Così, molto semplicemente e senza
esserci messi d'accordo, day by day, l'Orco mi porta il pane e io gli
porto il "plat du jour". Siamo entrambi contenti, certo, ma io, non
foss'altro per curiosità, vorrei che qualche volta mangiassimo
insieme.
"Dare da mangiare" è
il mio imperativo categorico, e in un certo senso la mia nemesi. Non
solo per nutrire, ma per ricevere lode e apprezzamento, necessari
come l'ossigeno che respiro. E' per questo che il cucinare solo per
me stesso mi avvilisce, al punto di arrivare, talvolta, a mangiare
senza cucinare. Cucinare per qualcuno invece mi riempie di gioia, e
più sono le persone più mi diverto. Il mio necrologio vorrei fosse:
"Nella sua amata cucina, circondato dai suoi fornelli, preparando l'ultima cena per un vasto numero di
commensali, ci ha lasciato col sorriso sulle labbra..... ", ah
ah ah. Chissà se qualcuno avrà il coraggio!
Oggi il mare è mosso e c'è
vento. C'è caldo, è vero, ma non me la sono sentita di fare il
bagno, neanche con la corda "di sicurezza". Non vorrei che
la corrente decidesse, mio malgrado, di riportarmi a Buenos Ayres.
Perché qui sto bene.
E' strana l'aria, pregna di
umidità appiccicosa. Anche il silenzio che mi avvolge non è lo
stesso degli altri giorni. Il sole lo vedo poco, avvolto da grigi
nuvoloni. Meno male che il plat du jour l'ho già preparato, perché
non ho nessuna voglia di cucinare. Brutto segno. L'umore è a terra.
Oggi, dopo dieci giorni che sono qua, non ho voglia di fare niente, e
sto accoccolato con le ginocchia fra le braccia di fronte al moletto
dove ha attraccato il gommone la prima sera, su un fazzoletto
sabbioso che neanche in un impeto di ottimismo chiamerei spiaggia.
Cerco di non pensare ma non ci
riesco, persone, situazioni, amori, mi affollano la mente,
mescolandosi fra loro e confondendomi, "Quella volta nella
toilette del treno, ma con chi ero??". Ho bisogno di
svuotarmelo, il cervello, non di riempirlo di fantasmi. Non riesco
neanche a dormire perché mi sento dentro un'agitazione che mi
scuote. Non capisco cosa ho, so solo che non vorrei star male proprio
qui, per mille motivi. Mi è scappata anche la voglia di fumare.
L'ultima sigaretta che ho in bocca viene spenta, con divina
millimetrica precisione, da un gocciolone di acqua.
Alzando la testa mi accorgo che
il cielo è quasi nero. Altre gocce, fredde e pesanti, mi cadono
sulle ginocchia. Devo tornare su, rapidamente. Chissà perché mi ero
fatto l'idea che in questo posto non dovesse piovere. Non potesse
piovere. Invece... non ostante faccia i cento passi quasi di corsa
arrivo in casa marcio, e ansimante, come se qualcuno mi avesse
inseguito per ammazzarmi. Mi spoglio e mi asciugo.
Il rumore del mare incomincia ad
aumentare, le onde sono alte e si rompono sugli scogli con scoppi
sordi. Da dove sono, nell'open space, dovrei essere più che sicuro,
ragionandoci a mente fredda: viceversa mi prende una paura
incontrollabile e inarrestabile, e mi figuro quando arriverà l'onda
"buona", che si porterà via faro, Orco e cuoco. Non riesco
a calmarmi. Ma chi me l'ha fatta fare di venire a seppellirmi qui, a
Napoli si stava tanto bene... Mi sento impotente e non riesco a
tranquillizzarmi. Il rumore della pioggia battente aumenta, si fa
assordante, e gli scoppi delle onde esplodono sugli scogli sempre più
forti. Mi stendo sul letto, rimbecillito dalla paura. Ho paura
persino ad accendere la luce. Mi rannicchio nel buio. Gli elementi si
sono scatenati tutti insieme contro il faro, e dentro ci sono io.
La cosa incredibile è che non
arriva quel momento in cui la tempesta accenni a diminuire, in cui
puoi, anche solo un attimo, pensare "il peggio è passato".
No, cresce continuamente di intensità. Ma chi mai si sarebbe potuto
immaginare un simile casino? E' tutta esperienza, anche se ne avrei
fatto volentieri a meno.
Non voglio andare dall'Orco, e
non voglio che pensi che ho avuto paura (chissà mai perché).
Immagino, senza esserne certo,
che tutto ciò debba finire. Ho persino dimenticato il mio cattivo
umore: no, non l'ho dimenticato. E' finito con l'inizio della
tempesta, che non accenna a diminuire.
In un barlume di lucidità
comunque realizzo che se finora non si è portata via il faro è
verisimile che non lo faccia più, anche se il fragore cresce
continuamente. Questo pensiero mi tranquillizza un poco. Mi tiro le
coperte addosso (fa freddo davvero, adesso) e finalmente chiudo gli
occhi, rannicchiato in posizione fetale. Mi manca il dito in bocca,
ma arriveremo anche a questo.
Quanto avrò dormito? Fuori il
cielo nero continua a vomitare incredibili quantità di acqua. Dalla
finestra non vedo più niente, buio totale. Ascolto gli scrosci,
ritmati, delle onde sugli scogli. Tiro fuori l'orologio che quando
decisi di vivere con i ritmi del sole era finito nel cassetto delle
posate. Sono le nove della sera. Ho parecchia paura ancora a toccare
l'interruttore della luce, per cui mi accendo una stearica, che avevo
adocchiato subito al mio arrivo. La sua luce tremula e fioca cambia
la fisionomia di tutto quello che mi circonda, microfaro dentro un
macrofaro. Mi viene in mente il campo di tennis nella pallina di
tennis, ricordo delle lezioni universitarie. Cosa mi aveva dato
all'esame quel professore? Ventitre, mi sembra. Era un allievo di
colui che con stolida protervia era riuscito a far perdere all'Italia quel
grande ciclista. Vedi ben che sopravvivere è solo questione di
fortuna. Ed essere felici è un'utopia.
Cucinare al lume di candela.
Non allestire una romantica
cenetta per due ma cucinare per sedare il panico, farsi qualcosa da
mangiare che abbia l'effetto di rincuorare. Una frittata mi sembra
una buona idea, la frittata necessita di fantasia e attenzione. Uova,
sale, ricotta, erbe di Provenza. Cipolle e patate a fette,
precedentemente saltate. Ho il pane dell'Orco. Due pere belle. Se
voglio dormirci sopra il Cabernet me lo devo finire tutto, non c'è
santo, anche perché la frittata sarà un poco indigesta.
E' poco verisimile scriverlo, lo
ammetto, ma forse mentre sto cucinando il rumore fuori diminuisce. Le
gocce che cadono sui vetri si fanno via via più fini.
Domani è un altro giorno.
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