Violante si controllò il rossetto e
balzò sulla carrozza della metropolitana nel momento in cui le porte
si chiudevano. Aveva davanti a sé dodici fermate prima di arrivare
in Tribunale. Si sedette lontano dagli altri passeggeri perché
voleva riflettere ancora.
Quel delinquente del suo assistito
meritava qualcosa di più della galera ma lei doveva farlo assolvere.
Si mordeva le labbra per non mettersi a gridare quanto fosse ingiusto
il mestiere di difendere chi le aveva detto, nella quiete del suo
studio, che quella donna l'avrebbe volentieri ammazzata di botte, e
che quelle che le aveva dato non erano ancora abbastanza. E lei
avrebbe dovuto convincere un giudice ad assolvere questo schifo di
uomo, per il quale figlio e moglie erano solo oggetti di proprietà.
E si sa, gli oggetti non hanno diritti.
Nel momento in cui la donna – e con
quanta ragione – aveva richiesto l'affidamento del bambino la furia
si era scatenata su di lei. Quaranta giorni di prognosi, salvo
complicazioni.
E lei, in Tribunale, avrebbe dovuto
dimostrare che c'era stata una provocazione, e che la madre negava
alla bestia il diritto di frequentare il figlio, e di portarlo con sé
in quella casa orribile. Lei la conosceva, per esserci stata una
volta. Lì lui viveva, con la madre e due sorelle.
Violante si aggiustò la gonna che le
era salita troppo sopra le ginocchia: pensando si dimenava e un
ragazzetto le si era sistemato davanti per godersi lo spettacolo. Non
possiamo dire che quegli sguardi di adolescente non le procurassero
un filo di eccitazione. Sapeva bene di essere molto sexy e usava con
disinvoltura il corpo per ottenere i risultati giudiziari che voleva.
Raramente anche fuori delle aule.
Poggiò la cartella sulle cosce e il
teatrino finì. Il ragazzo scese dalla carrozza.
All'arrivo scese controvoglia: avrebbe
pagato per nascondersi in qualche buio ripostiglio. E invece salì
affannosamente le scale, chissà che non si potesse anche rompere un
tacco e avere una qualche scusa per arrivare tardi, quando magari
l'udienza avrebbe potuto essere rinviata. E invece no: le tre ore di
spinning che faceva ogni sera le avevano forgiato due gambe scattanti
e veloci.
Si sentì salire la nausea, e capì che
quel poco di colazione che aveva ingoiato non sapeva più che
direzione prendere. Sudava dappertutto e questo la metteva ancora più
a disagio.
Come dio volle arrivò in Corte
d'Assise, con gli occhi gonfi e la faccia stralunata. L'usciere le
disse preoccupato “Avvocato, non si sente buono?”. “Lasciami
stare. Non è giornata”.
Andò a sedersi al proprio posto e tirò
fuori il fascicolo dalla cartella.
E lui infine entrò.
Maschio latino, uno e novanta, occhi
gelidi acqua marina. Palestrato. Un sorriso feroce. Appena la vide le
fece un segno alzando i polsi ammanettati, con uno sguardo che
significava “Non devi sbagliare”. Violante fece finta di non
averlo visto ma si sentì rabbrividire.
E così l'udienza incominciò, con
l'esame dei testimoni, da parte dell'accusa e da parte della difesa.
Era brava Violante, e smontò, una per una, tutte le testimonianza a
sfavore.
Al momento dell'arringa si trasformò.
La si sarebbe detta una leonessa ferita, anche nell'aspetto. Ogni
argomento tirò fuori, ogni giustificazione, per cercare di suscitare
emozioni profonde nei giudici popolari. Il Presidente la conosceva
bene, e per questo era un po' distratto.
Lei parlò per un'ora, e alla fine
dell'arringa chiese un bicchier d'acqua.
Alle 15 discese stanca le scale della
metropolitana. Durante quelle dodici fermate avrebbe desiderato di
essere posseduta da uno sconosciuto.
Il suo cliente ricevette una condanna
minima.
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