva insegnato, traeva
forza e coraggio, nelle quotidiane difficoltà della vita pastorale. Non aveva
neanche una vecchia radio, nella quale avrebbe potuto ascoltare le arie d’opera
della sua giovinezza, un mondo fa.
La sera del terremoto
fortunatamente lui era in strada e poté quindi andare a cercarsi i suoi
ragazzi, uno per uno. Qualcuno non riuscì a trovarlo, purtroppo, ma cercò di
mascherare il dolore perché non voleva che gli altri se ne accorgessero. Li
portò fuori dal centro abitato, e cercò di farli giocare per dimenticare quello
spaventoso disastro in cui erano immersi e si inventò un memorabile gioco
notturno. Il mattino dopo li riportò in
paese, dalle loro famiglie. Quei due ragazzi finiti sotto le macerie non
smettevano di girargli in testa. Capì che aveva bisogno di pregare, perché non
riusciva a farsi una ragione della loro morte. Entrò in chiesa, pur vedendo che
era piena di calcinacci e con uno squarcio nella volta.
Lo trovarono la sera, davanti
alla Madonna di Pompei del vecchio prete, con le mani giunte e con una grossa
pietra appoggiata sulla schiena. Le labbra atteggiate a un piccolo sorriso.
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