Ho sposato Amalia, “la
donna che non sapeva parlare”, che avevo soltanto vent'anni, e
credevo di amarla, ad onta di quel suo piccolo difetto. Dopo il primo
bacio mi disse, tutta trepidante “Tesoro, meno male che ho usato un
dentifricio antitarme!”. Feci finta di niente, pensando di avere
sentito male.
Al ritorno dal viaggio di
nozze lei disse raggiante a mia madre “Siamo stati in un albergo di
una lussuria sconvolgente!”, e la povera donna mi guardò con aria
di rassegnata e impotente commiserazione.
E così ogni giorno della
nostra breve vita coniugale veniva condito dalle frasi inverosimili
di questa donna dal capello rosso e dal profumo pungente, con ben due
occhi verdi ma un unico piccolo neurone, vagante in un contenitore
per lui troppo ampio. Frasi talora comiche, sempre inopportune.
Persino mio padre non venne risparmiato dal suo pericoloso brio, e in
una serata fra amici la nuora se ne uscì fuori con un “mio suocero
appartiene a una famiglia di alto linciaggio”, poco dopo avere
chiesto al cameriere una porzione abbondante di "calci in bocca
alla romana".
L'ho uccisa tutt'a un
tratto, portandola a visitare il cantiere dove a quel tempo lavoravo,
e facendole inopinatamente rovesciare sulla sua bella ma deserta
testolina una betoniera piena di “calce a spruzzo”.
Sic transit gloria mundi.
Non molti anni dopo ho
conosciuto Lara, graziosa trentenne, e mi sono innamorato del suo bel
viso nello spazio di un minuto, sposandola nel volgere di una
settimana. Un grazioso nasino appena accennato all'insù, un'ovale
degno di Raffaello, un'incarnato che a me ricordava il rosato di
certi tramonti d'autunno, silenziosi e raccolti. Non avevo ancora
capito che lei fosse “la donna che non sapeva cucinare”.
Non mi stupì molto a
quel tempo il fatto che ogni sera lei insistesse per andare al
ristorante, anzi la trovavo una richiesta accettabile, tutt'al più
leggermente dispendiosa, non un segno premonitore.
E quando finì il viaggio
di nozze ricominciò quella vita quotidiana, dalla cui noia lei
avrebbe dovuto liberarmi. Attività che le riuscì perfettamente.
Ricordo in ogni
particolare la prima sera che tornai a casa dal lavoro, felice,
affamato, curioso.
E' difficile mettere la
pasta nel piatto con metà della sua acqua di cottura, eppure lei ci
riuscì, perché aveva deliberatamente programmato di diluirvi la
passata di pomodoro, versandola direttamente dalla latta. Forse avrei
preferito una punta di zucchero, ma capii che lei aveva versato un
intero cucchiaio di sale in quella che, con azzardata iperbole,
chiamò "pummarola". La carne ai ferri per non esser da
meno arrivò in tavola nerastra, cosparsa di verdi chiazze di un'erba
aromatica resa irriconoscibile con volontà malefica.
Non passò più di un
mese, durante il quale sopravvivere fu davvero impegnativo, che una
domenica decisi di prepararle un pranzetto io, tre portate, una più
entusiasmante dell'altra, di cui lei purtroppo poté apprezzare
soltanto la prima, che emanava una tenue fragranza di mandorle amare.
Non sono più un ragazzo
ma ho ancora un discreto aspetto. Nel mio vagabondare attraverso
l'altra metà del cielo sono incappato in Graziella, di poco più
giovane di me. Già da anni la conoscevo e debbo dire che mi è
sempre piaciuta, ma incontrandola ogni giorno alla mensa aziendale la
guardavo solamente con la coda dell'occhio, senza rendermi conto che
lei era proprio “la donna che sapeva fare l'amore”.
Le mie due deludenti
esperienze mi hanno dato una certa pericolosa presunzione, per cui
una sera ho preso il coraggio a quattro mani e le ho telefonato.
Non mi ha insospettito il
fatto che fosse così cordiale, e che mi dicesse di andare subito a
bere qualcosa da lei, anzi quella sera ho pensato che la mia stella
mi guardasse con benevolenza e mi sono messo in macchina con la
camicia di seta color fucsia, non prima di di essere passato in
gelateria. Una vaschetta di gelato per due, gusto limone.
Fosse stato per lei non
avrebbe neanche chiuso la porta: l'ho fatto io, con un calcio. I
bottoni della camicia sono saltati con lieve scoppiettio. Mi ha
trascinato nella sua cuccia con la forza di una donna di
Neanderthal e mi è saltata addosso, incollando la sua bocca alla
mia. E' stato bellissimo quel bacio, anche se non respiravo troppo
bene perché lei era a cavalcioni del mio torace. Peccato che proprio
quel bacio sia stato il mio ultimo ricordo, perché con quella lingua
è riuscita a soffocarmi, tardiva e inconsapevole vendicatrice.
Il gelato se lo è finito
da sola.
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