Stamane il mio ospite e duce
piomba giù, mentre sto cucinando. Anzi,piombano in due, col felino
mollemente adagiato sulla spalla destra. Sono attaccati col mastice,
quei due. Si sono seduti sulla seggiola, con l'evidente atteggiamento
di chi aspetta che sia pronto. E io mi sono sentito chef e maître
allo stesso tempo, e, per la prima volta nei suoi confronti, medico.
Mi guarda con gli occhi socchiusi mentre mi affaccendo e, come
sempre, parlo a me stesso, ritmando il mio lavoro: "Via!",
"Fatto!", più tutte le imprecazioni che non voglio mettere
sulla carta, quando mi scotto o quando mi affetto un dito, cosa
disdicevole perché poi sanguino per ore, e cucinare incerottato è
una delle cose più brutte della vita. Non dice niente, lui, ed
entrambi sono attentissimi e non si perdono nessun passaggio.
Questo primo, e chissà che non
sia l'ultimo, desinare insieme all'Orco, merita lo Champagne. Ed è
proprio quello che esce dal frigorifero, assieme a uno straccetto di
carne che il certosino più che mangiare aspira. Con l'occasione gli
somministro quella carezza di cui da più giorni mi porto la voglia
dietro. Dopo cena apriamo la bottiglia del Calvados, con l'illusione
che sturi davvero le arterie. Adesso, seduto di fronte a lui,
tranquillo, posso permettermi di guardarlo con un po' più di
attenzione. Prima domanda: è più vecchio di me? Forse. Condividiamo
l'uso sporadico del rasoio ma la sua barba, 7-10 giorni, è bianca.
Il viso e le mani sono coperti da una cute raggrinzita, non più
elastica, con quelle macchie tipiche del danno da sole. Realizzo che
è inutile spiegargli che è una situazione preneoplastica. I suoi
abiti sono semplici, in tinta unita, e danno l'impressione di
pulizia. E' pettinato e ha i capelli ben tagliati (gli chiederò
quando viene il barbiere), con la scriminatura a destra. Fuma più di
me, perché ha i baffi ingialliti, assieme all'indice delle mani.
Esprime pace, in questo aiutato dalla bestia, adesso placidamente
appoggiata sul suo collo, con le zampe ai due lati, che lui tiene con
le mani. Il Moscoforo, senza dubbio, anche se il gattone non è
ancora un vitello. E come il Moscoforo sono un tutt'uno. "Come
lo chiami?", gli chiedo incoraggiato dal Calvados. Per lui
immagino qualche nome glorioso, tipo Achillèus. "Non ho bisogno
di chiamarlo, basta un'occhiata. Ma anche l'occhiata poi non serve,
mi è attaccato come una piattola...." e sghignazza
improvvisamente, gioioso del bene che il gatto gli dimostra. "Mi
piacerebbe prenderlo in braccio", penso ad alta voce. "Non
ci riuscirai. Lui è parte di me". Ok, pratica chiusa.
"Come sei finito qua?"
gli chiedo, più che con curiosità con lo stupore di avere avuto il
coraggio di chiederglielo. "Non sono capace a vivere come gli
altri. So rendermi veramente intollerabile. E la pazienza di quella
donna a un certo punto è finita. Si è fatta una valigina e se ne è
semplicemente andata via. Dopo una settimana ero sul gommone, quello
che ha portato te. Certo, mi manca parecchio. Credo di averla amata
tanto ma forse non è stato abbastanza. O forse mi sono ostinato nel
credere che lei fosse la donna giusta. Si vede che così non era. Non
ho avuto il coraggio di provare a ricominciare. Sono scappato".
Pronuncia queste parole con tono
un po' ironico. Capisco bene che la ferita è ancora aperta, ancorché
non recente. Chissà cosa avranno sbagliato....
Siamo scappati entrambi, quindi,
ma entrambi non possiamo scappare da noi stessi.
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