Devo dire che adoro i bar. Fra le
tante cose che adoro i bar occupano un posto privilegiato.
Forse, se non fossi nato in
città, è probabile che avrei consumato i miei giorni in un'osteria
di paese, travolto da quei crudeli giochi di carte in cui chi perde
beve e chi beve inevitabilmente continua a perdere, circondato dalle
risa di scherno di finti amici e dalla complicità cattiva dell'oste.
Il disgraziato di turno, terminata la tortura, esce malfermo nel buio
e non trova più la sua casa, per forza vuota, e si stende per terra
con la testa su uno scalino, non capendo di essere a tre metri
dall'uscio, anzi credendo di essersi perso. Infine un pietoso sonno
lo accoglie, vuoto, non dopo qualche lacrima da ubriaco.
Ma io adoro i bar lo stesso, quei
bei bar cittadini, lucidati a specchio da barman impeccabili e con un
sorriso aperto, forse ancor più cattivi dell'oste di paese ma
infinitamente più eleganti, dove l'aperitivo diventa l'apericena,
splendida, specie per chi sa già che a casa non troverà nessuno.
Anche se il più delle volte l'apericena è veramente modesta, se non
cattiva. Un'apericena di avanzi del mezzogiorno. Del resto l'uomo è
capace di accontentarsi molto di più delle bestie, e l'illusione di
incontrare il compagno della vita, al bar poi, può ben far mandare
giù certi bocconi amari, o certi tramezzini stantii e indigeribili.
Appunto iersera mi trovavo a
celebrare l'happy hour, solo, certo, ma estremamente ben disposto
verso il mio prossimo. L'ultima mia scoperta è un baretto del
centro, con un interno invero modesto ma con otto tavolini fuori:
tavolini old style, rotondi e con tre gambe, di alluminio. Tavolini
che a malapena accolgono il vassoio di plastica con la réclame della
Peroni. Non un'apericena sontuosa a più portate, troppo simili a un
ristorante, anche nei ritardi.
Patatine fritte invece, appena
discellophanate, olive calabresi, buone e piccanti e un tumblerone di
Campari ben ghiacciato. Quanto può bastare per la felicità di un
attimo.
La posizione dei tavolini è
sicuramente strategica per un'attività che appaga profondamente il
mio io: guardare, e soprattutto ascoltare il mondo, senza che il
mondo se ne accorga. Spiare senza essere riconosciuto come spione. E'
divertente, ed è anche lo spunto per scrivere pensieri che diventano
le mie storie.
Ogni donna che mi passa davanti
diventa oggetto di esame rapido ma fotografico, finalizzato al
confronto con un canone di bellezza che non è neanche mio ma solo
imposto da chi pilota l'immaginazione collettiva, che ci racconta, a
partire dalla Venere di Milo, come deve essere la donna "bella".
Mi sforzo di andare al di là di questa "bellezza" e mi
crogiolo in riflessioni ulteriori, cercando di immaginare caratteri e
storie della vita, e in questa attività trasferisco in altri umani
porzioni belle e brutte di me stesso, dandogli diritto di asilo alla
coscienza, sia pur per attimi. Talvolta non sono fantasmi piacevoli,
bastevoli soltanto ad evocare un dolore nuovo. Devo essere
masochista, credo.
Si sono fermati di fronte al bar
due vecchi: vecchio è una parole un po' grossa, del resto vecchio è
chi muore. 130 anni in due mi sembra un'ottima approssimazione. Non
li sento ma capisco tutto: saranno a due metri da me. Anche lui vuole
celebrare l'happy hour e lei dice sì, certo, ma da come aggrotta le
sopracciglia si capisce che non ne ha poi tanta voglia. La spunta
lui, questa volta, e si siedono rispetto a me perfettamente visibili,
e udibili quel tanto che basta.
Lui, soddisfatto, le porge la
sedia dal di dietro e lei si accomoda con una certa affettazione,
carina però, e del tutto coerente con il personaggio. Si siede anche
lui: sono entrambi equidistanti da me. Bene. Se fossi un cane
drizzerei le orecchie ma se fossi un cane mi divertirei certo meno.
La ragazza del bar, svogliata, si
presenta nel giro di cinque minuti, nei quali entrambi sono stati in
silenzio. Lui deve essere stato un tipo da Negroni, ne ha l'habitus,
anche se oggi si limita a ordinare un più modesto Spritz. Lei ordina
bollicine. Entrambi aspettano con grande interesse gli appetizers e i
loro volti, quando arrivano, non celano una piccola delusione. Ma le
olive sono squisite. Sorseggiano. Si guardano negli occhi e si
guardano intorno. Chissà la loro storia. L'aria che hanno è serena
e il loro sguardo è sincero. Da quanto tempo saranno insieme?
Sposati? Amanti? Fra loro ci saranno state terribili burrasche? Più
li guardo e più cerco di penetrare il loro cuore, per portargli via
quella cosa che loro hanno e io continuo a cercare......
Si rubano le olive a vicenda, e
lui le conta i noccioli che lei ha davanti nel piattino, trovandole
da ridire con finta asprezza. Lei sogghigna, certa ancora adesso,
dopo tanti anni, di potersi permettere di fargli questi piccoli
torti, e nega l'evidenza con spudorata naturalezza, e gli dice che
non è vero che gli ha mangiato tutte le olive, e che se ne faccia
portare ancora un po', e che cosa sarà mai, infine ci sono anche le
patatine.....
Lui è ancora innamorato di
questa donna, lo capisco persino io. Lo capisco da come la guarda, da
come le teneva la mano quando sono arrivati e da come la rimprovera
sorridendo. C'è una colla, che io non conosco, che tiene legati
questi due personaggi, colla più forte di qualsiasi cosa.
Sto incominciando a sentirmi come
un cane rabbioso, e vorrei ordinarmi un Negroni da bere tutto d'un
fiato, per annegare l'invidia profonda che mi suscitano questi due,
del resto poco più grandi di me. Ma non dico e non faccio niente: mi
hanno ipnotizzato.
Quanto sarà che sono seduti?
Poco, non più di un quarto d'ora, han quasi finito le loro bevande.
Anche loro hanno il mio stesso
vizio, osservano con identico interesse la gente che passa.
Condividono poi commenti e riflessioni, e in questo loro condividere
c'è forse l'essenza dell'ammore.
Come vi posso chiamare per non dimenticarvi? Vi
chiamerò Blondie e Dagoberto, perché come nel fumetto, siete sempre
giovani, e perché, come nel fumetto forse non esistete.
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