E'
tornato a casa, finalmente. E' andato via un martedì pomeriggio, lo
ricordo bene. Avevo appena suonato le tre. Un pomeriggio qualsiasi.
Se ne è andato come al solito, in silenzio.
Poi
per quasi una settimana non l'ho più visto. Percepivo negli altri
abitanti della casa, in quei giorni, un'agitazione che si propagava
nell'aria, e uno svolgere le quotidiane attività con uno spirito
diverso, un sentimento di preoccupazione che non avevo mai notato.
Loro continuavano ad andare e venire ma lui in quei giorni non c'era.
In compenso il telefono squillava continuamente.
Non
è molto che sono in questa casa. Sono stata per anni chiusa nella
casa di campagna, ferma, una casa buia e fredda, perché priva di
umani. Una casa che un tempo d'estate si animava delle voci di amici
prima e di bambini poi, voci accompagnate gioiosamente dall'abbaiare
dei cani. Il tempo che io segno era anche scandito dai ritmi della
vita quotidiana, i pasti, la raccolta della verdura, di certe
albicocche di cui ho sentito per lungo tempo le lodi. Poi il tempo è
riuscito, con lo stesso procedere della goccia che scava la roccia, a
cancellare tutto: solo i ricordi restano incisi nelle mie sfere,
anche se a nessuno sono visibili.
Un
giorno mi sono venuti a prendere e, con sorpresa e gioia, ho ripreso
il mio servizio in un'altra casa, ma con persone a me familiari, e
sono stata messa vicino alla camera da letto. Continuo a ricordare le
ore che passano, specie di notte, a chi non riesce per tanti motivi a
dormire. Nel silenzio, rotto soltanto da piccoli latrati di un cane
sognante, batto tre rintocchi a distanza di mezzora l'uno dall'altro,
e annuncio che è l'una e mezza. Lui mi carica con regolarità, e
cerca di non farmi mai restare ferma, con l'accanimento di colui che
ha la superstizione di credere che la sua vita sia legata, appesa
forse, al proseguire delle oscillazioni di un pendolo. Ma a me fa
piacere ritornare a essere coccolata, e cerco col mio suono di
trasmettere non solo un po' di gioia ma anche i ricordi che, come
tutti i ricordi, più sono sbiaditi e più diventano dolcissimi.
Non
va più a lavorare, il mio padrone.
Non
ho ben capito il perché, non riesco a capire le parole che gli umani
si dicono. Capisco, interpreto, o forse invento, piccoli segni,
atteggiamenti solo accennati, tonalità della voce. Sono soltanto una
pendola della seconda metà del secolo scorso, ricordiamocelo, non un
computer di ultima generazione. Però sono una pendola intuitiva, e i
miei rintocchi, sempre uguali e sempre diversi, segnano un tempo che
ha lasciato solchi profondi.
Non
va più a lavorare, in questi giorni. Racconta però, e molto
volentieri, a chiunque gli si pari contro, di questa nuova avventura
che ha avuto, che, lo capisco da come gesticola, ha avuto per lui lo
stesso impatto di un assalto a una nave di James Brooke sul praho di
Sandokan, attorno a Mompracem. E si infervora, racconta dei suoi
compagni di viaggio, fa vedere certi segni che gli sono rimasti sul
corpo. Ma a guardarlo negli occhi si capisce che proprio un'avventura
non deve essere stata, almeno dal punto di vista della piacevolezza
che accompagna ogni avventura. Non lo vedo poi così divertito.
E
racconta anche di questi compagni di viaggio, quello che sembrava
morto e che una terribile scossa ha fatto rivivere, l'uomo dalla
barba bianca, novello Yanez, e quello che aveva mangiato troppo dopo
la battaglia, per la contentezza, e che stava morendo nella più
stupida delle maniere. Tutti uomini dai capelli bianchi, e anche al
mio padrone i capelli, nel giro di una settimana, sono un po' più
imbiancati.
Non
riesco però a capire se sia felice o disperato. Certo, raccontare
una così grande avventura, e averla passata con poche ferite, lo
dovrebbe rendere felice, ma la voce è spezzata nell'attesa impotente
di un'altra prova, che lui teme, perché non sa se ce la farà.
E
così alterna voce e sguardi di contentezza a momenti, magari quando
suono quei tre rintocchi a distanza ciascuno di mezzora, in cui
annega nella paura. E' persino anche ironico, a momenti, ma si vede
bene che lo è solo per scacciare il panico. Non so davvero se questa
avventura sia stata davvero divertente, ma c'è stata. Dovrà pur
farsene una ragione.
Non
va ancora a lavorare, il mio padrone.
Le
bestie che sono in casa girano anch'esse con una certa inquietudine.
Lui se le prende in braccio e le riempie di baci, ricordando forse
quando in braccio teneva un pargoletto bisognoso di tutto, che adesso
guida la macchina. Ma le bestie non sono bambini, sono molto più
autonome, specie i gatti, per cui dopo due o tre strofinate si
divincolano con agilità e scappano.
Non
ha voglia di lavorare, il mio padrone.
L'unica
cosa che fa volentieri, e lo capisco bene perché glielo leggo negli
occhi, è mettersi ai fornelli e giocare ai pentolini. Dopo la sua
avventura (adesso ce lo possiamo dire, una "piccola"
avventura, condivisa con tanti umani, che forse a lui è andata
anche meglio che a tanti altri) è svogliato e gira per casa come
un'anima in pena. Non riesce a fare tutte quelle cose che prima
dell'avventura gli riuscivano spontanee e facili, e ogni attività
gli pesa. Ma non giocare con i pentolini. Ormai lui è capace a dire
"ti voglio bene" soltanto cucinando qualcosa per chi gli è
vicino, con il massimo dell'impegno. E il massimo dell'impegno
significa uscir di casa la mattina per andare al mercato, e cercare
con cura gli ingredienti giusti per quella ricetta, con un foglietto
in mano fitto di una lista scritta con minuta grafia, non ancora
tremolante per fortuna. E tenerlo in mano durante la spesa con la
stessa attenzione con cui il navigante guarda la bussola nella notte
senza stelle. E' buffo, il mio padrone. Ormai al mercato qualcuno,
non tutti, lo riconosce e lo saluta cordialmente, "Come sta,
dottore?" "Oddio, passiamo alla prossima domanda". Ma
non riesce a trattenersi, e racconta, per la n-esima volta, la sua
piccola avventura di fragile umano, ancorché grassottello, e così
si guadagna qualche parolina di conforto, che gli fa bene.
Presto
dovrà tornare a lavorare, il mio padrone. E io gli segnerò il tempo
dell'uscita e del ritorno a casa, e vorrei che i miei rintocchi siano
per lui il segno dell'augurio di quella spensieratezza che si è
persa lungo la strada degli anni.
Forse
io sono più fortunata di lui, vecchia pendola.
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