Sto
tornando a casa.
Guido
distratto, canto assieme alla radio. A momenti mi commuovo: certa
musica mi fa questo effetto. L'andirivieni del tergicristallo mi
annoia e mi istupidisce. Ho fame e c'è buio.
Dopo
tanto tempo ho davvero voglia di ritornare: certo, restano i mille
problemi da risolvere, ma mi è tornata la voglia di riprovarci. In
questo senso la lontananza mi è servita: questi mesi di sofferenza
non sono stati pochi ma anche essi hanno avuto un senso.
In
questa strada c'è buio davvero.
Improvvisamente
la macchina ha un sobbalzo, come se avessi urtato un marciapiede, ma
qui marciapiede non ce n'è, sono ancora fuori città. Per un lungo
secondo ho il desiderio di proseguire ma rallento e mi fermo. Faccio
un po' di retromarcia, la luce bianca del fanale illumina la strada.
Dopo una ventina di metri lo vedo. Un mucchio di stracci da cui
sporgono due piedi nudi. Non ci credo. Sono stanco morto. Non ci
voleva... fra l'altro non ho neanche un ombrello in macchina. Una
voce che non riconosco mi ordina di scendere. Tentenno ancora un
attimo. Tanto sarà un cadavere, non ha più bisogno di aiuto. E se
gli fossero restati addosso i segni delle mie ruote? Menate a non
finire....
Accosto
e scendo. La pioggia fitta e fredda di gennaio mi penetra gelida nel
cuore. Provo con delicatezza a scoprire quel fagotto. E allora
incomincio a tremare. E' viva, avrà diciassette anni. Il viso è
gonfio e bluastro: non so che razza di bestia possa averla ridotta
così. Ha solo bisogno di aiuto. La prendo in braccio: uno
scricciolo di una trentina di chili. La devo portare di corsa in
ospedale, anche se mi interrogheranno e mi romperanno i coglioni a
non finire. Pazienza. Questa bambina ha bisogno urgente di cure,
avanti a qualsiasi altra considerazione che io possa farmi.
La
sollevo sotto la pioggia battente, che le dilava il sangue rappreso
dal viso, ormai irriconoscibile. La infilo in macchina, di dietro.
Guido con la più grande delicatezza e non penso a niente, meno male
che so dove è l'ospedale. La radio della macchina l'ho spenta. Mi
domando se ce la faremo.
Non
so pregare e penso che sarebbe inutile, adesso però mi piacerebbe
farlo. Dài piccola, resisti.
Arriviamo
finalmente al Pronto Soccorso, e me la portano via dalla macchina e
dalla vista. Mi siedo su una seggiola sgangherata della astanteria.
Dopo poco, troppo poco, mi viene cercare un poliziotto, per fare il
verbale: gli racconto quello che è successo. Mi sembra incredulo, ma
non credo di doverlo convincere. In realtà mi interessa sapere solo
come sta. E' per questo che dopo avere firmato il verbale ritorno a
sedermi. Aspetto delle ore, forse mi sono addormentato. Mi sveglia di
soprassalto lo scalpiccìo dei passi di due persone. Entrambi hanno
un camice bianco. Mi avvicino e chiedo loro come stia la ragazza.
"Quale ragazza?" mi chiedono. "Quella che ho portato
verso le nove". "Ah, è morta dopo dieci minuti.
Un'emorragia interna da traumi multipli".
Mi
sento svenire. Ascolto la mia voce dire "Grazie. Che
dispiacere".
Adesso
posso uscire. Cammino nel buio e nel silenzio, e dopo avere
oltrepassato di pochi metri il muro di cinta dell'Ospedale incomincio
a gridare e a piangere senza limiti: non posso e non voglio crederci.
La pioggia ormai non mi dà più alcun fastidio. Tutto quello che ho
fatto, credendoci con tutto me stesso, non è servito a niente. E'
immotivato il dolore per una sconosciuta, il mio cervello me lo dice.
Ma il cuore non ragiona. E cammino nel silenzio rotto soltanto dai
miei latrati, incurante di allontanarmi dalla macchina che mi deve
riportare a casa.
Sento
improvvisamente un dolore alla schiena, un dolore che non avevo mai
provato. Non capisco come mai sono caduto. Sento anche il gusto dei
sassolini della strada mescolato al sapore del mio sangue, che ben
conosco. La schiena mi fa malissimo. Mi gira la testa e mi viene da
vomitare. Sento delle voci estranee ma non capisco quello che dicono,
sono uomini. Sento ancora, con difficoltà, il rumore di macchine che
si allontanano.
Mi
sto addormentando e mi passa la vita davanti,come in un film in pochi
secondi. Me l'avevano detto. Non so che vita sia stata la mia. Ma so
che non sarei stato capace di viverla diversamente.
Mi
sono addormentato.
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