Ersilia,
da tutti chiamata Pitìngola, non credeva di avere anche un altro
nome. Quando a scuola le dissero che quei segni sul quaderno erano il
suo nome e il il suo cognome "veri", non voleva crederci.
Il Maestro più di una volta aveva usato la bacchetta quando Ersilia
Degliangioli non aveva risposto all'appello. Solo dopo alcuni mesi
incominciò a convincersi che Pitìngola fosse un nome affettuoso
usato dai genitori, dai fratelli e dagli altri bambini con cui
giocava nell'aia della vecchia casa dei nonni, mentre Ersilia
Degliangioli, che incominciava a scrivere con difficoltà, era il
nome usato in quella scuola, che sentiva estranea anche
se imparava cose che la
interessavano molto.
Era
per questo che la mattina alle sei e mezzo saltava sul biroccio
guidato dal vecchio Toni, assonnata ma desiderosa di imparare. Quando
conseguì il diploma di licenza elementare l'insegnante consigliò
alla madre di iscriverla alla scuola media: in
famiglia però c'era la necessità che ciascuno desse il proprio
contributo e dieci anni bastavano per andare a prendere l'acqua alla
fonte tre volte al giorno - ai rintocchi delle sei, di mezzodì e
all'Ave Maria -, per imparare a cucinare senza buttare via niente,
neanche le bucce delle patate, e per tenere pulito il pollaio. Le
galline quando alle sei la vedevano entrare la salutavano "Pitìngola,
Pitìngola", almeno così a lei sembrava. Non era infelice ma si
sentiva mancare un po' il respiro.
Libri
in casa non ce n'erano e solo raramente capitava qualcuno che avesse
con sé un giornale. A lui
Ersilia chiedeva timorosa di poterlo leggere, dimostrando un tale
interesse che gli ospiti ben volentieri glielo regalavano. Lei, al
settimo cielo, se lo faceva firmare e datare, per non dimenticare il
chi e il quando di un così bel regalo. La sera, assolti i suoi
doveri, chiedeva di leggere quel giornale alla luce della candela
posta sul tavolo della cena, pur sapendo che rubare un'ora al sonno
le avrebbe reso il giorno successivo ancora più faticoso.
Un
giornale del 1890 era per gran parte almanacco, e la lettura
scatenava viaggi fantastici in
posti che non avrebbe mai visto. Aveva anche letto il
resoconto di una seduta del
Senato del Regno, capendone ben poco, ma non tralasciava nulla. Le
pubblicazioni a puntate dei romanzi di Salgari (lei ne lesse solo
due) la portarono in un universo incantato e sereno.
Giunse
l'età in cui una ragazza deve andare via da una casa per andare a
vivere in un'altra, pur facendo le stesse cose, con in più
l'incombenza di soddisfare alcune esigenze a lei ignote di un uomo
altrettanto ignoto. Anche alla Pitìngola tutto ciò non venne
risparmiato e andò nella grande casa sul colle, salutando la sua
famiglia con la morte nel cuore.
Al
sesto mese di gravidanza svenne per un'emorragia. La nuova famiglia
ritenne che poteva valere la spesa di chiamare il dottore, piuttosto
che di perdere due robuste braccia, quattro ragionando con un po' di
lungimiranza. Chiamarono il Dott. Marini, del Sant'Ambrogio di
Mortara, di cui si diceva gran bene, ma soprattutto che facesse le
più basse tariffe.
Bartolomeo
Marini sarebbe stato un medico atipico anche nel terzo millennio:
alla fine del XIX secolo era considerato soltanto un'onta per la
professione. Laureatosi a Bologna con Augusto Murri, con lode e
pubblicazione della tesi, aveva preferito lasciare da subito una
solida e ricca professione per andare a lavorare in un piccolo
ospedale al confine fra Lombardia e Piemonte. Le quotazioni
economiche erano crollate ma lui aveva trovato un'atea soddisfazione
nel mitigare gli insulti della natura e quelli del lavoro nei campi a
persone di gran lunga più sfortunate di lui. Braccia restituite alla
terra che talvolta gli scrivevano con grafia affaticata biglietti di
ringraziamento, i suoi trofei, che andava a rileggersi nei momenti
bui. Compilava anche delle parcelle, di nascosto dai cinque colleghi
dell'ospedale che, leggendole, l'avrebbero denunciato all'ordine per
concorrenza sleale. Ma anche così quattro su cinque restavano
inevase.
Viveva
come un frate in due stanze mese a disposizione dall'ospedale, una
con un lavabo e un letto prelevato da una corsia, l'altra con la
scrivania e una piccola libreria a muro. La finestra dava su un
cavedio semibuio con tante finestre uguali. Gli angoli del pavimento
arrotondati rivelavano la antica natura di ambulatorio dei locali. Il
bagno, comune, era nel corridoio. Bartolomeo mangiava poco, uova più
che altro, verdura e frutta. Un po' di pane di campagna. La sera la
stessa minestra dei pazienti. In compenso leggeva molto. Non era né
triste né disilluso. Riuscire a fare una buona diagnosi, riuscire a
curare un uomo, se non a guarirlo, erano le soddisfazioni più
grandi.
Arrivò
alla casa sul colle dopo aver finito il giro in corsia, dove aveva
chiuso gli occhi a due tisici. Trovò Pitìngola cosciente, bianca
come i fogli della carta su cui scriveva le sue ricette. Lo
stetoscopio gli rivelò che il battito cardiaco fetale c'era, se pur
debole. La ragazza lo supplicava con gli occhi. Marini pensò che in
ospedale forse sarebbero riusciti a portare avanti la gravidanza fino
al settimo mese. La signora avrebbe potuto stare a riposo a letto e
abbastanza al caldo, le uniche cose di cui aveva bisogno. Il suocero,
capo della famiglia, chiese subito quanto sarebbe costata questa
soluzione e il dottore glielo disse, precisando che per il vitto
avrebbero dovuto provvedere loro. Sul momento il vecchio accettò.
Quel
mattino di novembre fu organizzato il trasporto, con una carrozza che
Marini pagò di nascosto: continuava ad avere davanti agli occhi
l'espressione atterrita di quella madre troppo giovane.
Arrivati
in ospedale cercò di accomodarla il meglio possibile nella corsia
donne, nel letto più riparato dalle correnti d'aria; le portò una
coperta in più e chiese alla suora di portarle qualcosa di caldo.
Per l'anemia avrebbe prescritto qualcosa nel pomeriggio.
Pitìngola
era frastornata. Dispiaciuta sia per aver causato tanto trambusto sia
perché stare a letto tutto il giorno le sembrava una pigrizia
inaccettabile. Però stava bene in quel letto con le coperte
rimboccate, anche perché sapeva di farlo per il suo bambino. Non si
alzava neanche per andare in bagno, perché così le era stato detto.
Quel dottore che era venuto a prenderla aveva dimostrato una premura
e una cortesia che mai nessuno aveva avuto con lei. Non le aveva
chiesto niente e le aveva offerto la possibilità di far nascere suo
figlio. Gli era tanto grata per questo ma la sua licenza elementare
non bastava a esprimere la riconoscenza come avrebbe voluto. Ma forse
per lui era solo lavoro...
Successivamente
Bartolomeo ed Ersilia raggiunsero un primo livello di confidenza,
sufficiente a permetterle di chiedergli se poteva avere un giornale.
Marini non rispose ma da quel giorno, dopo la visita in corsia, le
portava qualche pagina del Corriere locale, con racconti o notizie
che lui supponeva potessero
interessarle. Pitìngola leggeva tutto e dopo qualche giorno gli
chiese anche delle spiegazioni. Lui capì di avere a che fare con una
persona intelligente e desiderosa di "seguire virtute e
conoscenza" e allora nel pomeriggio si sedeva a fianco del letto
di lei e parlavano.
Con
la seconda emorragia Ersilia perse il bambino. Si sentiva colpevole.
Il marito, saputa chissà come la notizia, smise di portarle ogni
giorno quel po' di pane e di formaggio (la domenica anche due mele) e
non si fece più vedere, così come le rimesse in denaro per la
degenza. Bartolomeo, che aveva cominciato a condividere oltre ai
giornali strappati anche un po' di sé stesso, proseguì nell'opera
condividendo anche il suo pasto. Pezzi di pane con un po' di carne.
Il pollo, quando c'era, che a lei piaceva tanto.
Giunse
il giorno in cui Pitìngola non fu più anemica e abbastanza in forze
da dover essere dimessa. Era giusto un mese che dalla casa sul colle
non giungevano più persone né notizie. Incredibilmente lei non
sarebbe stata in grado di tornarvi da sola, essendovi entrata al
momento del matrimonio e non essendone più uscita. Marini capì che
ne era stata estrusa, elemento non più utile all'economia del clan.
Si
rivolse alla Madre Superiora, chiedendole consiglio e aiuto. La donna
lo conosceva come uomo perbene e si era accorta della cura
particolare che lui aveva mostrato per quella ragazza. "Potremmo
farle fare l'inserviente qui in ospedale, almeno per qualche tempo",
gli disse, "Il vitto e l'alloggio li avrà e non farà certo una
vita più faticosa di quella che ha fatto finora.". "Grazie,
suora, dio te ne renderà merito". "Lo so". Con un
colpo solo la suora aveva risolto due problemi.
Ersilia,
Pitìngola anche per tutto l'ospedale, assisteva il medico e la suora
infermiera nel giro del mattino e nella controvisita del pomeriggio.
Imparò presto perché era pulita e volenterosa. Quando era vicina a
lui intuiva le sue richieste guardandolo negli occhi: prima ancora
che lui parlasse lei gli porgeva già le garze o il bisturi.
La
loro confidenza non sarebbe mai diventata intimità ma il giornale lo
leggevano insieme la sera nel refettorio, dopo la minestra, ed
entrambi credevano di essere felici.
Quando
Bartolomeo trovò le feci del colore della pece comprese il senso
definitivo dei disturbi che da un po' di tempo lo affliggevano,
compreso quel bruciore di stomaco sordo e continuo che il bismuto non
riusciva a sedare. Sapeva che anche i medici devono morire e cercò
di farlo con lo stesso stile con cui era vissuto. Ancora una volta la
Superiora gli fu di grande aiuto.
"Il
mio morire tranquillo corrisponde al sapere che qualcuno si prenderà
cura di lei. Se credi mi faccio battezzare, confessare, comunicare,
cresimare e dare l'estrema unzione tutti insieme la prossima
settimana. Di sposarla non ne ho il coraggio. Non voglio che lo
sappia". "Della tua ansia sacramentale il mio padrone non
ha bisogno". La suora non riuscì a sorridere nonostante la
battuta. "Stai tranquillo. Avrà la tua stanzetta e i tuoi
libri. Il mio sguardo veglierà su di lei".
Il
Dott. Marini lavorò fino a che le gambe lo ressero. Per dieci giorni
fu lei a sedersi accanto al suo letto per fargli mangiare qualcosa.
Poche le parole che si scambiavano ma lei aveva ben capito che stava
andando in un posto dove la sua Pitìngola non avrebbe potuto
seguirlo.
Passò
dal sonno alla morte in un pomeriggio di novembre, circa un anno dopo
averla conosciuta.
La
morte nelle campagne è un fatto abituale e in un certo senso
"normale" anche perché il sentimento della perdita
raramente viene espresso.
La
superiora abbracciando Ersilia le chiese "Gli volevi bene?"
Lei seppe rispondere soltanto "Sì". "Anche noi",
pensò la suora.
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