domenica 30 dicembre 2012

Dita

Si è appena addormentata. Il suo respiro è superficiale, regolare. La luce della sera filtra dalle fessure della tapparella, schermata dalla tenda, e disegna sul muro righe rosate e sfocate.
Passa in lontananza un treno, proprio lungo il mare, e il rumore del suo sferragliare giungendo al paese vecchio si stempera, e diventa l'occasione per ricordarmi sommessamente che sono ancora sveglio. Dal giardino della villa vicino a casa giungono gridolini di bambini che si attardano a giocare. 
Sono incantato da questo momento un po' rarefatto, e il tempo mi si è fermato dentro. Solo il buio che si allunga nella camera mi avvisa che è tardi. 
Mi volto verso di lei, che mi mostra, fra la maglietta e lo slip, una striscia di schiena che oscilla ritmicamente come un pendolo. I lunghi riccioli neri le coprono le spalle. Ogni tanto viene scossa da un tremito, come se nel sogno avesse un attimo di paura. E' accovacciata su un fianco, come un feto. Non mi stupirei se avesse il pollice in bocca: del resto a conoscerla bene è ancora un bambina. Vorrei alzarmi, bere qualcosa e fumarmi una sigaretta ma sono come paralizzato da un piacevole torpore, più gradito dell'alcool e del fumo. E' anche vero che ho paura di svegliarla, non voglio interrompere questo suo riposo così sereno. Allungo le gambe con grande attenzione e giro la testa verso il comodino, dove ho posato l'orologio, quello che mio padre aveva destinato a me. Mi conferma che è tardi, ma non ho nessuna voglia di tirarmi su. 
Stendo il braccio e le accarezzo i capelli, mi avvolgo un boccolo corvino attorno al mignolo: bofonchia qualcosa e si volta continuando a dormire.
Adesso posso intuirle i tratti del volto nella penombra: è sempre bellissima, identica in tutto e per tutto a com'era quando ci siamo conosciuti, o forse soltanto eguale all'immagine che di lei mi porto dentro, gli occhi così scuri da nascondere la pupilla, la bocca sempre aperta al sorriso. Improvvisamente si rimbocca il lenzuolo, anche se questa serata settembrina è ancora calda.
Non riesco a smuovermi: so che dovrei andare ma sono come paralizzato. Incomincio a guardarla con altri occhi, come fosse una sconosciuta e come se solo adesso avessi la possibilità di svelarne la bellezza. Ho voglia di scoprirla e di svestirla ma non oso, non la voglio disturbare. Era tanto stanca, è giusto che riposi.
Metto soltanto la punta dell'indice sulle labbra chiuse e le porto un piccolo bacio sulla fronte. Niente di più, ma basta per svegliarla. Con occhi ancora riconoscenti si aggrappa a me e mi stringe. "Ciao", mi mormora all'orecchio, ricadendo nelle nebbie del sonno. "Ciao" e basta. Non siamo mai stati capaci di dirci tante parole, è un nostro limite, ed entrambi ci esprimiamo di più con le parole non dette, e quelle poche che diciamo le carichiamo dei significati più profondi, con l'ovvio risultato che spesso siamo gli unici a comprenderle.
Però il "Ciao" sussurrato da lei è stato comunque la cosa migliore di questa giornata. Me ne sto. 
Mi divincolo con delicatezza e mi vado a vestire, controvoglia.



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