Dopo
tante incertezze, mi sono convinta.
Già
da qualche tempo sono diventata padrona della casa "di famiglia"
e ho finalmente deciso di ricostruirla da cima a fondo, cosa che a un
tempo mi stuzzica e mi gratifica immensamente. Non che quella casa
fosse brutta, anzi, averci trascorso l'infanzia e la giovinezza è
motivo continuo di bei ricordi, però vi sono alcune cose, che per me
hanno un significato profondo, che potrò finalmente cambiare.
E
allora tanto vale cambiarne anche svariate altre....
E'
un vecchio palazzo, in un quartiere del centro, in una lunga strada
che si dirama da una piazza alberata, dirigendosi a sud, con due file
non interrotte di caseggiati fine ottocento, ai cui lati vi sono
ancora giardini meravigliosi e riparati, nascosti da sguardi
indiscreti, che sembrano inesplorati.
Come
tutte le case di un certo tono ha sempre avuto il servizio di
portineria, e quando ero piccola questo era tenuto da due sorelle,
che mi hanno sempre fatto venire in mente le sorelle Materassi. Erano
due vecchie sorelle, e non mi stupirei se avessero nascosto un grande
segreto. Magari erano ricchissime, e il sabato mattina, quando
andavano via, mi immaginavo che andassero a stare per due giorni in
una reggia sfavillante....
Da
bambina in quella via c'erano negozi che ormai non ci sono più e
anche i loro padroni sono morti. Il vecchio lattaio, il vecchio
macellaio, tutti negozi in cui il rapporto col cliente diventava una
piacevole consuetudine, e ci si dava il buongiorno come con una
persona in un certo senso di famiglia. Solo il tabacchino è rimasto
uguale, nel senso che si è tramandato di padre in figlio, e come è
facile immaginare si tramanderà di figlio in nipote. Sono cambiati
soltanto gli articoli che compravo, caramelle, chewing gum, piccoli
giocattoli.... adesso compro anche carte bollate.
Con
Edo abbiamo per tanti anni abitato in un'altra casa, ma adesso la
lasceremo, io senza alcun rimpianto. La "mia" casa sarà
un'altra cosa.
La
decisione ha tardato a venire, sia per l'impegno economico da
sostenere sia per quella malinconia che sempre accompagna i
cambiamenti, e che ci si vuole evitare finché non se ne possa più
fare a meno.
Gli
operai dell'impresa hanno incominciato un giorno di maggio. Ben
presto, dato che per costruire bisogna inevitabilmente distruggere,
la casa è stata invasa da un fine pulviscolo, fine ma denso, che
impediva di vedere le persone a più di un metro, oltre il metro le
si intuivano soltanto, senza riconoscerle.
La
sera, prima di cena, faccio un piccolo sopralluogo e il vedere quello
sconquasso mi dà l'impressione che non riuscirò mai più a farne
qualcosa di buono. E intanto nella testa mi frullano mille pensieri e
mille progetti, tutti fra loro diversi, e si affollano alla soglia
della coscienza con la stessa opacità con cui il pomeriggio
intravedo gli operai.
Ma
intanto, giorno dopo giorno, i lavori vanno avanti, anche se ci ho
impiegato più di un mese a capire dove, e come, volevo la cucina.
Questa
nuova occupazione però, anche se in certi momenti lo nego a me
stessa, mi porta anche soddisfazione, quella che ogni nuovo e bel
progetto porta con sé.
Gioia,
preoccupazione, rimorso di disfare qualcosa che la mia famiglia ha
costruito, incertezza continua sulla bontà delle mie scelte, mi
hanno accompagnato nelle mie giornate estive, e anche le tanto
sospirate vacanze ne hanno sofferto.
In
realtà tutto andava per il meglio e Edo, che molto poco spesso
faceva dei sopralluoghi, era comunque favorevolmente impressionato,
in quanto vedeva la casa cambiare di volta in volta, e mentre
all'inizio non era neanche in grado di riconoscere le stanze,
nell'ultima visita era riuscito a capirne la disposizione e ne era
rimasto molto contento.
Non
sapevamo quando la casa nuova sarebbe stata pronta, ma sapevamo che
ci saremmo stati bene.
Una
mattina però sono stata interrotta, mentre facevo lezione, dalla
telefonata di un ragazzo della squadra, che, con un tono di voce
molto preoccupato, diceva: "Signora, venga subito a casa,
abbiamo trovato qualcosa!...". Cosa fosse questo qualcosa
neanche lui riuscì a spiegarlo bene, e io, alquanto contrariata, mi
sono affrettata a raggiungerlo. Sembrava che in casa fosse stata
trovata una cosa che non poteva neanche essere nominata. In quel
quarto d'ora di tragitto mi domandavo senza posa che cosa potesse mai
essere.
Era
quasi l'ora del pranzo, e tutti gli operai si sono fermati al mio
arrivo. Il capo, un gigante dall'aria dolcissima, mi ha condotto
nella stanza che avrebbe dovuto diventare il salone, e mi ha mostrato
la causa di tutto quel trambusto.
Un
osso.
Appoggiato
in una fessura del muro, che nei progetti sarebbe dovuta diventare
una nicchia, faceva bella mostra di sé quest'osso bianchissimo,
calcinato, di forma irregolare, in un punto acchiocciolato su sé
stesso, grande come il pugno di un bambino appena nato.
"Resti
umani", dicevano gli occhi spalancati di tutti gli astanti, non
impauriti forse, ma timorosi di profanare qualcosa e di ricevere una
punizione sovrannaturale per quella loro empia azione.
Io
invece ho trattenuto a stento il primo moto di riso. "Ogni scusa
è buona per non lavorare", ho pensato, ma anche io avevo un
certo disagio persino a sfiorarlo.
"Chiamerò
Edo", disse ad alta voce, pensando a lui che in quel momento era
in studio con i suoi pazienti, "State tranquilli. Per oggi
potete andare a casa". Un'altra giornata di lavoro persa,
riflettevo mentre andavo a casa.
"Un
osso dentro un buco nel muro, e cosa sarà mai....", ma non
riuscivo a capirne il perché, il come ma soprattutto il quando.
Escludevo,
col buon senso della maestra, che potesse trattarsi di ossa umane.
Non solo Edo me lo avrebbe agevolmente confermato ma quella casa non
era certo un castello che contenesse celle segrete dove far morire
prigionieri condannati a una morte lenta e atroce. E poi non era
verisimile che tutte le altre 205 ossa si fossero consumate e quella
no. I miei genitori erano andati ad abitare lì nel 1953.
Lizzy
ne parlò a tavola con Edo e anche Giò, il loro ragazzo, studente
naturalista, dichiarò il proprio interesse per quel reperto.
Dopo
pranzo andarono tutti e tre a fare un'ispezione, con la dovuta calma.
Edo prese in mano il reperto con curiosità scientifica, ma non senza
delicatezza, e si mise a guardarlo attentamente sotto la luce della
finestra. Giò girava per la casa, eccitato e curioso. Lizzy si
sedette sull'unica sedia disponibile: stava proprio diventando bella,
la sua casa.
"Non
è un osso umano", sentenziò il signor dottore. "Non
conosco ossa umane con questa forma".
"E
allora cosa è?" gli ho chiesto io, tranquillizzata ma curiosa,
"Boh, non sono veterinario, come faccio a saperlo" le
rispose. "Non tutti i tuoi pazienti ne sarebbero certi"
pensò Lizzy, ridendo fra sè, ma non disse niente. Si godeva
l'ultimo sole di quella giornata di ottobre, anche lei appoggiata al
davanzale della finestra.
Improvvisamente
Giò gridò: "Venite un po' qua, a vedere cosa ho trovato".
Entrambi, distolti dai loro diversi pensieri, si alzarono di scatto e
andarono da lui, che stava frugando dentro la nicchia dove l'osso era
stato trovato.
Con
le dita e le unghie sporche di calce porse loro un rotolo di carta
avvolto da un nastro sbiadito, che una volta era stato celeste.
Lizzy
lo prese in mano e sciolse il fiocco, srotolando con la migliore
delicatezza la carta ingiallita.
Ne
lesse il contenuto ad alta voce.
"Caro
amico, scusami se ti ho fatto spaventare trovando quest'osso. Sono
una donna vecchia, prossima alla morte. La mia vita è stata bella e
allietata da una grande famiglia, ma ora sono rimasta sola. Mi
restava il mio cane, che con affetto e devozione mi ha reso meno
tristi queste giornate, in cui il sole sembra solo tramontare. Anche
se può sembrare paradossale è lui che ha reso più umano il mio
ultimo tratto di strada. La mattina mi svegliava, con gentilezza e
delicatezza, e il dovermi occupare di lui, il mio Gluck, mi impediva
di starmene tutto il giorno a letto, a rotolarmi nella malinconia. E
così, per anni, abbiamo vissuto insieme, cercando di darci
vicendevolmente un po' di joie de vivre. Preparandogli la zuppa
veniva voglia di mangiare anche a me, e così mi ha impedito di
lasciarmi morire di fame. Obbligandomi, ma solo con gli occhi, a
portarlo a sgambettare ha impedito che si rattrappissero
definitivamente le mie stanche giunture. E la sera, seduto vicino a
me sul divano, mi ha dato quel calore che credevo di avere perduto
per sempre.
Ma
ogni cosa bella ha una fine e anche Gluck è finito, prima di me. Le
mie preoccupazioni su cosa sarebbe stato di lui "dopo di me"
si sono rivelate inutili.
Sono
arrivata con lui in braccio dal veterinario che respirava a fatica, e
mi guardava con uno sguardo stupito e riconoscente. Il dottore,
vecchio amico, mi ha detto che non era nelle sue possibilità di fare
qualcosa, quel calcio aveva rotto il fegato. C'era solo la
possibilità di non farlo soffrire. E io, che l'ho amato così tanto,
non ho voluto che soffrisse.
Un
piccolo favore, ho chiesto al veterinario. Dammi qualcosa di lui, un
osso magari. Voglio che resti nella casa dove ha vissuto, e dato, ore
felici.
E
adesso sono qui, con quest'osso in mano, che nascondo perché voglio
che resti in questa casa, e vorrei che tu, caro amico, lo lasciassi
riposare ancora, fino alla fine dei tempi. Grazie".
Edo
si alzò di scatto e andò a prendere il secchio della calce.
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