Fatico come un mulo. Scarico
cassette di pesce puzzolente dalle 3 del mattino, al mercato di via
Lombroso. Alle 11 ho finito, infatti sono finito. Devo dormire
qualche ora, dopo una lunga doccia. Però alle 9 della sera sono
pronto, radioso nel mio giubbotto di pelle, consumato al punto giusto
e nei punti "giusti". Quando l'ho comperato l'ho cercato a
lungo perché lo volevo assolutamente come quello di Marlon Brando,
quando impersona Johnny Strabler ne "Il Selvaggio". Almeno
una volta alla settimana devo vedere quel film, e il fatto che abbia
più di 50 anni me lo rende ancora più immortale. Ogni parola che
esce dalla bocca di Johnny è scolpita nel mio cuore. Anche la scuola
d'inglese sto facendo, solo per poter ascoltare la sua vera voce.
Esco nell'inverno milanese,
quest'anno particolarmente umido, e sono pronto per gli amici. Pochi
sanno del coltello che ho nella tasca davanti al cuore: non è
prudente uscire senza. Ma esco comunque tranquillamente, inforco la
moto, che non può ancora essere una Triumph, e arrivo in piazzetta.
Non porto il casco perché voglio sentire il vento fra i capelli.
Trovo già i ragazzi, pronti a partire a un mio cenno. Non vogliamo
correre, non ne abbiamo bisogno, anche perché un po' siamo
desiderosi di questa piccola sfilata serale, certo, sempre uguale,
che mettiamo in scena a Quarto Oggiaro. Uguale come la vita che tutti
noi conduciamo. Vite opache, vite abbruttite da un lavoro talmente
faticoso da farci perdere ogni dignità: io, Toni che lavora in
discarica, tutti i ragazzi insomma, chi più chi meno.
La "processione"
termina tutte le sere in quel bar, per mangiare un boccone, giocare a
carte e per farci un po' di ridere.
E' forse un bar miserabile come
noi, ma ci siamo affezionati perché sentiamo di essere in Famiglia.
Il bancone è sempre lucido come uno specchio e a fianco ha la
vetrina con i panini, i toast e le piccole cose che la padrona cucina
principalmente per noi, avventori della sera. Il biliardo è a un
angolo del salone, dalla parte opposta del bancone, coperto da un
drappo nero, raramente scoperto. I tavoli con le sedie, per bere e
giocare a carte, poveri tavoli di formica. La luce è bassa e sfiora
la penombra, specie quando non è acceso il lampadario del biliardo.
Stasera arriviamo che il bar è
ancora vuoto, purtroppo per Silvano che ci offre amichevolmente il
primo giro. Ci sediamo e incominciamo a giocare. Mi esce un full in
prima mano, e mi induce a riflettere su che senso abbia bruciarsi il
guadagno della mattinata al tavolo del poker..... ma cosa mi resta?
Cosa ci resta, in fin dei conti, di questa vita ogni giorno più
avvilente, per poterci divertire anche noi? Forse che non ne abbiamo
il diritto? Non possiamo andare a fare la caccia grossa in Africa
come Hemingway né fare la crociera dei fiordi norvegesi. Neanche lo
shopping a Montenapoleone, possiamo fare. Le rate della moto bisogna
pagarle. Un minimo aiuto lo devo dare ai miei due vecchi: la loro
pensione è troppo bassa. In fin dei conti il letto me lo hanno
sempre dato e, anche se continuo a pensare che della vita entrambi
abbiano capito ben poco, gli voglio un bene dell'anima. Alla fine
della fiera qui ci divertiamo e qualche volta, poche volte, esco con
più soldi di quando sono entrato.
Ma stasera è fiacca, e l'umore
di tutto è a un basso livello, non so perché ma nessuno ha voglia
di ridere. Certo, ridiamo per non piangere, ma ridiamo. E poi il riso
è contagioso, ecco perché veniamo qui.
Saranno le undici: entrano due
donne tenendosi per mano. Grosse, è il mio primo pensiero, grosse
mani, grosse donne. C'è caldo qui dentro, certo, ma forse sono un
po' troppo svestite. Due vestiti rosa con le bretelline, diversi fra
loro ma simili nell'intenzione di far sgranare gli occhi a chi li
vede. Due seni sporgenti e ammiccanti, anche loro troppo grossi per
essere veri. Due donne dai lineamenti forti, stranamente fra loro
simili. Entrando si guardano intorno un po' circospette, ma nessuno
le considera più di tanto. Siamo in periferia qui, e due donne che
entrano alle 11 della sera in un bar non fanno nessuna impressione,
anche se l'orlo della gonna arriva a metà di certe cosce che forse
sarebbe meglio non esporre. Ma quanti anni avranno queste due donne,
che sembrano appena uscite dal retro di un teatro di quart'ordine?
Non due ragazze, i quaranta non li aspettano più. Appena finito il
toast che mi sostiene tutte le sere incomincio a giocare,
svogliatamente perché le osservo con crescente attenzione, ma il
gioco mi serve come copertura. Non sia mai che si accorgano che le
osservo: mi sembrano tipi da dirti chiaramente, e ad alta voce, di
farti i cazzi tuoi.
Gioco, intanto, ma il mio tris di
donne non mi permette di vincere la mano. Cinquanta euro, ci avevo
messo. Anche io tre donne ho avuto finora, più qualche storia morta
prima di nascere, mah..... non sono certo Johnny Strabler ma le mie
carte, non quelle del poker, sono stato capace di giocarmele bene.
Sono le donne che sono sempre state sbagliate. Forse gli amici sono
meglio, almeno da un certo punto di vista.
Non le vedo molto bene, da qui.
Ma posso sentire che si parlano. Mentre una delle due ha una voce
ancora "umana", l'altra ha un vocione che potrebbe
tranquillamente fare la parte di Rigoletto, che è un baritono se ben
ricordo, nel teatrino di cui sopra. E che cosa sarà mai...., c'è
qualcosa di stonato in quella voce. Non realizzo ancora bene cosa
sia, ma sento agevolmente la dissonanza. Sono intuitivo, io, e sento
le cose nella pancia ben prima di capirle con la testa.
Si siedono a un tavolo poco
distante da noi, ciascuna con in mano un boccale di birra. E bevono
da assetate, leccandosi le labbra. Sono sedute una a fianco
dell'altra e le loro bocche, vistosamente marcate da un rossetto
acceso come il sole, si fondono. Bene, abbiamo appurato che sono due
omosessuali, o meglio due lesbicone, termine che trovo
sgradevolissimo e che non voglio usare. Infatti non vi è nulla di
criticabile in queste due persone. Emanano invece grandi tenerezza e
passione. Fanno finta di essere sole ma in realtà guardano tutti, e
in un certo senso si aspettano, con paura, di essere prese a
maleparole o di essere mandate via. Ma non possono fare a meno di
scambiarsi baci che altrove forse non riescono a donarsi. Gioco
sempre più distrattamente. Vorrei alzarmi, salutarle, offrire loro
un'altra birra, parlarci. Vorrei fargli sentire la mia vicinanza,
perché anche io mi rifugio in questo bar. Ma continuo a giocare, e a
perdere, anche se sento di avere vinto qualcos'altro.
Fra mezzora devo andare a
lavorare. Mi pesa, ma, come già detto, non ne posso fare a meno. E
se non ci fosse il lavoro anche queste serate non avrebbero lo stesso
sapore. Ciò non toglie che alzarmi e smettere mi pesi, specie quando
sto vincendo.
Sono le due e mezzo. Entrano che
saranno una decina. Ragazzi, schiamazzanti. Tatuaggi su braccia e
volto. Urlano, ridono, pestano i pugni sul bancone. "Dacci da
bere!!" urlano in coro. Si siedono sui tavoli e sbattono le
sedie in terra. Hanno solo voglia di fare casino. Silvano ha un'aria
perplessa e noi, che siamo più vecchi di questa banda, anche se non
"vecchi", li guardiamo con un certo fastidio, ma proviamo a
continuare a giocare tranquillamente.
La banda si accorge delle due
donne. E' un attimo. Come animati da un'onda inarrestabile sono
trascinati al loro tavolo, e incominciano a tormentarle, con
crescente intensità. Perché prendersela con quelle due? Che cosa vi
hanno fatto? Leggo negli occhi delle donne il terrore. Leggo negli
occhi dei ragazzi tante altre cose: astio, scherno, prevaricazione,
finto divertimento, orrore del diverso. Le sbeffeggiano con violenza
indescrivibile.
Ecco, il primo di loro le ha
toccate.
Vedi che ho fatto bene a portarmi
il coltello. Mi alzo, colto da una scossa elettrica e scatto verso di
loro. Il coltello a serramanico è apparso nella mia mano. "Adesso
basta, ragazzi. Vi siete divertiti abbastanza. A nanna, che qualcuno
non rischi di farsi male". Si fermano, finalmente. Anche io
sono fermo, a fianco delle due donne, novello angelo custode,
incredulo del proprio coraggio. Mi sfilano tutti davanti, chi con
aria contrita, chi con aria spavalda. Mentre l'ultimo mi passa di
fronte sento un dolore bruciante alla coscia destra, che mi lascia
senza fiato.
Tutti sono usciti, e allora chino
la testa. Il pantalone ha un lungo strappo, da cui esce un fiotto di
sangue pulsante, che mi sorprende non poco. La gamba non mi regge più
e mi siedo al posto di quella col vocione. Il sangue continua a
uscire con forza e lei mi preme uno straccio sulla gamba, non più
bianco.
Gli occhi mi si annebbiano. Non
vorrei morire, anche se so che tutti dobbiamo morire. Ho cercato di
vivere come se non avessi dovuto morire mai, ma ogni giorno ho
pensato che prima o poi sarei morto. Forse non in maniera così
sciocca. Ma la morte non è sciocca. Ho fatto un gesto del quale
sono fiero e che rifarei sempre e comunque. So che anche mio padre
sarà fiero di me. Quest'uomo col vocione che piange sommessamente
vicino a me mi conferma che non mi sono sbagliato. Mi sto
addormentando.
Meno male che il giubbotto non si
è rovinato.
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