La
psichiatria, dopo un periodo in cui era "di moda" andare
dallo "strizza", è approdata in televisione, e lì
affascinanti attori/psichiatri ricevono altrettanto affascinanti
attori/pazienti, in sedute altamente inverosimili.
Glamour
è la parola d'ordine: tutto deve essere glamour, compresa l'umana
sofferenza che di suo non lo è granché.
Che
si provino, i grandi cineasti, a filmare una visita in un
ambulatorio del servizio di igiene mentale dove vado tre mattine alla
settimana. Di glamour non c'è traccia; forse, a guardare con occhio
smaliziato e corrosivo, l'unico spettacolo che viene in mente è il
circo, non solo per la varietà che si presenta all'osservatore ma
soprattutto per la malinconia che traspare, come un alone di fondo,
in ogni "numero" presentato.
E
lo psichiatra a cui passa davanti agli occhi questo film di miseria
e di tristezza deve innanzitutto fare i conti con il senso di
assoluta frustrazione che quegli incontri gli procurano.
E
non c'è stipendio, o onorario professionale, che possano ripagare il
sentirsi sgradevolmente impotente. L'errore che fa il mondo è
pensare che lo psichiatra lavori per il denaro. Probabilmente lavora
soltanto per punirsi.
L'altra
sera ero di turno per l'ospedale. Una serata estiva, con l'aria
ancora densa del caldo della giornata; serata in cui fai
l'andirivieni fra il soggiorno e il bagno per rinfrescarti, perché
sei in un bagno di sudore ineliminabile, e non respiri neanche bene,
a volerla dire tutta. Davanti alla televisione le immagini si
sfuocano e si mescolano con quelle che hai dentro. Ti mancano i tuoi
bambini. Avresti voglia di sentire le loro grida, anche se le
zittisci sempre. Volti di uomini, del passato e del presente. Ti
accendi la tua sigaretta per tenerti sveglia: non sia mai che
chiamino dall'ospedale e tu stai dormendo: non lo sopporteresti il
casino che ne verrebbe fuori.
Due
boccate e inizi a russare, perché hai il naso chiuso da morire. La
sigaretta ti cade in grembo e ti bruci una coscia. Altro giro in
bagno, bestemmiando per l'ustione. Questa volta sotto il rubinetto ci
metti tutta la testa, col tuo cespuglio di capelli che ti ostini a
considerare radi, anche se sai che a lui piacciono. L'acqua fredda ti
dà un barlume di lucidità e riconosci quel volto allo specchio,
quelle belle labbra, e in un flash ricordi gli uomini che le hanno
baciate, volti che ricordi con grande precisione, nei lineamenti e
nel carattere, e ti sovviene anche l'ultimo, che non vuoi ancora
baciare.
Il
naso continua ad essere completamente tappato: è la maccaia.
Quasi
quasi ti piacerebbe che il telefono squillasse: anche se sei una
donna ti stai davvero rompendo i coglioni, in questa serata
irrespirabile di luglio.
L'angelo
custode dei giovani psichiatri, maligno come sanno esserlo soltanto
certi tumori, esaudisce nel giro di tre minuti la richiesta del tuo
inconscio.
"Ciao
Paolina, sono Salvatore. Abbiamo bisogno di te. C'è il solito
barbone strafatto che fa casino. Vieni e dammi una mano perché ho
solo due alternative: o la dose di serenase buona per una giraffa o
lo butto dalla finestra direttamente, anche se siamo solo al
pianterreno". Salvatore scherza sempre, è un ottimo diagnosta
ma con i pazienti è negato. L'anatomopatologo dovrebbe fare.
Cadaveri e vetrini. Vetrini e cadaveri. "Dammi il tempo di
vestirmi. Cinque minuti".
Mentre
mi infilo i pantaloni mi ricordo che ultimamente lo scooter fa i
capricci: ci mancherebbe anche questa. Eventualmente chiamerò un
taxi.
Salvatore
mi abbraccia quando arrivo. E' proprio un bravo ragazzo e ha avuto
sempre, come ancora adesso leggo nei suoi occhi, un desiderio di me
molto evidente, evidente non solo per uno psichiatra con un po' di
esperienza ma anche per tutti quelli che gravitano intorno al pronto
soccorso. Le nostre strade però non si sono mai incrociate. "Vai
nel box 3, il toro scatenato è tutto per te". "Dammi un
camice". "Eccolo". Mi avvio senza paura, aspettandomi
un energumeno. Non voglio pensare a Sara, che qualche anno fa in una
situazione come questa si è buscata un coltellata.
Apro
la porta scorrevole e cerco di capire rapidamente cosa succede e chi
ho di fronte. La magrezza mi colpisce subito, più di tutto il resto.
L'espressione è torva, mi sembra incazzato come una vipera.
"Buonasera, sono la Dottoressa Zoppi". Come se non avesse
parlato nessuno. Va avanti e indietro come una fiera in gabbia. E
borbotta fra sé e sé. Mi arriva uno sbuffo alcoolico nauseante:
deve avere fatto un bel pieno. Continua a fare come se non ci fossi.
Sergio, si chiama. Ha 45 anni ma li porta da schifo. Sulla camicia,
piena di macchie, ha un giubbotto jeans logoro. I pantaloni li sta
perdendo: è già arrivato all'ultimo buco della cintura.
Devo
assolutamente catturare la sua attenzione, altrimenti non se ne esce.
"Sieda
un attimo, ci fumiamo una sigaretta" gli dico offrendogli il
pacchetto delle Marlboro. Buona mossa, si siede al mio fianco, con un
po' di difficoltà perché l'equilibrio è quello che è. Più che
fumare succhia avidamente, e la sigaretta se ne va in una boccata.
Gli metto il pacchetto davanti. Il contatto c'è stato.
"Sente
delle voci?". "Sì, la sua".
Mi
hanno insegnato che la domanda è stupida ma fino a un certo punto:
la risposta ti permette di avere un'idea della lucidità del tuo
interlocutore.
Mi
chiede, con un gesto cortese, di potersi servire liberamente delle
Marlboro. "Fai pure" è il senso del mio gesto di risposta.
Per
un attimo i nostri occhi si incrociano: nei suoi leggo miseria,
solitudine, tristezza infinita. Chissà lui cosa legge nei miei.
La
mia diagnosi è che Sergio avrebbe soltanto bisogno di essere
abbracciato da qualcuno. Qualcuno che non c'è. L'unico abbraccio che
può permettersi, a buon mercato, è quello col bottiglione di vino.
E più bevi e più dimentichi il bisogno di essere abbracciato.
"Le
metto su una flebo di vitamina: vedrà che si sentirà meglio in
pochi minuti". Spenge la sigaretta, mogio, e si allunga sul
lettino senza rimostranze: si vede che si sente veramente male. A
essere sincera nella flebo ci metto anche qualcos'altro, solo per
farlo sentire un po' meglio.
"Stia
tranquillo, fra cinque minuti di orologio son qui da lei". Non
mi risponde ma ha capito. Gli appoggio la mia mano sulla sua e gliela
stringo leggermente.
Utilizzo
quei cinque minuti per telefonare alla signora che ha chiamato il
118, impaurita dalle escandescenze, più violente del solito, del
vicino di casa.
Mille
volte ho sentito questa storia, declinata nelle sue più varie
accezioni ma sempre tragica, e mai mi ci sono abituata. Mamma e
figlio da soli, chiusi in un cerchio magico cui contribuisce anche la
misera pensione di lei, con i bisogni ridotti all'essenziale, in una
relazione che esclude ogni altra persona. E quando la mamma muore il
cerchio si spezza, il vuoto non è colmabile e il vino e le sigarette
riempiono, come possono, giornate tutte uguali, e diventano i tuoi
principali interlocutori. Ti bastano solo la poltrona e la
televisione.
Cosa
cazzo può fare un semplice psichiatra? Niente, solo fargli passare
una notte più tranquilla del solito. Oltre ovviamente a restare con
l'ennesimo amaro in bocca, per non essere stato in grado di fare
qualcosa per Sergio. E' per questo che adesso mi sento uno schifo,
non per i vestiti appiccicati addosso.
Ogni
giorno che passa sono certa di avere sbagliato mestiere, anche se non
saprei immaginarmi di farne un altro.
Vado
da Sergio. La flebo lo ha tranquillizzato. Il respiro è
superficiale. Deve essere stato anche un bel giovanotto. Trattengo a
fatica il desiderio, forte, di dargli un bacio, anche se è sporco e
puzza.
Vado
a scrivere il referto della visita psichiatrica di pronto soccorso,
mi levo il camice e me ne vado, più triste e più dubbiosa di ieri.
C'è tanta sensibiità. Bellssimo!
RispondiEliminaHo vissuto i momenti che hai descritto insieme alla protagonista! Realistico e coinvolgente. Descritti molto bene i pensieri della dottoressa e anche quelli di Sergio, il disperato.
RispondiEliminaBel racconto. Complimenti! Annalisa