Tante volte la mamma mi
ha fatto vedere quel documentario, quello del treno che ha
trasportato il soldato sconosciuto morto, da Aquileia a Roma, e tutta
l'Italia al passaggio lo salutava. Con lui se ne sono andate le
speranze di una generazione di italiani, perché i regnanti europei
si volevano fare i dispetti. Bastardi.
Io sono cresciuto così,
col sentimento del ricordo e col desiderio di non far piangere mai la
mamma. Non è stato facile, specie quelle sere accanto al fuoco,
mentre facevo i compiti, e la mamma, mentre faceva la calza o
rammendava, a momenti si fermava, e dagli occhi che guardavano
lontano incominciavano a sgorgare copiose le lacrime. La abbracciavo
forte allora, ma capivo di non poter consolare il suo dolore con i
miei baci. Il babbo, il Dottore, come lo ha sempre chiamato in mia
presenza, non l'ho conosciuto.
Lei l'ha conosciuto
quando è venuto a fare il medico condotto nel paese vicino, con la
famiglia, e gli ha donato la sua giovinezza. Non posso sapere nulla
di questo amore, che per parte della mamma è stato assoluto e
incondizionato. So che quando lei è rimasta incinta lui è
semplicemente scomparso. Solo una piccola rimessa mensile è stata
il simbolo del ricordo. Oggi non sarebbe più così, ma a quel tempo
la mamma non disse una parola e accettò, solo per me, di essere
esclusa dalla vita di lui. Morì tanti anni dopo, senza mai aver
proferito una parola cattiva verso quell'uomo che le aveva dato le
cose più belle e le cose più brutte della sua vita.
Se oggi ho questo lavoro
da operaio metalmeccanico dell'Italsider lo devo a lei, che ha avuto
l'ostinazione di farmi finire quella scuola professionale, che ho
sempre odiato. E anche questo lavoro lo odio. Mi permette soltanto di
proseguire quella vita modestissima che ho sempre fatto con mamma. I
turni in fabbrica sono pesanti, e quando sono all'altoforno la sera a
casa non riesco neanche a respirare bene. Quelle sere mi monta su una
carogna che uscirei e, avendone la forza, ammazzerei la prima persona
che incontro, solo per sfogarmi, e gridare al mondo il mio diritto
alla felicità. Felicità che non ho nemmeno ancora assaggiato.
Domenica pomeriggio mi è
capitato un fatto strano.
Passeggiando sul corso
per fare venire l'ora di cena, ho incrociato un uomo anziano, che
camminava appoggiato a un bastone, che mi assomigliava tantissimo.
Sul momento non ci ho fatto molto caso ma a casa, mentre il
telegiornale snocciolava le solite sciocchezze, mi è ritornato
insistentemente in mente, e mi sono persino alzato a guardarmi bene
nello specchio del bagno.
Mi è balenata nel
cervello un'idea pazza. E se fosse lui? Io sono nato nel 19.. quindi
lui, come mi diceva la mamma, dovrebbe avere circa trenta anni più
di me. Quel vecchio aveva almeno 75 anni, quindi l'età ci starebbe.
Non so neanche io cosa pensare. Me ne vado a letto ma non riesco a
dormire, quel volto mi si presenta davanti e ogni volta che mi giro
assume un'espressione diversa.
Stamattina in fabbrica
sono assonnato, ovviamente. Lavoro con il minimo impegno e aspetto
soltanto l'ora di uscire: chissà se lo incontrerò di nuovo. Il fato
mi aiuta, e non poco: non solo lo incontro ma lo vedo inciampare e
vacillare: con un balzo gli afferro il braccio destro e gli impedisco
di rovinare a terra. Mi guarda con riconoscenza, con occhi velati. Lo
accompagno al bar, perché si vede che si è spaventato, e gli offro
un caffè, l'unica cosa che posso permettermi: infatti io non lo
prendo. Mi dice che non dovrebbe uscire ma che non ne può fare a
meno, perché vive da solo e stare tutto il pomeriggio in casa lo fa
impazzire. Parla con difficoltà e non riesco a capire bene tutto
quello che dice, anche perché continuo a guardarlo negli occhi. E'
lui, ne sono sicuro, ma come fare ad averne la certezza?
Gli dico allora che
qualche volta posso accompagnarlo io, quando non lavoro, così da
poter uscire a fare quattro passi più tranquillamente, e così gli
si illuminano quegli occhi umidi da vecchio, e non la smette più di
ringraziarmi. Mi spiega dove abita e restiamo d'accordo che andrò
giovedì, alle cinque della sera.
Così sono cominciate le
mie passeggiate con questo vecchio, ed è probabile che anche lui si
sia reso conto che ci assomigliamo come due gocce d'acqua. Mi parla
sempre con quella sua parlata difficile, è di natura chiacchierone
così come io sono di natura taciturno. Io ascolto e cerco di farmi
un'idea della sua vita. Tante cose mi ha raccontato nel giro di
questi mesi. Della moglie e dei figli, lei morta e loro fuori Novara,
per forza di cose poco presenti.
Quando ha incominciato a
raccontarmi del suo lavoro ho capito che avrei potuto farcela, a
capire se avevo ragione. Mi ha detto che si è laureato a Torino nel
19.., con lode e pubblicazione della tesi, sull'endemia di gozzo
nella val Curone, e il relatore era stato il Pierantoni, illustre
Clinico Medico. Naturalmente ha dovuto anche spiegarmi cosa fosse
“endemia” e cosa fosse “gozzo”. Ma io lo ascolto rapito.
Questo vecchio, e non dovrei proprio dirlo, mi sta incominciando a
diventare simpatico.
L'asino è cascato quando
mi ha raccontato che per un certo periodo ha dovuto fare il medico
condotto a C.... Da quel giorno non ho più avuto dubbi, e le nostre
passeggiate erano avvelenate dal desiderio di abbracciarlo mescolato
assieme all'impulso di spaccargli la testa a calci, per come si era
comportato con la mamma.
Diventavamo sempre più
“amici”, e non avevo cuore di allontanarmene.
A Natale si presentò con
una busta in mano e quando io gli dissi “ma Dottore, non è
assolutamente il caso” ci restò parecchio male, tanto che io mi
misi la busta in tasca e cambiai discorso. Solo a casa mi ricordai di
aprirla e rimasi a bocca aperta quando ci trovai dentro l'equivalente
di tre mesi di stipendio. Non sapevo più cosa pensare. Che mi avesse
riconosciuto anche lui? Che mi volesse dare una mano? Del resto il
mio lavoro lo conosceva e avrebbe potuto ben immaginare il mio
cronico bisogno di soldi. Misi la busta nel cassetto del comodino,
per tempi più difficili. Quella notte il mio sonno fu più sereno, e
sognai un Babbo Natale con le sue fattezze.
E così andarono avanti
le nostre passeggiate, per qualche mese, e ogni tanto lui si
presentava con la busta in mano, che io accettavo e intascavo. Ma
mai, lo posso giurare, gli chiesi un solo centesimo, così come mai
mi permisi di parlare della mamma. E dire che ne avrei voluto tanto
desiderio.
Oggi il portiere mi ha
detto che il Dottore si è dovuto ricoverare in ospedale. Grazie a un
amico infermiere sono riuscito a entrare in ospedale fuori
dall'orario di visita, non voglio incontrare nessuno. Non l'ho visto
bene per niente. Respirava a fatica ma è stato contento di vedermi.
Poche parole abbiamo detto, e lui le sussurrava. Prima di andarmene
gli ho detto: “Stia tranquillo, dottore. Ci vediamo domani”. E'
morto nel pomeriggio.
Sul giornale c'è scritto
che il funerale sarà mercoldì mattina, alle nove, e io, a costo di
farmi licenziare, mi sono dato malato. Non c'è tantissima gente. Ci
sono i figli, i nipoti, i vecchi amici. Tutta gente che io non
conosco. Qualcuno mi guarda con occhio curioso, forse per il mio
abbigliamento da operaio. Mi addosso al muro in fondo alla chiesa e
per la prima volta riesco a pensare a lui come mio Padre, e vorrei
andare ad abbracciare la bara. Ma non posso, sono un bastardo. E
anche alla fine della funzione cerco di nascondermi dietro le altre
persone. Nessuno deve sapere, nessuno deve capire.
Andrò a salutarlo per
bene al cimitero, sempre che riesca a capire dove sarà.
P.S. Nel cassetto del
comodino del Dott. G.G. i figli trovarono una lettera indirizzata
all'operaio, chiusa e col francobollo, che, per rispetto al Padre,
spedirono.
Noi siamo riusciti ad
avere la possibilità di leggerla.
“Caro Nicola, riceverai
questa mia quando non potremo fare più le nostre passeggiate. So
bene che mi hai riconosciuto la prima volta che mi hai visto ma tu
non sai, forse, che anche io l'ho fatto, e stavo per cadere proprio
per quel motivo. Quante volte avrei voluto abbracciarti e quante
volte mi sono trattenuto! Ho sempre pensato di non essere degno della
tua considerazione, e ne sono tuttora convinto, mentre il mio respiro
è sempre più debole. Non c'è bisogno di essere medico per capire
che si sta morendo. Scusami per tutto il male che ho fatto a tua
madre e a te. Ho imparato bene cosa vuol dire “dolore dei peccati”,
e questo dolore, anche in questo momento, è ancora lacerante come il
primo giorno. Spero che con i miei piccoli aiuti la tua vita sia un
po' migliorata, anche se non potranno mai ripagare la sofferenza che
vi ho imposto.
Ti abbraccio con tutta la
forza che mi rimane.
Tuo Padre, che si è
privato del piacere di sentirsi chiamare da te “Papà”.
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