Marco aveva svuotato rapidamente
la scrivania, coperta solo dalle cose essenziali: le penne, il portacarte,
qualche foto sotto il vetro, poche cose perché non aveva mai sentito veramente
suo quel lavoro. Passò a ritirare l’ultima busta paga, bagnata di sudore e
pregna di rabbia.
A casa riempì la sacca da viaggio, svuotò il frigorifero e
prese il libro sul comodino, ultimo rifugio dalle tristezze della vita. In
strada la vecchia Duecavalli non aspettava altro, dài, partiamo, mormorò. Certo
che partiamo, mia cara, e vedrai che ci divertiremo.
Alle otto di quella sera di
agosto, dopo solo due ore di guida, Marco imboccò il bivio di Camporosso,
deciso a trovare un po’ di refrigerio nell’entroterra. Arrivò ad Apricale poco
dopo, inconsapevolmente attratto.
Quando, dopo quella curva
stretta, la vide improvvisamente, triangolo di case spalmato sulla collina, ne
restò colpito, come se Apricale non fosse un paese come tutti gli altri.
C’erano pochissime automobili a quell’ora e poté fermarsi un attimo per
scendere a vedere meglio. Tutti i rumori della natura si erano spenti, e la
luce si faceva sempre più fioca. Per un istante fu dimentico di ogni cosa,
soprattutto del fatto che era di nuovo senza lavoro.
Dentro il silenzio, sentì il suo
ritmo battere all’unisono con quello del mondo, un ritmo che prescindeva dal
tempo.
Rientrò in macchina, col
desiderio di esplorare meglio quel piccolo paese e quella grande emozione.
Parcheggiò in cima al paese, in uno spiazzo stranamente vuoto. Gli stava
crescendo dentro una curiosità incontenibile.
La prima persona che vide fu un
vecchio candido, alto e ossuto, che portava una gerla che sembrava sospesa,
tanta era la leggerezza con cui la sosteneva. L’uomo gli fece soltanto un gesto
con la mano, come a dirgli: “Vieni, è ora che cominci il tuo giro qui da noi”.
Marco prese quindi la prima
stradina alla sua sinistra, sormontata da un archetto. Camminava lentamente,
guardandosi intorno, cercando qualcuno. In cielo il nero, senza stelle, aveva
quasi preso il posto dell’azzurro. Si diresse verso una ripida discesa, al
fondo della quale distingueva un lampione
con una luce fioca.
Lo vide solo pochi metri prima
della luce. Ma ancor prima di vederlo fu colpito da un odore intenso, come
quello che si sprigiona dai cespugli di pitosfori, dolce e pungente. Ma non
c’erano pitosfori là, solo qualche vaso di gerani. E questo grosso gatto, a cui
lui si avvicinò circospetto. Quello non fece una piega. “Ciao, Marco”, gli
disse voltandosi.
Quando ti trovi in una situazione
che non hai mai vissuto la tua memoria perde qualsiasi riferimento e non riesci
più a capire se i tuoi sensi trasmettano al cervello informazioni di realtà.
“Ciao, Marco”, ripeté il gatto,
sempre placidamente accovacciato sul gradino della casa. Marco però non voleva
rispondergli, altrimenti avrebbe dato ragione a quella parte di sé stesso che
sommessamente gli suggeriva che non c’è nulla di strano ad essere salutati da
un gatto.
Pensò a uno scherzo, ma non aveva
incontrato e non vedeva nessuno.
Prese tempo, mugolò un “Ciao” più
di pancia che di bocca e studiò l’avversario.
Era un gattone che sembrava un
cuscino, e per dimensioni e per morbidezza. Il manto, come la maggior parte dei
gatti – che però non parlano – era bianco con striscie grigie variamente
orientate. L’oscurità gli dilatava enormemente le pupille.
Pensò che comunque era libero di
parlare con un gatto, del resto non avrebbe dovuto dirlo a nessuno. E nessuno
era lì presente, per testimoniare che lui parlava ai gatti. “Come è andato il
tuo viaggio? So che quando parti non sei mai di buonumore”. Marco trasecolò, se
non fosse stato buio lo si sarebbe potuto vedere scolorire. Ma doveva
considerare normale ciò che normale non era. “Hai ragione”, rispose col suo solito
tono di voce, che in quella situazione
diventò un rauco falsetto. “E’ che mi prende un’angoscia che mi stritola la
pancia. Certe volte penso che non dovrei mai partire e restare sempre a casa.
Casa e lavoro, lavoro e casa”. “Adesso casa-casa, mi sembra”, lo interruppe il
gatto, con un’espressione che a lui parve un mezzo sorriso. “Non solo mi
mancava il gatto parlante, ci voleva anche quello sarcastico”, pensò Marco.
Il gatto disse soltanto “Seguimi,
per favore”.
Lo precedette fino a uno slargo
sul limitare del paese, da dove si poteva finalmente vedere il cielo liberato
dalle nuvole, con una magnifica stellata. Stettero un quarto d’ora in silenzio,
Marco disteso sull’erba, il gatto accovacciato vicino a lui, distante un
centimetro in più di un braccio teso.
“Ciao Marco, adesso devo andare.
Aspetta qui”. Sparì nel buio.
Marco pensò che neanche nel
migliore dei suoi spinelli sarebbe riuscito a immaginare di avere a che fare
con un gatto parlante, capace anche di leggerti la vita.
Gli sembrò di addormentarsi per
qualche minuto.
Improvvisamente sentì un rumore, a lui non era familiare, un rumore
sordo, un fremito lontano, ritmato. Girò la testa e vide una gatta siamese. Due
occhi azzurri brillanti nell’oscurità.
Marco non aveva
mai amato particolarmente i gatti, lui e i gatti seguivano vite semplicemente
parallele. Ma quella gatta aveva un musetto sul quale si sarebbe sentito di
stampare un bacio. Ovviamente non se lo permise, anche se fu lui a fare il
primo passo, ridendo di sé stesso in silenzio. “Come ti chiami?” le chiese.
“Isabella”, “Ah, bel nome”. Attimo di silenzio, in cui ebbe la certezza di
essere capitato all’altro capo del mondo. E allora decise che sì, i gatti
parlavano, almeno ad Apricale, e allora tanto valeva farci dei bei discorsi.
Chissà cosa ne sarebbe potuto uscire, forse un
racconto.
Provò quindi a
fare il galante. “Lo sai che sei molto carina?” “Certo, ma non siamo qui per
parlare di questo”. “Ah”, fece Marco, offeso dal tono un po’ tagliente. La
gatta stava seduta, arrotolata su sé stessa.
A Marco venne in mente quella donna, che aveva riempito gli ultimi tre
anni della sua vita. Una donna che sempre più di frequente gli dava una
senzazione di profondo disagio. Non sapeva se era innamorato di quella donna,
non sapeva se era mai stato innamorato di qualcuno, non sapeva neanche cosa
significasse veramente la parola “innamorarsi”. Isabella lo guardava con occhi
penetranti, come se gli leggesse quei pensieri, chiedendogli a un tempo di
leggere meglio quello che lui stava incominciando a intravvedere.
Improvvisamente la gatta, come colta da scossa elettrica, si alzò e
incominciò a camminare, rientrando in paese. Marco la seguì ipnotizzato.
Realizzò che se quella gatta fosse stata una donna sarebbe stata bellissima, e
si sentì avvolto da un folle desiderio.
Isabella, indifferente a quei pensieri, scendeva verso la piazza, di
buon passo. Arrivata si diresse a un angolo, dove, confuso con le pietre del
selciato, stava un grosso gatto certosino. Marco si accorse che parlottavano, sorpreso
di non sentirli. Isabella con due balzi fu fuori portata.
“Vieni pure avanti, Marco”, se ne uscì fuori il certosino con un bel
vocione baritonale, di un tono assolutamente divertito. Marco, che quella sera
non si sarebbe più stupito neanche se gli avessero parlato i sassi, avanzò con
baldanza.
Il certosino incominciò a camminare in tondo nella piazza e Marco si
accorse che procedeva in maniera molto buffa, dimenando la parte posteriore del
tronco, sculettando quasi, ma non in maniera armonica e regolare bensì con
gesti di imprevedibile ampiezza e frequenza. Ne risultava un ballo estremamente
divertente e il gatto stesso era il primo a divertircisi. “E ridi, dài, fai un
sorriso anche tu, idiota” gli disse, parandosi davanti a lui seduto con le
zampe anteriori estese, come i gatti dei faraoni. Da fermo sembrava un gatto
serio, ma non lo era.
Ripensandoci quel sedere che sballottava a destra e a sinistra era
troppo comico, e a Marco salì finalmente una risata sincera, lunga, come da
troppo tempo non ne venivano più.
Lo prese una nuova voglia di vivere e un entusiasmo che l’avrebbe
presto reso capace di dare il giusto colpo di timone alla sua vita.
“Questi gatti sono fenomenali”, pensò.
Seduto al margine della piazza, nel buio della notte rideva felice, con
un certosino storpio accoccolato sulle gambe, che si prendeva pigramente
piccole carezze sulla testa, ridendo sotto i baffi.
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