Mio
padre vuole a tutti i costi che vada ad aiutarlo in ristorante, e io
non ne ho nessuna voglia. Non ho voglia di andare a scuola, non ho
voglia di lavorare. Ho solo voglia di divertirmi, di uscire tutte le
sere con i miei amici e di baciare tutte le ragazze che me lo
lasciano fare.
Ma
mio padre è pesante! Continua a dirmi che non combinerò mai niente
di buono. Forse. Ma è certo che non voglio fare la sua fine, chiuso
tutto il giorno a sudare fra il caldo di quattro fornelli, sempre
arrabbiato.
Iersera
è arrivato a casa più nero del solito. Ho sentito dalla mia stanza
che parlava a mamma: "In tutto il giorno solo un cliente....",
soliti discorsi, che non ce la fa a pagare la cameriera e tutti gli
altri conti. Figuriamoci se io voglio fare quella vita! Ho ben altri
progetti in testa, io.
Poco
fa è venuto da me e, con un tono che non ammetteva repliche, mi ha
intimato di andare al ristorante per tutta la prossima settimana,
cosicché metterà a riposo forzato la ragazza, e non la paga. Se è
per questo non paga nemmeno me. Ma, visti l'espressione e il tono,
non ho avuto il coraggio di rispondergli qualcosa di diverso da "Sì".
E
adesso sono qui, con la divisa da cameriere dai bottoni dorati, che
mi fa ridere solo a vederla appesa alla gruccia, addosso sarà ancora
peggio. La devo indossare solo durante il servizio, così non me la
sporco.
Entriamo
alle otto di questo lunedì mattina autunnale triste e grigio come il
mio umore. Si incomincia a lavorare. Devo sbucciare dieci kili di
pomodori: so come si fa, ma sono piccoli e sono tanti. Mi ci metto di
impegno, se faccio una cosa la voglio fare bene, anche perché non
sopporterei che lui mi trovasse qualcosa da ridire. E dopo i pomodori
le patate, gli zucchini. Poi pulire i calamari, attività che odio
perché ogni tanto ci trovo dentro un pesciolino, residuo dell'ultimo
pasto della vita e mi impressiono da morire. Sono freschi però i
calamari, papà è andato al mercato del pesce stanotte alle quattro.
Questi pesci, cefalopodi dovrei scrivere, hanno un qualcosa di bello
e di armonioso che va oltre la loro breve vita.
Papà
ha già cominciato a cucinare, con un occhio su di me. E anche io lo
osservo di nascosto, sospendendo per qualche attimo la mia attività,
e mi rendo conto che non avrebbe mai potuto fare un mestiere diverso.
Parla con sé stesso e con il cibo. Lo coccola mentre lo cuoce. Lo
vede trasformarsi e ne gioisce. Anche una "semplice" salsa
di pomodoro diventa per lui l'occasione per dimostrare il suo impegno
e la sua bravura. Nella sua salsa di pomodoro tutto deve essere
perfetto, anche il numero delle foglie di basilico. E la assaggia
chiudendo gli occhi, cercando di capire, soltanto con gli occhi del
cuore, se tutto sia davvero perfetto. In questi momenti sono
orgoglioso di lui e del suo ristorante. Meno quando bestemmia a mezza
voce e mi tratta come l'ultimo degli imbecilli. Se vuole lo chef sa
esprimere un'ironia parecchio sferzante, e riesce con estrema
facilità a farmi imbestialire. La cucina avanti a tutto, e immagino
anche avanti a me.
Cerco
di non pensarci, a questo padre-padrone, e affetto le zucchine
cercando di non lasciarci l'unghia e il dito, come l'ultima volta.
Lavorando
il tempo passa veloce. E' già arrivata l'ora di mettere i pantaloni
neri, le scarpe nere e la giacca con i bottoni dorati. Preparo i
tavoli. L'ultima volta che non ho messo il bicchiere del vino al suo
giusto posto, cioè davanti alla punta del coltello e spostato un po'
a sinistra, mi ha detto di tutto. Inevitabilmente ho imparato, a mie
spese. Ma non è cattivo, intendiamoci: ogni tanto mi sento una
carezza sul collo e, voltandomi, vedo che ha gli occhi lucidi. Chissà
cosa gli frulla, per quel cazzo di testa brizzolata....
Tutto
è pronto. La sala è a posto. In cucina la linea è OK. Mancano solo
i clienti. Aspetterò quaranta minuti prima che arrivino, i miei
primi clienti di questa settimana di passione.
Sono
in due, un uomo e una donna. Lui è corpulento, con un'espressione
sorridente, lei, più alta di lui, ha un cespuglio di capelli biondi
che le incorniciano il viso, da cui spiccano due occhi profondamente
neri. Si siedono a un tavolo rotondo, dietro una colonna, vicini al
pass. Almeno cento anni in due. Vecchi, semplicemente. Ma sono
clienti, e io devo sfoderare con loro il migliore dei miei sorrisi.
Per fortuna non è difficile, perché mi trattano con gentilezza e
sono simpatici. Gli porto la carta e vado a prendere il vino. Mentre
torno con la bottiglia dello champagne in mano, ghiacciato si è
raccomandato lui, li trovo abbracciati e, con le bocche saldate, si
baciano come se non si vedessero da anni. Pensavo fossero due amici
ma non direi proprio. Mi ricordano certi baci che davo a Giovanna
l'estate scorsa. Per nulla intimiditi dalla mia presenza continuano a
baciarsi con gli occhi chiusi. Che fare? Provo a raschiarmi la voce e
allora lui apre un occhio, e si stacca dolcemente. Ma la mano gliela
stringe sempre con tale forza che le dita di lei sono sbiancate. Gli
faccio assaggiare il Cliquot: "Va bene", mi dice. Meno
male, papà dice che spesso il Cliquot sa di tappo. Ma ho come
l'impressione che anche se gli avessi servito Champagne marca "cesso"
sarebbe andato bene lo stesso.
Prendo
la comanda e appena mi volto sono di nuovo abbracciati stretti, si
sono avvicinati persino le seggiole. Mi volto per pigliare il macinino
del pepe, che non mi serve, e vedo le mani di lui che le accarezzano
delicatamente i capelli. Per tutto il pasto sarà più il tempo che
dedicheranno ai baci che quello destinato al mangiare.
C'è
qualcosa che non riesco a capire. Ma non si vergognano? Fossero due
ragazzi come me li capirei, ma sono due vecchi, queste cose non le
dovrebbero fare. Certo, il cliente può fare tutto quello che vuole,
ovvio. Ma io mi sento in grande imbarazzo.
Loro
due invece, con il massimo della naturalezza, continuano a scambiarsi
saliva imperterriti.
"Peccato
di non avere nel ristorante un divano letto con tre paraventi",
mi sorprendo a pensare, trattenendomi dal ridere ma senza riuscirci,
intanto che rientro in cucina con i piatti vuoti. Papà, che mi ha
letto nel cuore, avvicina l'indice della mano destra alle labbra.
Silenzio vuole. Ma sorride anche lui.
Gli
porto infine il dessert. E lui le sta baciando la punta del naso. Lei
ha un'espressione di felicità assoluta, mi fa pensare che si prenda
tutti quei baci e se li conservi nel cuore. Sono felici, e a un
tratto non li vedo più come due vecchi ma solo come due persone
senza età, che vogliono solo scambiarsi il loro bene nel mio
ristorante.
Oddio,
sono bastati due sconosciuti e ho detto "il MIO ristorante",
anche se è grazie a papà che questo ristorante ha qualcosa di
magico.
Non
posso lasciar perdere questa magia. Ho cambiato idea. Voglio lavorare
qui.
Quando
escono, in fretta e furia perché per loro deve essere tardi, la
aiuto a infilarsi il cappotto e le mormoro titubante "Vi aspetto
presto nel nostro ristorante". E il suo "certamente" è
una promessa.
Riesci molto bene a rendere il punto di vista e il modo di esprimersi di un narratore giovanissimo. Ma dove trovi tutte queste idee per le trame delle tue storie? Annalisa
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