Sono
l'uomo delle cellule, o almeno così mi chiamano i miei colleghi.
Sto
tutto il giorno davanti a un microscopio e scrivo delle diagnosi che
spesso sono degli epitaffi.
E'
per questo che quando ho l'occasione di incontrare qualche paziente
«vero» ne resto affascinato, come alla visione di un qualcosa di
veramente raro e prezioso.
Stamattina
dovevo accompagnare un amico a una visita, e sono entrato
nell'ambulatorio del collega che stava finendo la visita precedente.
Come
sempre faccio, dopo avere salutato medico e infermiera, mi sono
accoccolato su una sedia, in silenzio, aspettando che fosse chiamato
il mio amico.
Entra
invece una coppia, che già aspettava di essere chiamata: lui sulla
sessantina, alto, allampanato, con una mano finta, di plastica, molto
preoccupato, lei un po' più giovane, con un aria già
sfiorita
ma nello stesso tempo ancora agguerrita.
A
quel punto ho cercato di farmi piccolino, di non farmi notare ma
nello stesso tempo di seguire curiosamente la visita.
Il
collega incomincia a fare domande a lui, che risponde in maniera
impacciata, non ricorda alcune cose, dice cose non pertinenti, fa un
po' di confusione con le date (ovviamente non è capace di
distinguere cosa è sostanziale da cosa è accessorio): lei gli da'
sulla voce, amorevolmente lo corregge (“E' come i ragazzi, non si
ricorda”) e allora si accende un brusio che, quando ci si mette
anche il telefono, rende la conversazione incomprensibile.
Non
riescono a spiegarsi bene (io stesso ho difficoltà a capire dove è
il problema) ma trasmettono (e io lo percepisco in un attimo, perché
lo sento dentro) grande preoccupazione.
Rinunciando
a finire l'anamnesi il collega invita lui, che è il malato da
visitare, a stendersi sul lettino e lei a quel punto si siede vicino
a me.
Ho
quindi l'occasione di guardarla un po' meglio: capelli biondi, tinti,
raggruppati in uno chignon da cui escono piccole ciocche, gli
occhiali, l'occhio, ancora vivace, nasconde
antichi dolori.
Mi dice che è la sua compagna da dieci anni ma vivono in due case
diverse (e
perché mai?),
che quando lui sta male lo deve accudire e deve andare da lui.
Capisco anche dalle sue parole che lo mette un po' a perdere, vuole
che mangi e che beva come dice lei, e a lui piacciono gli intingoli,
che lo sanno tutti che fanno male ai diverticoli.
Una
storia come tante, velata un po' da questa tristezza di una famiglia
che non e' famiglia, con problemi di tutti i generi ma anche
sostanziata da un amore non solo fatto di parole ma intessuto nelle
difficoltà.
Quando
il collega finisce la visita aspetta che lui si rivesta, per parlare
una sola volta a entrambi.
Dice
che la visita è negativa, che non c'è' niente di preoccupante e
allora la tensione per questa signora non più giovane (a cui sento
di essermi già in qualche modo un po' affezionato) si scioglie in un
pianto irrefrenabile, e ci racconta ancora che lei ha avuto un grave
lutto (immagino il figlio) e che non ce la fa più.
Il
collega, da medico, le consiglia, sic
et simpliciter,
un antidepressivo.
Io,
che sono lo spettatore silenzioso, non saprei che medicina dare, dato
che la serenità non si può comprare né
tantomeno vendere.
Alla
fine la signora è tanto contenta che abbraccia il collega.
Se
ne vanno via insieme, rinfrancati, di nuovo pronti ad affrontare
domani.
Io
resto lì come imbambolato, domandandomi se è giusto che l'uomo
delle cellule si sia perso tutta questa vita.
26.4.2010
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