Il medico legale arrivò tre ore
dopo essere stato avvisato. In quel lasso di tempo l’appuntato Federici, dopo
che il giudice e i suoi superiori andarono via, aveva approfittato del silenzio
e della solitudine, e si era messo a curiosare. Perché era curioso come una
scimmia. Ogni omicidio per lui era fonte, se non di godimento puro, di
interesse spasmodico.
Si trovava in un ristorante
famoso, il cui patròn e chef era acclamato come il nuovo Bocuse, portatore di
ricette e sapori segreti, che deliziavano i palati di una clientela facoltosa.
Certo che lui non si sarebbe mai potuto permettere di andarci. Ma non gli
interessava, aveva i suoi locali di fiducia.
Il delitto era avvenuto
nell’immensa cucina, che per estensione ricordava quella di certe dimore
principesche.
Era lo chef la vittima, una
vittima smembrata senza nessun criterio anatomico né gastronomico, ridotta in
pezzi non più lunghi di mezzo metro. La testa separata dal collo con
un’espressione ancora stupita negli occhi. Federici fu colpito dalla
contemporanea presenza di tagli di carne, bovina questa volta, tagliati però in
maniera da poterne agevolmente riconoscere l’uso culinario che se ne sarebbe
fatto.
Il risultato era una cucina era
disseminata di pezzi di carne e di sangue: e in una pentola sul fuoco
sobbolliva un quarto anteriore assieme a un ginocchio non bovino. Federici
pensò che il killer, se non fosse stato disturbato, si sarebbe fatto un buon
brodo, di carne.
Sogghignò fra sé e sé.
Cominciò a guardarsi intorno alla
ricerca di una qualche traccia. Quasi subito trovò, vicino a una mannaia per
ossa, una vera matrimoniale. La sollevò con la pinzetta che portava sempre in
tasca e lesse “Jean – 24.9.2013”. Poco probabile che fosse del cuoco. Se la
ficcò in tasca col massimo della naturalezza.
Si sedette a pensare. Perché il
bue tagliato bene e l’uomo selvaggiamente depezzato?
Quando finalmente il medico
legale arrivò potè andarsene a casa, a dormire sul divano abbracciato al
cuscino, dando le spalle alla televisione accesa.
L’indomani, giorno di riposo,
Federici andò in Curia, dal suo amico Don Franco, uno dei rarissimi preti che
parlava come mangiava. Avevano fatto solo le scuole medie insieme ma non si
erano mai persi di vista, e qualche volta erano usciti assieme agli altri e il
Don era certo fra quelli più casinisti.
“Ciao, Don, risolvimi un
problema”. “Ciao, Sarebbe?”. “Bisogna risalire da una vera matrimoniale al suo
padrone. Ce la fai? » « Ci
provo ».
Nel 2012 anche il Vaticano è
informatizzato e la stampante sputò rapidamente la sposa assassina, Marie
Durand, al momento del matrimonio domiciliata in via Galletta al n. 59 interno
1.
Federici andò a mangiarsi la bistecca da Gianni, osteria
che cucinava bene solo agli amici. E lui era fra gli amici. Alle tre e mezzo
del pomeriggio, dopo essersi mezzo azzuffato con un avventore sul valore di un
attaccante della squadra cittadina, complice un dito di vino di troppo, si
avviò malfermo sulle gambe verso via Galletta, poco distante.
Era in borghese e il caldo, il vino e l’abbigliamento
diedero alla donna che aprì la porta l’idea di avere davanti un qualche
muratore venuto a chiedere qualcosa. Le scappò una mezza risata. Lo fece
accomodare e andò a preparargli il caffè.
Il soggiorno della signora Marie
era in penombra, e questo ne acuiva il senso di tristezza e di disagio. Divani
e poltrone erano tanto consunti da non poter più dire di che colore fossero
stati, se mai avevano avuto un colore. Un paralume ricoperto di polvere. Tutto
grigio. La stessa signora Marie aveva un incarnato grigio che la diceva lunga
sulla sua salute, anche a un appuntato.
Mentre Federici avvicinava la
tazzina alla bocca lei esordì: “Vedo che ha fatto presto a trovarmi. Vuole
sapere perché ho ucciso quel bastardo?”. Il caffè bollente gli andò di traverso
e incominciò a tossire con grande strepito. Non si immaginava di certo di
essere aggredito in maniera così diretta. Quando si riprese bofonchiò: “Intanto
lei me lo dica”.
La donna si mise comoda. “Michel
era un grande cuoco, anche se di un’ambizione sfrenata. Voleva essere il
migliore del mondo. E il più famoso. Non meno di Escoffier, perlomeno. Io e mio
marito eravamo tutta la sua brigata di cucina. A noi proponeva i suoi piatti
più nuovi da assaggiare, tutti i giorni e il nostro giudizio era per lui
sostanziale. Noi il braccio e lui la mente.
Quando mio marito fu ricoverato
in Ematologia, tre settimane fa, gli fu diagnosticata una leucemia
mieloblastica. Il medico che mi comunicò la diagnosi mi disse anche che spesso
queste malattie sono dovute a tossici, specie composti chimici aromatici.
Mio marito l’ho perso in una
settimana.
La settimana successiva l’ho
spesa cercando in cucina, certa che Michel avesse usato qualche cosa che non
andava bene. Non ho dovuto faticare per cercarla, una boccetta con un liquido
denso verde, riposta assieme alle spezie, con una scritta: benzene.
Una piccola ricerca sulla rete mi
ha confermato i sospetti.
E quel bastardo lo usava per
cucinare: ecco perché tutti i suoi clienti lo portavano in palma di mano e
dicevano che i suoi piatti fossero così particolarmente “aromatici”. Non poteva
essere diversamente, ma portavano in sé la morte. Noi che tutti i giorni li
mangiavamo siamo i primi a volare via. A me non restano molte settimane.
Sono assolutamente convinta che
quell’uomo di merda abbia avuto quello che si meritava, e nel momento giusto,
quando stava preparando il suo celebrato “bollito con salsine aromatiche”.
Federici aveva ascoltato tutto,
partecipando alla rabbia della donna. Si domandò cosa può spingere un uomo ad
avvelenare i propri simili ricercando a tutti i costi di soddisfare il loro
palato, e non si diede risposta.
Si alzò e borbottò qualcosa alla
signora Marie, sapendo che non l’avrebbe più rivista. Lei restò seduta,
contenta, se così vogliamo dire, di rivedere presto il marito.
Federici, sulla mensola
dell’anticamera, posò la vera.
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