Avevano
appena finito di celebrare al dio ventre e lui, forse più degli
altri, si trovava in quello stato di intorpidita inebetitudine che
precede l'oblio del sonno. Anche quel giorno, a dispetto del tempo e
della stagione, aveva trovato tutto quello che gli sarebbe servito
per cucinare, e il rito era stato al solito preparato con grande
cura. Ogni ingrediente era stato cercato meticolosamente, a
incominciare da quel rosmarino imbastardito dal profumo della buccia
del limone che tanto gli piaceva. I suoi commensali, verbalmente
avari, gli avevano dimostrato quanto grati gli fossero e quanta stima
avessero di lui pulendo fiamminghe e pentole quasi da non aver più
bisogno di lavarle. E questo gli fece sprizzare la gioia dagli occhi,
anche se l'odore di limone nel rosmarino non erano stati capaci di
riconoscerlo. Lo abbracciarono forte, accomiatandosi.
La
celebrazione del rito in pompa magna era stata come sempre solo
l'occasione, un abilissimo ma faticoso diversivo, per distoglierlo
dal pensiero fisso di lei. Infatti, in quelle sei ore, come un
maestro di yoga, lui riusciva a fare un vuoto nella sua mente, un
piccolo vuoto che gli dava sollievo e una goccia di serenità.
Si
sedette finalmente al suo tavolino, dando le spalle alla finestra, e
senza voltarsi sentì su di sé la stanca luce del pomeriggio, sempre
più indebolita dal subentrare della sera. D'inverno già alle tre il
sole scendeva dietro alla casa di fronte, inondandola per pochi
minuti di un alone rossastro.
Meno
male che tutti erano usciti. Solo la tigre era sdraiata per terra, in
una posa innaturale perché esageratamente rilassata: sonnecchiava a
occhi aperti, certo pronta a un improbabile scatto.
Accese
la radio, bassa, e cercò un po' di musica classica, perché ne
sentiva la necessità.
Cucinando
invece si ascolta il rock, che impedisce di star fermo anche solo un
attimo. Cucinando non senti la fatica, godi solo del divertimento. Ti
mancherebbe soltanto un po' di quella polverina bianca che si tira su
col naso..... ti consoli con il vino bianco. La fatica, e una
sensazione poco chiara di disagio, la senti dopo, quando tutto è
finito. Il disagio viene forse dal fatto che ti rendi conto che hai
dato il meglio, ogni santa volta, e chissà se la prossima sarai
all'altezza....
Tirò fuori dal cassetto il
quaderno per scrivere. La tigre russava dolcemente, così piano che a
tratti non si sentiva. In radio trionfava Bach. Tutto era pronto per
incominciare, e al posto giusto. La penombra aveva conquistato la
stanza, spezzata soltanto dal paralume che ingialliva dolcemente il
foglio del quaderno aperto. Ma non riusciva ancora a "partire":
lui sapeva bene che non era il "blocco" dello scrittore -
lui non si reputava in tutta onestà uno scrittore, tutt'al più un
artigiano della parola -, era solo l'affollamento nel cuore di tutte
le cose che avrebbero voluto trasferirsi sulla pagina, ottenendo con
quei segni blu una specie di vita propria, segni che comunque a una
buona parte dell'umanità sarebbero risultati incomprensibili, anche
se, per un caso più che fortuito, un qualche malinconico scrittore
russo fosse venuto a sapere della loro esistenza.
Incominciò,talvolta lo faceva,
disegnando con quattro righe un reticolo di nove caselle, ciascuna
riempibile con un pallino o con una crocetta. Un elementare gioco, da
scuola elementare, infatti. Era ben consapevole della stupidità di
fare da solo un gioco che deve essere fatto in due, un gioco che,
nella sua assoluta semplicità, ben potrebbe essere considerato il
prototipo dei giochi "a due". Il passo successivo avrebbe
potuto essere una partita a scacchi da solo. Ma non è possibile. Non
è possibile, cioè, alternativamente assumere due diverse
personalità, entrambe con l'equipotente desiderio di prevalere
sull'altra.
Certo,
non è possibile, ma sarebbe bello non avere bisogno di nessuno per
la propria vita, essere in tutto autonomo. A principiare dal gioco.
Del resto cosa è l'amore, se non un gioco?
Comunque lui si era formalmente
impegnato, e gli schemi, tutti finiti in pareggio, fiorivano sulla
bella carta Fabriano, che un pittore avrebbe usato per disegnare,
magari uno studio di un nudo di donna, una damina con seni vagamente
conici, non più grossi di una coppa da cocktail Martini.
Dobbiamo pensare che nella sua
mente si fosse fatta strada la convinzione che, a furia di dài e
dài, un (involontario?) attimo di distrazione avrebbe fatto breccia
in uno dei due contendenti e l'altro, gongolante, avrebbe finalmente
prevalso, segnando l'agognato tris, orizzontale, verticale o
diagonale, i più difficili da percepire con il colpo d'occhio. E per
riuscirci si trattava soltanto di fare tutto di corsa.
Al secondo foglio si fermò: lei
si era di nuovo impadronita della sua testa. L'avrebbe dovuta
rivedere lunedì, a cena. Si domandò quanto voglia avesse davvero di
rivederla, e si sorprese a non sapersi rispondere con chiarezza.
Cincischiando con la penna gli
venne in mente l'ultima volta che erano andati al mare insieme,
l'unica, quando lei indossava quel due pezzi verde ancor più che
striminzito, provocante, e sorrise pensando agli sguardi di desiderio
che quella ragazza suscitava, e al suo orgoglio nell'abbracciarla
platealmente davanti a tutti, in quel baretto sulla spiaggia. In quel
momento la sua felicità era stata semplice e completa: chissà se
così era stato per lei? Nulla di quella donna era facilmente
comprensibile.
Adesso nello studio entrava solo
il buio, e lui, aiutato dalla fioca luce del paralume, mescolava
abilmente ricordi e fantasie, ancora
senza scrivere niente. Se lì vi fosse stato un altro
uomo, a lui non visibile, lo avrebbe per certo scambiato con un
ospite di quei manicomi per persone agiate, che pietose ancorché
ricche suore si industriano a chiamare "Casa di cura San
Qualcosa": ma manicomi restano, con il cruccio, per i congiunti,
di avere esperito in prima persona e tramite una sonora facciata, che
non si può ottenere né comperare tutto, ad onta di sostanze
monetarie più o meno cospicue sottratte (loro dicono guadagnate) al
bene comune.
Chiuse gli occhi con dolcezza e
se la rivide ancora davanti agli occhi, nell'abito da sera che la
fasciava quando erano andati a vedere Don Giovanni alla Scala.
Ti rivedo sfavillante e
raggiante, in quell'abito lungo di seta nera con le paiettes, davvero
scollato perché tu te lo potevi ben permettere. Eri felice, e
sorridevi a quel tripudio di luci e di voci, e avresti voluto
sorridere a ogni singola persona, e infatti tutti ti sorridevano, gli
uomini con una punta di desiderio, le donne con una punta d'invidia.
I capelli li avevi raccolti dietro e tenuti fermi con quel grosso ago
dorato che avevamo comperato insieme, da quell'orefice veneziano che
tanto aveva insistito per mettertelo lui sui capelli la prima volta,
e tu ti schermivi arrossendo.
Io invece, irrigidito un poco
nello smoking a noleggio, perché stretto, ero oggetto di curiose
occhiate e di qualche risolino, tesi a domandarsi come fosse mai
possibile che un uomo così vilmente ordinario potesse cingere, non
senza difficoltà, un tale cigno. Come sono stati belli quegli
attimi.....a me bastava questo per essere felice. Tu lo eri?
Il vecchio si era appisolato, e
al risveglio non avrebbe saputo dire per quanto. Del resto non aveva
mai voluto mettere un orologio nel suo studiolo, il tempo che passa
non doveva essere un freno ai suoi sogni, e ai suoi rimpianti.
La tigre, annoiata, era andata
altrove a cercarsi un po' di vita.
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