Sono
Francuzzo, il secondo direttore di macchina della CP 940, classe
Dattilo, una motonave della guardia costiera.
Dattilo,
il dito. Questo nome mi ha sempre fatto pensare al dito di Dio che
sfiora Adamo nel Giudizio Universale, e gli trasmette qualcosa che
neanche Michelangelo riesce a descrivere, o forse lo accoglie fra
coloro che sono a sua immagine e somiglianza...
Dopo
il servizio prestato in Marina, ai miei tempi era obbligatorio, ho
deciso per la ferma permanente, anche se sempre non lo sarà
certamente..... mi piace il mare. Adoro stare tutto il giorno per
mare. Anche se il mio lavoro è "dentro" la nave sento il
mare là fuori che mi circonda, e mi dà grande pace e serenità. E
poi quando ho finito il mio turno vado su e lo guardo. Mi son trovato
un posticino solitario, al di fuori degli occhi di chi vuol sempre
fare “quattro chiacchiere” e me ne sto seduto lì. Con le mie
Gitanes. E la mia tosse.
Voglio
bene ai miei ragazzi, otto, e loro vogliono bene a me. Anche loro
stanno bene qui, e mi trasmettono l'entusiasmo dei pochi anni che
hanno, pochi rispetto ai miei. In più di me hanno la passione per
questi motori, che sono il cuore di ogni nave, e li trattano, anche
se enormi, con la stessa delicatezza che avrebbe un orologiaio nel
maneggiare un orologio prezioso. Prezioso non per il prezzo, prezioso
per i ricordi che porta con sé. Io la passione per i motori, forse
perché ormai li conosco come le divise che ho nell'armadio, non ce
l'ho più tanto.
C'è
anche un bravo cuoco sulla nave Dattilo, uno che per mesi ha sofferto
il mal di mare. Lui, insieme a quello che ci dà il mare, non ci
fanno certo rimpiangere quel che mangiavamo a terra.
In
questi ultimi anni siamo sempre per mare. Si parte la mattina e non
si sa se la sera si dormirà a casa.
Una
volta dovevamo soccorrere le imbarcazioni in difficoltà, adesso,
ogni giorno, dobbiamo impedire la morte di centinaia, a volte
migliaia, di disperati uomini e donne e vecchi e bambini, che fuggono
da un futuro a loro negato.
Una
volta avvistata con i radar una di queste “zattere della
disperazione” la nave si dirige verso di essa. In quei momenti
siamo tutti tesi, e ognuno, nel rispetto dei suoi compiti, si
preoccupa in cuor suo per quello che troveremo. Quanti vivi, quanti
morti. Quanti riferiti dispersi. Quanti vecchi. Quanti da cercare lì
intorno.
Ogni
volta assistiamo a spettacoli che vanno ben al di là della nostra
fantasia e che lasciano una ruga in più sul viso.
Una
volta arrivati la “macchina del recupero efficiente”, come la
chiamo io, si mette in moto. Ognuno sa quel che deve fare e lo fa in
silenzio. Solo i loro richiami di aiuto, e il rumore di fondo del
mare, ci entrano nelle orecchie e si conficcano nel cuore. Ognuno ha un suo compito
ma ognuno è disponibile per tutti. E' un po', in quei momenti, come
se ognuno capisse davvero, come mai è stato nella sua vita, il senso
profondo della solidarietà.
Spesso
capiamo anche chi è, o chi sono gli scafisti. Anche con loro si fa
l'esercizio spirituale di reprimere il desiderio di torcergli il
collo (con le mie mani non avrei difficoltà...). Chissà, forse quei
soldi che hanno preso, potrebbero essergli serviti per dare da
mangiare ai loro cari..... eh sì, anche gli scafisti hanno dei cari,
chi l'avrebbe mai detto. Non mi sento proprio di giudicare nessuno.
Cerco di aiutare tutti.
E
finalmente arriva il momento in cui sono tutti a bordo. Spesso un
giorno non basta per arrivare a destinazione, spesso il mare ci
rallenta. Abbiamo la possibilità di accoglierne 80, in una camerata
con brandine e calore. Ma spesso, spessissimo, sono tanti di più. E
allora a bordo te li trovi dappertutto. Specie i bambini. Hanno una
capacità incredibile di trasformare tutto in un'avventura
meravigliosa e te li vedi sbucare da ogni buco, un po' sorridenti.
Anche in Africa giocano a nascondino, all'”ammucciatella”, come
diciamo noi calabresi.
E
il loro sorriso fa sorridere anche me.
Il
nostro cuoco, in fondo al cuore, è contento, ma non si permette di
farlo capire a nessuno, anche se io, che lo conosco bene, glielo
leggo negli occhi. Quando deve cucinare per tanti si esalta, e più
tanti sono più lui gode. Gode nel pensare cosa gli potrà dare da
mangiare, gode nel sapere che le sue capacità saranno duramente
messe alla prova. E' un poveraccio un po' folle, tutto sommato, ma si fa in
quattro.
Sa
che certi cibi non può usarli perché questa gente, ancorché
letteralmente “morta di fame”, segue i precetti della loro
religione. Lo scatolame di maiale non lo mangerebbe mai..... e allora
lui gli fa grandi minestre di verdura, calde, in cui mette il cus cus
e pezzi di pollo. Ha una pentola di 50 litri di volume. Si eccita, e
vede già, con gli occhi della speranza, il sorriso di coloro che
terranno in mano le sue ciotole.
Questa
è la mia vita, a cui non voglio e non posso rinunciare. Nel senso
che non ci riesco. Queste sono le mie famiglie e il mare è mio
Padre.
Questa
notte abbiamo avvistato uno scafo al largo di Malta, in acque
territoriali. Certo, non dovremmo andarci, ma sappiamo benissimo che
ci andremo comunque.
96
umani di cui almeno due terzi prossimi alla morte. Gambe e braccia
che possono soltanto ricordare i campi di sterminio. Occhi neri in un
buio pesto. Occhi di chi ha perso tutto, anche dopo averci visti. Che
ne sarà di loro, una volta scesi dalla motonave Dattilo? Non è mio
compito pensarci ma non riesco a farne a meno.
C'è
una ragazza che aspetta un bambino. E' molto bella, di pelle appena
scura. Avrà sedici anni. L'attesa di un figlio la rende ancora più
bella. Non capisco se abbia un compagno o se il compagno l'abbia
imbarcata a forza, per dare un filo di speranza a questo figlio.
La
portiamo su con tutta la delicatezza possibile. Il comandante le
offre la sua cabina. C'è un letto vero. E' spossata. La magrezza le
rende ancora più evidente quella pancia già enorme di suo. Le
mettiamo vicina una donna, cerchiamo di farle capire che se
succedesse qualcosa ci chiami.
Esco
da quella cabina pensando al futuro, non il mio, ormai irrilevante,
ma a quello di questo nascituro.
Mi
butto in branda alle sei. Notte difficile. Ma mi sono sentito utile.
Siamo stati tutti utili, siamo una bella squadra. Forse non siamo
davvero nati per niente, abbiamo seguito “virtute e conoscenza”.
E l'esercizio della virtù ci ha dato la conoscenza. Tutto, aveva
capito Dante.
Sento
gridare improvvisamente. Ho dormito quaranta minuti. Fin troppi....
Esco e capisco. La donna fuori dalla porta della cabina del
comandante grida, chiama aiuto. Entro e capisco che siamo arrivati.
Bene. Gli uomini son riusciti a medicalizzare il parto ma gli animali
ci hanno insegnato che la natura non ha bisogno di nessuno. Purtroppo
nessun uomo si è fatto avanti per veder nascere il proprio figlio.
Il comandante è un po' impressionato. Allora mi avvicino io a lei,
col volto solcato dalle lacrime per le contrazioni dolorose. A suo
tempo, tanto tempo fa, avevo dato anche l'esame di ostetricia e
ginecologia. Adesso è il momento di metterlo in pratica. Ostento
sicurezza davanti a tutti. Li faccio uscire. Siamo soli io e lei.
Lei griderebbe, se ne avesse la forza, ma emette solo un respiro
rumoroso. Se sapessi la sua lingua.... cerco di sorriderle e di darle
conforto. Le stringo la mano. Penso a Gesù, nato da solo in mezzo al
fieno. Eccola la testa! Nera e con capelli neri. Ok, dai, il gioco è
fatto. L'ultima spinta me lo mette in mano e lo tiro fuori.
Piangi,
cazzo, piangi!!!! Tira fuori questo cazzo di voce, porca puttana, non
vorrai morirmi fra le braccia. Non farmi questo torto. E finalmente
esce fuori questo grido, pianto acutissimo che avvisa tutti che ce
l'abbiamo fatta. Sorride adesso la mia Madonna. Glielo metto in
braccio e apro la porta. Mai nascita venne accolta con più grande
gioia e con un canto della loro terra che a me ricorda “Va
pensiero...”.
Piccole
felicità, grandi gioie, chissà.
Torno
in branda e il cuore va a quel bambino che non ho voluto.
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