Bettina quella mattina si era alzata presto, alle cinque e un quarto.
L'appuntamento era alle dieci e mezzo ma lei voleva avere tutto il
tempo necessario per ricontrollare il curriculum. Era troppo
importante e doveva essere perfetto.
La sveglia, regolata sulle sei, non aveva neanche avuto il bisogno di
suonare perché un clic "dentro", in quel sonno più volte
interrotto, l'aveva richiamata alla scarsa luce dell'alba invernale.
La prima imprecazione era maleducatamente uscita dal pensiero
cercando le ciabatte. Mai che fossero al loro posto.
Arrivò in cucina con gli occhi ancora assonnati, senza a riuscire a
trovare l'occorrente per colazionarsi. "Fatti almeno il caffè",
si disse, "il resto lo cercherai dopo".
Anche il caffè quella mattina stentava a salire, non ostante lei
fosse sicura di non averlo schiacciato nel filtro, segno di una
giornata storta. Ma ancora lei non poteva immaginare quanto.
Dopo la frutta riprese in mano il curriculum. Non aveva voluto usare
il cosiddetto formato europeo, tanto non era un professore
universitario, e a lei piaceva che fosse più discorsivo. Aveva
inserito tutti i suoi studi, a partire da quella scuola elementare
che tanti tristi ricordi le aveva marchiato, per finire a quella
laurea tanto desiderata, anche se in cuor suo, se le fosse stato
permesso, lei avrebbe voluto fare il medico. Il Medico. In
particolare l'internista, specialità per la quale si sentiva
particolarmente portata. Ma, oggi lo possiamo dire con cognizione di
causa, ciò per cui lei era disperatamente portata era il poter
aiutare il suo prossimo.
In questo la sua laurea e la sua professione la aiutavano solo
parzialmente.
Poi c'erano le esperienze lavorative, in un certo senso il punto
dolente del curriculum, almeno dal suo punto di vista. Tutte attività
in cui aveva dato letteralmente l'anima e da cui, invariabilmente,
aveva ottenuto poco denaro e minima soddisfazione. Certo, aveva fatto
della pratica ma tutto quello che faticosamente aveva studiato e
imparato le era servito davvero poco.
Non aveva dimenticato gli hobby, primi fra tutti i suoi adorati
fiori, di cui giustamente andava orgogliosa, e le sue aspirazioni, a
nostro parere davvero modeste. Ma Bettina si dava molto meno valore
di quello che davvero aveva.
Comunque il suo curriculum, dieci fogli in tutto più un floppy, era
anch'esso perfetto.
Si vestì con cura e attenzione. Indossò un collant grigio velato e
una gonna anche essa grigia. Una camicetta di lino color perla tirata
fuori dal cassetto per l'occasione, ancora profumata di lavanda. Un
filo di trucco, per evidenziare ancora meglio quelle due lanterne che
aveva sotto la fronte, un rossetto di un rosso solo minimamente
sfacciato. A lei piaceva così ed era sicura che al direttore del
personale non sarebbe dispiaciuto.
Uscì di casa alle otto e mezza, due ore in anticipo
sull'appuntamento. Non voleva arrivare per nessun motivo sudata.
Sull'autobus notò un uomo che la guardava con insistenza, ma lei era
stata educata, dalla nascita potremmo dire, a far finta di niente.
Anche se cercò a sua volta di guardarlo, cercando di non farsene
accorgere. Quell'uomo aveva un aria studiatamente trasandata. Una
volta era stato biondo ma adesso i corti capelli sulla carta
d'identità erano stati definiti brizzolati. La barba di alcuni
giorni. Due baffoni che facevano venire in mente una foca o un leone
marino, in questo aiutati da un fisico non proprio asciutto.
Teneva in grembo una borsa floscia, in cui a più riprese rovistava
senza dare l'impressione di avere trovato quello che cercava. O forse
era un gesto per darsi una qualche importanza. Bettina ne era rimasta
come ipnotizzata e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso,
anche se doveva farlo. Le avevano insegnato che non era buona
educazione.
Finalmente lui scese dall'autobus, e Bettina lo cancellò dai suoi
ricordi. Era sceso alla fermata prima di quella a cui sarebbe dovuta
scendere lei.
Arrivò all'azienda con mezzora buona di anticipo. Non volendo fare
la figura dell'ansiosa, anche se a quel posto ci teneva davvero
assai, decise di farsi un giro alla Rinascente. Chissà che non le
venisse qualche buona idea per arredare la sua nuova casa. Di tante
cose ancora aveva bisogno quella casa. Di un uomo, anche.
Come dio volle l'ora passò, fra servizi all'americana e stoviglie
decorate a fiori verdi.
Bettina uscì e entrò nell'azienda. Con tutta la sua gentilezza
chiese del direttore del personale. Fu indirizzata dagli uscieri al
secondo piano. A lei piacevano le scale, le riteneva un buon
esercizio, e non aveva alcun torto, vista la snellezza delle sue
gambe. Comunque l'ascensore la terrorizzava. Se avesse dovuto salire
al dodicesimo piano non avrebbe potuto fare a meno di arrivare un po'
sudata.
Una segretaria che non avrebbe sfigurato in un calendario per
camionisti, con un seno assolutamente inverosimile, le disse di
accomodarsi in una saletta poco più avanti, chiusa da una porta di
vetro smerigliato. Sarebbe stata chiamata.
Si avviò con il suo bel curriculum sotto il braccio ed entrò. C'era
solo un'altra persona.
Lo riconobbe immediatamente. L'uomo dell'autobus, la foca.
Sulla camicia, bianca, spiccava una macchia marroncina, goccia di
caffè colata dai baffi, pensò lei con un moto di simpatia. E lui
portava anche la macchia con grande noncuranza. E fumava. Nella
saletta d'aspetto i portacenere del resto non mancavano e l'aria era
pesante del fumo di più giorni. Bettina pensò che presto si sarebbe
alzata ad aprire la finestra.
Anche lui l'aveva riconosciuta, non immediatamente ma l'aveva ben
riconosciuta. Bettina non capiva se le guardava più le gambe o più
gli occhi ma la guardava con profondità.
Dopo avere realizzato che mai e poi mai lei gli avrebbe rivolto la
parola lui esordì con un "Anche lei per il curriculum?".
Una bella voce, forse leggermente nasale.
"Sì, certo", rispose. E si accorse di balbettare.
"Speriamo che serva a qualcosa..." continuò lui, con
incertezza.
Voleva farla parlare. E allora prese il coraggio a quattro mani. Si
alzò dicendo "Io sono Franco B. Forse ambiamo tutti e due allo
stesso posto ma nulla vieta che ci stringiamo lealmente la mano. E
che vinca il migliore". Franco si stupì della naturalezza con
cui gli era uscita questa frase.
Ma non era solo naturalezza. Era anche desiderio. Di conoscerla.
Anche lei si stupì che le avesse rivolto la parola. Tutti le avevano
sempre fatto capire che lei era una insignificante nullità ed era
stupefacente che qualcuno in circa dieci parole li smentisse così categoricamente. Le si
strozzò la parola in gola e per forse due secondi, o due minuti, non
fu in grado di emettere suono o di muovere il braccio. E lui, lì,
fermo, con il braccio esteso e la mano, che grande mano, aperta verso
di lei.
Ci si tuffò dentro, quella mano, Bettina, intuendone la schiettezza.
"Piacere Franco. Io sono Bettina F. Che vinca il migliore,
certamente".
Franco le si sedette a fianco. Incominciò a parlarle e lei ne restò
affascinata. Non capiva le parole ma soltanto la nuvola sonora che
esse costituivano, nuvola su cui lei galleggiava. Una nuvola che
poteva essere di bla bla bla come poteva essere la declamazione del
quinto canto dell'Inferno - Quali
colombe dal disìo chiamate.... - una nuvola fatta di alito di
sigaretta, di caffè, di voglia di raccontarsi... Franco che voleva
andare via.... Franco che voleva una vita diversa, ma che doveva anche
lui consegnare il curriculum anche se questo avrebbe inevitabilmente
voluto dire che era in competizione con lei. Noi sappiamo bene che
Franco in competizione non lo avrebbe mai voluto essere con
nessuno....
Improvvisamente i loro sogni cedettero il passo a due colpi secchi,
sul momento non riconoscibili, a cui seguirono grida disperate,
troppo vicine a loro. Franco la prese per il braccio e la strappò
via dalla seggiola su cui lei era rimasta incollata.
"Vieni via, piccola". Dopo aver sbirciato oltre la porta di
vetro smerigliato uscì trascinandola, cercando da andare nella
direzione opposta a quella da cui aveva sentito gli spari. Lei lo
seguiva passivamente, non capendo bene quello che stava succedendo.
In qualche maniera arrivarono in strada. Franco ansimava. Camminarono
forse cinque minuti, mano nella mano, fino a quando entrarono in un
piccolo bar. Con un'aria pulita. Si sentivano, lontane, le sirene
della polizia.
Nel giornale di domani avrebbero letto che il direttore del personale
era stato freddato con due colpi di 357 Magnum da una donna
disoccupata. Disperata. Doveva essere uscita da quella sala d'aspetto
un attimo prima che c'entrassero loro.
In quel bar, davanti all'ennesimo caffè, Franco le disse "Che
culo che abbiamo avuto, cara la mia Bettina...." e lei annuì,
pensando al curriculum rimasto nella stanza fumosa.
Ma chissenefrega del curriculum.....
Nessun commento:
Posta un commento