mercoledì 30 luglio 2014

SCAPPARE 8 - IL SOGNO DI GIUSEPPE

Il Calvados aveva fatto il suo effetto: Giuseppe giaceva sul divano, con la gambe allargate ad accogliere il gatto. Russava, a tratti, e l'Orco, impossibilitato a dormire, lo guardava sorridendo.

"Dove ho già visto questa donna? Mi sorride come se mi conoscesse bene e anche a me sembra di conoscerla, ma non saprei proprio dove metterla.
Mi prende la mano e mi fa cenno di seguirla. Non faccio fatica ad obbedirle: è bellissima. La sua stretta mi trasmette una piccola scossa. Mi conduce dolcemente per questo corridoio pieno di luce. Camminiamo insieme in silenzio. Odo, immagino alla fine del corridoio, un sommesso scrosciare d'acqua, sempre egualmente lontano nonostante il nostro procedere.
Le guardo il volto, sempre più sconosciuto e sempre più familiare. E' più alta di me, e la sua stretta è forte. I miei occhi sono all'altezza del suo seno, coperto solo da una camicia di garza azzurro mare, sotto la quale indovino due capezzoli duri e scuri.
La sua stretta mi trasmette con forza il desiderio di essere posseduta. Proseguiamo, ma lo scroscio d'acqua è sempre lontano, se pur ben riconoscibile, in questo corridoio infinito che mi dà un senso di serenità profonda.
A un tratto mi ferma e si siede, trascinandomi, con la schiena appoggiata alla parete. Forse siamo in un albergo? Non vedo porte.
Sento le sua labbra mordermi l'orecchio e mi volto. Ho la bocca davanti alla sua e vi introduco la mia lingua, subito risucchiata con violenza tale da farmi male. Non mi domando più chi sia questa donna, cerco di non pensare a nulla che non sia il piacere che stiamo scambiandoci. Voglio vederli, questi capezzoli, sommità di un seno perfetto. Lei ha gli occhi chiusi, e il respiro è superficiale, un poco affannato. Eccoli, tali e quali a come me li ero immaginati. Non voglio toccarli con le mani: solo baci, con la recondita intenzione di far stare tutto quel seno dentro la mia bocca. Lei inarca leggermente la schiena. La camicia azzurra non c'è più e la moquette blu su cui siamo sdraiati è morbida come gommapiuma. Non so perché ma non ho nessun timore che arrivi qualcuno. Anche gli slip volano, non levati dalle mani. Adesso è stesa davanti a me, che aspetta senza fretta.
La mia attenzione è colpita da un mobiletto al mio fianco, a cui prima (ma quanto prima??) non avevo fatto caso, con l'anta socchiusa. C'è dentro un vaso con un profumo meraviglioso di vaniglia. Come obbligato da un richiamo incomincio a spalmarla di questa crema profumata, fresca, come l'acqua della sorgente che continuo a udire. E ad ogni spalmata segue una meticolosa leccata. Buona questa crema! Sembra yoghurt. Inavvertitamente le sfioro il sesso, caldo e umido. Non perdo l'occasione per rinfrescarlo con lo yoghurt.
Adesso sono sopra di lei, a cavalcioni del suo torace. Le verso senza più ritrosia tutta la crema addosso, distribuendogliela sopra ogni piega, tenendone solo un poco, in cui intingerò il mio, di sesso, che è all'altezza del suo seno, che è immerso nel suo seno. Quanto tempo è che andiamo avanti così? Ogni poco lei piega la testa e cerca di acchiapparlo al volo con la bocca, in un gioco che non vuole finire. A un tratto lei si ferma e incomincia a sorridere, e poi a ridere in maniera sempre più sgangherata, incomprensibile ma contagiosa, e il desiderio di penetrarla diventa allora l'esclusivo pensiero, di schiacciarla con il mio corpo e di tenere fra le braccia quella testa di capelli scuri, affogandoci dentro il mio parossismo. Nel momento in cui la penetro lei stringe con forza le gambe, e il mio piacere decolla.
Adesso la moquette è diventata qualcosa di liquido, che accompagna dolcemente il nostro andirivieni, ritmato, del quale nulla possiamo capire, soprattutto quando sia cominciato né se possa mai finire. Non ho più la percezione di me stesso e non ho più la percezione di questa donna che è intorno a me, che non è più un altro da me ma fa parte ormai della mia unicità.
Impercettibilmente, sento che incomincia a guidare lei. I nostri corpi sono avvolti dal sudore e dallo yoghurt, sottile membrana aderente ma su cui scivoliamo con sicurezza. Grazie alle sue spinte sento il desiderio ricoprirmi ogni centimetro di pelle: non penso che durerò ancora molto, anche perché i suoi sospiri si stanno trasformando in grida lamentose, laceranti, che rimarcano il mio silenzio. Ma non è che io non godo: semplicemente non riesco a dare voce al mio godimento.
Finalmente, stringendoci con forza le mani, arriviamo entrambi a quel punto che era già nella nostra mente prima di partire, e un lunghissimo bacio ne è il traguardo.
Adesso anche lei tace.

Io vorrei dormire ma non posso, perché sto sognando".


giovedì 24 luglio 2014

SCAPPARE 7 - ANCHE GLI ORCHI HANNO UN CUORE

Al mio gatto è piaciuto subito.
Due anni fa era venuto qui un tale, di cui non ricordo neanche il nome, che aveva il potere, solo per il fatto di esserci, di far rizzare il pelo al micio, che incominciava a fremere di furore. Più di una volta l'ho tenuto stretto fra le mani, per impedirgli di consumarselo dai graffi. Uno che se ne stava per i fatti suoi tutto il giorno. Uomo oscuro, che come è venuto così se ne è andato via, senza una parola. Quando è andato me ne sono reso conto dall'espressione del gatto, impercettibilmente cambiata.
Questo è tutta un'altra pasta! E' scappato, da cosa poi, e per lui ogni scusa è buona per salire e per stare in compagnia. Non nego che mi faccia piacere. L'altro giorno, quando è incominciato a piovere, correva come un papero, mi ha fatto morire dal ridere. E che sarà mai? Non un papero, un coniglio impazzito dalla paura.
Poi ha questa mania della cucina, a sentire lui tutti i problemi dell'umanità sono dovuti a una cattiva cucina e potrebbero essere risolti sedendosi attorno a un tavolo, con una buona cena. Preparata da lui,naturalmente, che da questo punto di vista ha un ego smisurato. Però è in un certo senso vero, mangiare le cose che lui cucina mi mette di buon umore. Si è portato dietro un baule enorme pieno di cibi di ogni tipo, e li mette insieme con grande impegno. Fino a che lui non è arrivato i miei pranzi e le mie cene erano conditi dal disinteresse e dalla tristezza, e il pane che mi preparo la mattina era la sola cosa "buona" che mi andava di fare. Cene e pranzi utili solo per scandire la giornata. Infatti sono dimagrito, non poco.
Questo sciocco cuoco mi vuole fare reingrassare....
Mangiando con lui, cuoco e cameriere a un tempo, per qualche attimo riesco a distogliermi da quel volto, che è diventato il mio pensiero fisso, ancora particolarmente doloroso. Era bella la mia Laura.
Ancorché avesse un anno più di me ne dimostrava dieci di meno. Lo sguardo aperto, due occhi verdi che brillavano sotto un velo di capelli rossi in continuo movimento. So bene di non essere stato un compagno facile: troppe volte sono tornato a casa dopo giorni di assenza senza dire una parola; ho sempre avuto bisogno dei miei spazi, non per tradirla, solo per la necessità di stare solo con me stesso. Ma lei questo non lo ha mai capito, e non me lo ha mai perdonato. Anche se al ritorno la ricoprivo di regali, per scusarmi, non per giustificarmi. Solo una volta sono andato con un'altra donna, lo ricordo bene. Una mattina alle quattro mi ero svegliato fradicio di sudore per un sogno orribile. Ricordo anche quello. Avevo bisogno di un po' di tenerezza e anche di distogliere la mente da quelle immagini, che sembravano ancora realissime. Non si è fatta neanche svegliare, figuriamoci il resto.
Buenos Ayres è grande e non è stato difficile trovare il tipo di compagnia che cercavo. Graziella, si chiamava, emigrata da poco dall'Italia. Non molto alta. E' riuscita a farmi dimenticare quel sogno e, cosa ancora più apprezzabile, è riuscita a farmi fare due risate di cuore. L'ho lasciata con la convinzione di avere speso bene quei pochi soldi e le ho chiesto il numero di telefono, certo che non l'avrei mai richiamata.
Tornai a casa alle dieci del mattino che dormiva ancora.
Mi preparai il caffè, ma eravamo già stufi, entrambi. Lei ha avuto il coraggio di farsi la valigina, io no.
Chissà adesso dove è e cosa fa. Chissà se ha trovato un uomo che le possa dare quella cosa che lei chiama felicità. Io sono qui, sepolto vivo, e non saprei neanche dire se per autopunizione. Il 3 di ogni mese, da parecchi mesi, arriva il battello a portare ciò che mi serve, che è solo parte del compenso per il lavoro che faccio, più qualche libro che ho ordinato il mese precedente. L'ultimo mese mi hanno portato "L'Interpretazione dei Sogni": l'ho trovato un libro di letteratura, poco scientifico. Forse sarebbe stato meglio farmi portare un libro recente di Anatomia Patologica, che mi aggiornasse sullo stato delle mie malandate coronarie. Ricordo bene il giorno che mi sono laureato "Medico per sempre, mi hanno detto". Ed è vero, anche se l'unico paziente che mi interessa è quello che da tanto ho lasciato perdere. Ma poi su quest'isola si sta bene. Il desiderio di morire qui, magari rapito dalla furia degli elementi in una notte buia di tempesta, è sempre forte. Un'uscita in grande stile, insomma, risucchiato consapevolmente da un'onda gigantesca, lucidissimo fino al momento in cui diventerò tutt'uno col mare che tanto amo...
Non devo più bere tutto questo Calvados. Il cuoco è stato bravo. E' lì di fronte a me, accovacciato sul divano, e russa leggermente: anche a lui il Calvados ha fatto effetto. Se fosse sveglio gioirebbe senza dubbio nel sentirsi il gattone in grembo, lo ha tanto desiderato. Ma la Bestia è così, fa solo quello che vuole, non come gli umani, che fanno spesso quello che possono, e spesso non ci riescono neanche.
E' un bravo ragazzo questo. E' buono di cuore e merita di ritornare a vivere nel mondo vero, non in questa oasi di felicità fasulla. Magari mi verrà a a trovare ogni tanto. Devo fargli venire la voglia di ritornare.




domenica 20 luglio 2014

SCAPPARE 6

Stamane il mio ospite e duce piomba giù, mentre sto cucinando. Anzi,piombano in due, col felino mollemente adagiato sulla spalla destra. Sono attaccati col mastice, quei due. Si sono seduti sulla seggiola, con l'evidente atteggiamento di chi aspetta che sia pronto. E io mi sono sentito chef e maître allo stesso tempo, e, per la prima volta nei suoi confronti, medico. Mi guarda con gli occhi socchiusi mentre mi affaccendo e, come sempre, parlo a me stesso, ritmando il mio lavoro: "Via!", "Fatto!", più tutte le imprecazioni che non voglio mettere sulla carta, quando mi scotto o quando mi affetto un dito, cosa disdicevole perché poi sanguino per ore, e cucinare incerottato è una delle cose più brutte della vita. Non dice niente, lui, ed entrambi sono attentissimi e non si perdono nessun passaggio.
Questo primo, e chissà che non sia l'ultimo, desinare insieme all'Orco, merita lo Champagne. Ed è proprio quello che esce dal frigorifero, assieme a uno straccetto di carne che il certosino più che mangiare aspira. Con l'occasione gli somministro quella carezza di cui da più giorni mi porto la voglia dietro. Dopo cena apriamo la bottiglia del Calvados, con l'illusione che sturi davvero le arterie. Adesso, seduto di fronte a lui, tranquillo, posso permettermi di guardarlo con un po' più di attenzione. Prima domanda: è più vecchio di me? Forse. Condividiamo l'uso sporadico del rasoio ma la sua barba, 7-10 giorni, è bianca. Il viso e le mani sono coperti da una cute raggrinzita, non più elastica, con quelle macchie tipiche del danno da sole. Realizzo che è inutile spiegargli che è una situazione preneoplastica. I suoi abiti sono semplici, in tinta unita, e danno l'impressione di pulizia. E' pettinato e ha i capelli ben tagliati (gli chiederò quando viene il barbiere), con la scriminatura a destra. Fuma più di me, perché ha i baffi ingialliti, assieme all'indice delle mani. Esprime pace, in questo aiutato dalla bestia, adesso placidamente appoggiata sul suo collo, con le zampe ai due lati, che lui tiene con le mani. Il Moscoforo, senza dubbio, anche se il gattone non è ancora un vitello. E come il Moscoforo sono un tutt'uno. "Come lo chiami?", gli chiedo incoraggiato dal Calvados. Per lui immagino qualche nome glorioso, tipo Achillèus. "Non ho bisogno di chiamarlo, basta un'occhiata. Ma anche l'occhiata poi non serve, mi è attaccato come una piattola...." e sghignazza improvvisamente, gioioso del bene che il gatto gli dimostra. "Mi piacerebbe prenderlo in braccio", penso ad alta voce. "Non ci riuscirai. Lui è parte di me". Ok, pratica chiusa.
"Come sei finito qua?" gli chiedo, più che con curiosità con lo stupore di avere avuto il coraggio di chiederglielo. "Non sono capace a vivere come gli altri. So rendermi veramente intollerabile. E la pazienza di quella donna a un certo punto è finita. Si è fatta una valigina e se ne è semplicemente andata via. Dopo una settimana ero sul gommone, quello che ha portato te. Certo, mi manca parecchio. Credo di averla amata tanto ma forse non è stato abbastanza. O forse mi sono ostinato nel credere che lei fosse la donna giusta. Si vede che così non era. Non ho avuto il coraggio di provare a ricominciare. Sono scappato".
Pronuncia queste parole con tono un po' ironico. Capisco bene che la ferita è ancora aperta, ancorché non recente. Chissà cosa avranno sbagliato....
Siamo scappati entrambi, quindi, ma entrambi non possiamo scappare da noi stessi.





SCAPPARE 5 -CONFIDENZE E RICORDI

"Passata è la tempesta. Odo augelli far festa". Veramente qui non si ode nulla, e stamattina anche l'onda che muore sulla riva corre silenziosamente. E' un'ondetta. Il ricordo di ieri sta sfumando e l'essere svegliato dalla luce del sole mi riempie di dolcezza. Una luce ancora gentile, come ti sei sempre sognato che dovrebbe essere la carezza del tuo amore che ti sveglia al mattino. Indugio ad alzarmi, e mi sgranchisco sistematicamente tutte le articolazioni intorpidite. Non ricordo neanche bene quanta paura ho provato, e quindi mi alzo sereno.
Dopo colazione mi metto a lavorare: voglio fare subito il piatto da portare su, ghemistà, i pomodori alla greca, ripieni di riso e verdure. Non ci vuole molto, per chi è pratico. Sono proprio belli. Dato che l'Orco non è ancora passato decido di salire su io, magari riesco a fare una carezza al gattone. A differenza di lui io busso, e con vigore. "Entra!" mi viene gridato dal di dentro. Varco l'uscio e vengo avvolto dalla nuvola del pane appena sfornato. "Oggi pomodori ripieni di riso!", esclamo con orgoglio. Mi guardo anche intorno per cercare la bestia, ma non la vedo.
"Come è andata ieri? Ti ho visto tornare di corsa". Nulla sfugge all'Orco. "Non ho mai avuto tanta paura come iersera", ascolto un poco stupito la mia risposta: quest'uomo suscita confidenza. "Ogni tanto qui capita. Vedrai, la seconda volta sarà meno paurosa."
Quest'uomo è saggio. Ha detto questa frase con un tono di sollecitudine paterna che ha mosso dentro di me qualcosa di profondo. "E comunque c'è di peggio", continua con lo stesso tono di voce, "Per esempio avere avere un infarto qui sul faro. E sedersi in poltrona ad aspettare". Stupefacente, forse mi sta prendendo in giro... "Qualche mese fa, quest'inverno, mentre stavo cenando, mi si è improvvisamente chiuso lo stomaco e ho avuto un capogiro. Mi sono seduto e nel giro di pochi minuti ho sentito un dolore lancinante alla mano sinistra". "E allora cosa hai fatto?", chiedo. "Nulla. Cosa vuoi che facessi? Qui non c'è proprio niente da fare, che non sia la manutenzione e la custodia del faro. Mi sono seduto e ho aspettato. Forse sarei morto, forse no". "Ma non avevi il satellitare?" "Certo. Ma non ho voluto usarlo". L'Orco ha voluto sfidare la morte, aspettandola tranquillamente con il suo certosino in braccio. Un coraggio da leone? L'incoscienza di un pazzo? Non sono io la persona più adatta a giudicarlo. "E adesso come stai?". "Non ho più il dolore alla mano". Sei un grande, Orco, davvero. Non sono capace a raccontare l'ironia con cui mi hai detto queste parole ma sei riuscito a farmi sorridere. Io, quando ho avuto l'infarto, ho fatto tutto quello "che si doveva fare", ma adesso capisco che avrei anche potuto fare qualcosa di diverso...
Mi prendo il mio pane fumante e me ne vado, col desiderio di abbracciarlo.
Adesso io e Lui condividiamo qualcosa. Ci penso mentre scendo la mezza scala col pane tiepido in braccio. Non ricordo poi così volentieri il mio, di infarto, anche se non posso farne a meno, visto il mezz'etto di pillole che devo sorbirmi ogni giorno. La mia paura, quella sera, non era tanto quella di morire, cose del resto semplice come l'addormentarsi, ma quella di perdere il controllo della situazione. Il mio fato benigno ha deciso di permettermi di essere sempre presente in ogni momento di quelle tre lunghe ore, tanto che alla fine mi è persino tornato un certo buonumore.

Per scacciare il ricordo mi farcisco il pane con con fagiolini, tonno e acciughe. Un uovo bollito. Due falde di peperone. Un filo d'olio. Il sale purtroppo no. E le sempre adorate erbe di Provenza. Tante, ne ho portate.


giovedì 10 luglio 2014

SCAPPARE 4: LA TEMPESTA

Così, molto semplicemente e senza esserci messi d'accordo, day by day, l'Orco mi porta il pane e io gli porto il "plat du jour". Siamo entrambi contenti, certo, ma io, non foss'altro per curiosità, vorrei che qualche volta mangiassimo insieme.
"Dare da mangiare" è il mio imperativo categorico, e in un certo senso la mia nemesi. Non solo per nutrire, ma per ricevere lode e apprezzamento, necessari come l'ossigeno che respiro. E' per questo che il cucinare solo per me stesso mi avvilisce, al punto di arrivare, talvolta, a mangiare senza cucinare. Cucinare per qualcuno invece mi riempie di gioia, e più sono le persone più mi diverto. Il mio necrologio vorrei fosse: "Nella sua amata cucina, circondato dai suoi fornelli, preparando l'ultima cena per un vasto numero di commensali, ci ha lasciato col sorriso sulle labbra..... ", ah ah ah. Chissà se qualcuno avrà il coraggio!

Oggi il mare è mosso e c'è vento. C'è caldo, è vero, ma non me la sono sentita di fare il bagno, neanche con la corda "di sicurezza". Non vorrei che la corrente decidesse, mio malgrado, di riportarmi a Buenos Ayres. Perché qui sto bene.
E' strana l'aria, pregna di umidità appiccicosa. Anche il silenzio che mi avvolge non è lo stesso degli altri giorni. Il sole lo vedo poco, avvolto da grigi nuvoloni. Meno male che il plat du jour l'ho già preparato, perché non ho nessuna voglia di cucinare. Brutto segno. L'umore è a terra. Oggi, dopo dieci giorni che sono qua, non ho voglia di fare niente, e sto accoccolato con le ginocchia fra le braccia di fronte al moletto dove ha attraccato il gommone la prima sera, su un fazzoletto sabbioso che neanche in un impeto di ottimismo chiamerei spiaggia.
Cerco di non pensare ma non ci riesco, persone, situazioni, amori, mi affollano la mente, mescolandosi fra loro e confondendomi, "Quella volta nella toilette del treno, ma con chi ero??". Ho bisogno di svuotarmelo, il cervello, non di riempirlo di fantasmi. Non riesco neanche a dormire perché mi sento dentro un'agitazione che mi scuote. Non capisco cosa ho, so solo che non vorrei star male proprio qui, per mille motivi. Mi è scappata anche la voglia di fumare. L'ultima sigaretta che ho in bocca viene spenta, con divina millimetrica precisione, da un gocciolone di acqua.
Alzando la testa mi accorgo che il cielo è quasi nero. Altre gocce, fredde e pesanti, mi cadono sulle ginocchia. Devo tornare su, rapidamente. Chissà perché mi ero fatto l'idea che in questo posto non dovesse piovere. Non potesse piovere. Invece... non ostante faccia i cento passi quasi di corsa arrivo in casa marcio, e ansimante, come se qualcuno mi avesse inseguito per ammazzarmi. Mi spoglio e mi asciugo.
Il rumore del mare incomincia ad aumentare, le onde sono alte e si rompono sugli scogli con scoppi sordi. Da dove sono, nell'open space, dovrei essere più che sicuro, ragionandoci a mente fredda: viceversa mi prende una paura incontrollabile e inarrestabile, e mi figuro quando arriverà l'onda "buona", che si porterà via faro, Orco e cuoco. Non riesco a calmarmi. Ma chi me l'ha fatta fare di venire a seppellirmi qui, a Napoli si stava tanto bene... Mi sento impotente e non riesco a tranquillizzarmi. Il rumore della pioggia battente aumenta, si fa assordante, e gli scoppi delle onde esplodono sugli scogli sempre più forti. Mi stendo sul letto, rimbecillito dalla paura. Ho paura persino ad accendere la luce. Mi rannicchio nel buio. Gli elementi si sono scatenati tutti insieme contro il faro, e dentro ci sono io.
La cosa incredibile è che non arriva quel momento in cui la tempesta accenni a diminuire, in cui puoi, anche solo un attimo, pensare "il peggio è passato". No, cresce continuamente di intensità. Ma chi mai si sarebbe potuto immaginare un simile casino? E' tutta esperienza, anche se ne avrei fatto volentieri a meno.
Non voglio andare dall'Orco, e non voglio che pensi che ho avuto paura (chissà mai perché).
Immagino, senza esserne certo, che tutto ciò debba finire. Ho persino dimenticato il mio cattivo umore: no, non l'ho dimenticato. E' finito con l'inizio della tempesta, che non accenna a diminuire.
In un barlume di lucidità comunque realizzo che se finora non si è portata via il faro è verisimile che non lo faccia più, anche se il fragore cresce continuamente. Questo pensiero mi tranquillizza un poco. Mi tiro le coperte addosso (fa freddo davvero, adesso) e finalmente chiudo gli occhi, rannicchiato in posizione fetale. Mi manca il dito in bocca, ma arriveremo anche a questo.

Quanto avrò dormito? Fuori il cielo nero continua a vomitare incredibili quantità di acqua. Dalla finestra non vedo più niente, buio totale. Ascolto gli scrosci, ritmati, delle onde sugli scogli. Tiro fuori l'orologio che quando decisi di vivere con i ritmi del sole era finito nel cassetto delle posate. Sono le nove della sera. Ho parecchia paura ancora a toccare l'interruttore della luce, per cui mi accendo una stearica, che avevo adocchiato subito al mio arrivo. La sua luce tremula e fioca cambia la fisionomia di tutto quello che mi circonda, microfaro dentro un macrofaro. Mi viene in mente il campo di tennis nella pallina di tennis, ricordo delle lezioni universitarie. Cosa mi aveva dato all'esame quel professore? Ventitre, mi sembra. Era un allievo di colui che con stolida protervia era riuscito a far perdere all'Italia quel grande ciclista. Vedi ben che sopravvivere è solo questione di fortuna. Ed essere felici è un'utopia.
Cucinare al lume di candela.
Non allestire una romantica cenetta per due ma cucinare per sedare il panico, farsi qualcosa da mangiare che abbia l'effetto di rincuorare. Una frittata mi sembra una buona idea, la frittata necessita di fantasia e attenzione. Uova, sale, ricotta, erbe di Provenza. Cipolle e patate a fette, precedentemente saltate. Ho il pane dell'Orco. Due pere belle. Se voglio dormirci sopra il Cabernet me lo devo finire tutto, non c'è santo, anche perché la frittata sarà un poco indigesta.
E' poco verisimile scriverlo, lo ammetto, ma forse mentre sto cucinando il rumore fuori diminuisce. Le gocce che cadono sui vetri si fanno via via più fini.

Domani è un altro giorno.


mercoledì 9 luglio 2014

SCAPPARE 3 - L'ORCO

Il finestrone non ha né persiane né tapparelle, e più o meno alle sei la luce irrompe nel mio nido, svegliandomi. Ho dormito un sonno profondo e ristoratore. Il primo pensiero è che dovrò organizzare la mia giornata col sorgere e col tramontare del sole. Mi aklzo quindi con gesto che vuole essere elastico e subito un coltello mi trafigge il ginocchio. Che razza di relitto sono diventato!
Metto su l'acqua del caffè, la napoletana, intesa nel senso di caffettiera, mi ha sempre seguito. Mentre mi spalmo di marmellata un triste biscotto la porta si spalanca improvvisamente e il cuore sobbalza nel petto. Eccolo, maladetto Caronte, tu mi vuoi morto! Mi volte e Caronte, complice la luce del giorno, mi appare come il nonno di Heidi. Ha in mano un meraviglioso cesto, con un pane scuro, profumato, che emette ancora un filo di fumo. Uno spettacolo, almeno per chi si occupa di cucina, commovente. Posa il pane sul tavolo e senza una parola se ne va, sbattendo la porta (se vi fosse il bisogno di ricordarlo). Immagino, con buon grado di approssimazione,che sotto i baffi stesse ridendo. Presto imparerò che l'Orco, d'ora in poi così lo voglio chiamare, non bussa mai e sbatte sempre la porta.
Sarebbe sciocco non approfittare della situazione, per cui abbandono il triste biscotto e attacco il pane, con lo stesso desiderio con cui bacerei una donna formosa. Come si fa a giudicare la bontà del pane? Nulla di più semplice. Se il pane è davvero buono non ti viene il desiderio di mangiarci qualcosa assieme. E questo pane caldo, di grano duro, l'ho riconosciuto, ha una mollica profumata e gustosa. L'alveolatura è perfetta e il retrogusto lievemente acido rivela l'uso della pasta madre, che l'Orco conserverà gelosamente in qualche madia. Lo inzuppo nel caffè e assaporo anche la crosta, ammorbidita.
Uno dei belli dell'isola col faro, i cui sei praticamente solo, è il poter prescindere dall'abbigliamento. Quello che hai addosso va bene per qualsiasi attività tu faccia, e per qualsiasi essere animato che ti capita di incontrare (l'Orco).
Per cui, sazio di pane, esco dal faro con l'idea di fare un giro dell'isola, per rendermi conto bene di dove sono finito.
Forse sarebbe stato più semplice che io salissi in cima al faro, e sporgendomi un poco avrei potuto in un attimo rendermi conto su che razza di scoglio sperduto sono finito. Ma non sarebbe stato divertente, ovvio. Esco dall'uscio del faro, quello senza battaglio, e giro dietro, incominciando a camminare. Il sentiero è in salita, a malapena visibile, bordato da lunghi steli di finocchio selvatico (le sarde!! come farò a trovarle?). Ben presto la salita diventa scoscesa. Non ci sono alberi e il sole picchia. Meno male che mi sono portato la paglia. Arrivo, dopo una mezzora di cammino (ma forse esagero) in una specie di terrazzo, da cui finalmente posso vedere cosa c'è dietro il faro, di cui vedo soltanto la sommità. Terra, massi, sassi. Un diffuso colore grigiastro e marrone chiaro, che digrada più dolcemente rispetto all'erta che ho dovuto fare per arrivare fin qua. Non insediamenti umani (meno male!), foss'anche uno stupido ovile. Mi sorge spontanea la domanda: "Ma da quanto tempo è qui, l'Orco?". Non saprei rispondermi, a questo punto. Del resto quello che volevo io era proprio la solitudine (ma Lei pensa che io non sia da solo!) ma guardando da qui il mare "per poco il cor non si spaura". Magari una piccola nave, anche all'orizzonte. Nulla.
Ritorno sui miei passi con un po' di malinconia. So bene che esiste un mondo ma in questo momento lo sento troppo lontano. Anche l'Orco mi dà l'impressione di non appartenervi più.

La passeggiata mi ha messo addosso il sentimento della fame, e, contestuale, il desiderio di cucinare. Ritorno quindi ai miei amati fornelli: c'è qualcosa in essi che non mi deluderà mai. Le provviste che mi sono portato mi permettono menu molto variati e quindi ho solo l'imbarazzo della scelta. Però vorrei cucinare qualcosa di carino, anche perché voglio ricambiare il pane di stamattina. Lui non può sapere che io sono cuoco. O no? Può darsi che l'Orco sappia tutto.
Nel giro di un'ora la pasta al forno che ho immaginato in cuor mio è pronta. Il forno ha lavorato bene. Che ora potrebbe essere? E a che ora mangerà l'Orco?
Con queste domande riempio una scodella di pasta e la avvolgo con un torchon, annodandolo ai quattro angoli. Apro la porta e incomincio a salire le restanti mezze scale.
Busso, timidamente, e non ottengo risposta. E allora, senza starci troppo a pensare, do un pugno alla porta, forse troppo forte, non so. Fatto sta che l'uscio si socchiude. Lo intravedo, seduto su una poltrona, mi dà le spalle. "Ti ho portato u po' di pasta per il pranzo", esordisco entrando, e tralascio volutamente convenevoli e saluti. Il silenzio è la mia risposta. Per un attimo mi guardo intorno. La luce che inonda il locale è assordante. Lui è immobile. Fosse morto? Voglio vederci chiaro. Avanzo quel tanto che basta e capisco tutto in un batter d'occhi.
Sulle sue gambe è accoccolato un meraviglioso gatto certosino, che si prende con immenso godimento le grattatine che lui gli fa con l'indice della destra sotto il mento. Nulla in lui si muove, a parte l'indice.
Simbiosi è la parola che mi viene in mente. Guardandoli non capisco chi dà e chi riceve, e questo mi intriga da morire. La sua sigaretta brucia lentamente sul posacenere e il filo di fumo sale verticale con piccole volute. La parola chiave è "estasi" e "pace", e partecipa di entrambe pur non essendo né l'una né l'altra. Poso l'involto con delicatezza sul tavolo perché non voglio disturbare ed esco, un poco invidioso.

TO BE CONTINUED






SCAPPARE 2 - IL FARO

Non si sta male in Argentina.
Qui dove lavoro ti puoi accumulare le ferie e io l'ho fatto. Parto oggi. Un gommone mi aspetta in porto e mi condurrà al faro di Sao Paulo, 60 miglia al largo di Buenos Ayres.
Parto da solo perché voglio stare da solo, novello Robinson: la spesa l'ho fatta con la più assoluta meticolosità, non solo perché sono cuoco ma perché un soggiorno lungo richiede un'alimentazione precisa. Arrivo quindi in porto col mio carrello. Lo scafista è già lì che mi aspetta, ed esprime una certa impazienza. Dopo aver caricato il cibo mi comunica che il viaggio durerà circa tre ore, se il mare non sarà mosso. Mi accovaccio e gli faccio un cenno di consenso alla partenza.
Intanto che usciamo dal porto rifletto su questa nuova avventura. Lei non ha capito, del resto me lo aspettavo, e quando le ho detto che sarei andato su un faro abbastanza sperduto nell'Oceano Atlantico si è incazzata di brutto. Mi ha detto che se lo avessi fatto mi avrebbe lasciato. Quanti anni sono che condividiamola stessa casa? Cinque, forse, non ricordo bene, e non sono certo che al ritorno la ritroverò. Forse siamo già arrivati al capolinea, o forse vuole solo scendere a una fermata intermedia per poi risalire a una delle successive, per proseguire il viaggio sempre sulla stessa linea.
Siamo partiti verso le cinque del pomeriggio: l'ultimo giorno è il peggiore, ed è quello in cui ti assale il panico di non riuscire a fare tutte le cose che sai di dover fare.
Alle sette è già scuro. Il mio nocchiero è sicuro al timone, e fuma anche lui, certe sigarette puzzolenti.... ma io assaporo lo stesso questa corsa in mare. Nulla intorno a noi, che non sia questa nera distesa di acqua bituminosa, che mi allontana dalla routine.
Arrivo con dieci minuti di anticipo. Siamo già d'accordo che tornerà a prendermi solo dopo espressa chiamata, ed è per questo che mi sono portato il satellitare.
E' buio, e il profilo del faro si staglia nella notte, con il suo segnale ritmato, che mi incanta. Quante vite avrà salvato? Cento passi saranno dall'attracco al faro, e farli col mio carrello non è stato poi così agevole.
Il portone, come nei bassi di Napoli, non ha sonaglio né campanello, per cui devo riempirlo di pugni. Un quarto d'ora mi fa aspettare il mio ospite, durante il quale penso che, al limite, potrei anche costruirmi una capanna. Alla fine scende, gridando con voce rauca e vecchia "Arrivo, arrivo". Apre la porta ma non mi porge la mano. "Un vecchio bianco per antico pelo" mi viene subito in mente, è più forte di me. L'età non è definibile. E' nato qui e qui morirà, in un tutt'uno col suo faro. Non c'è neanche bisogno che gli dica chi sono, chi mai avrebbe l'insano desiderio di seppellirsi in mezzo al mare? Mi accompagna al mio appartamento, che è a metà dell'altezza del faro. Se penso che dovrò portarmi su il carrello, poco per volta, certo, mi tremano le gambe.
Ma il viaggio è valso la pena! Ho un open space con un finestrone enorme che occupa almeno un terzo della circonferenza del faro, dal quale vedo un mare nero di cui indovino il continuo movimento, solcato, dopo pause precise, dalla spada del fascio di luce. Uno spettacolo che mi lascia ammutolito. Del resto lui tace...
Il letto, il tavolo, la seggiola. Il frigorifero potrebbe essere meglio. La cucina a gas non è male, ha il forno come mi ero caldamente raccomandato.
Qui non ho bisogno di null'altro, in un contesto ancor più essenziale di quello di Le Corbusier. Per sentirmi davvero a casa tiro fuori i miei coltelli e li sistemo a un angolo del tavolo.
Il burbero malefico si raccomanda in malo modo di non essere chiamato se non in caso di malore, tanto io non lo chiamerei neanche morto. Son venuto qui per stare da solo, figuriamoci. Esce, sbattendo la porta. Ha vinto il "campionato simpatia 2011", ne sono certo.
Eccomi, finalmente solo come volevo, lontano dal mondo. Posso fare ciò che desidero, posso dormire tre giorni filati, posso mangiare mezzo kilo di pasta in una volta sola. Invece bisogna che osservi un preciso ruolino di marcia, perché voglio che le mie giornate siano dense di tutte le belle cose che ho l'intenzione di fare. Due uova al bacon celebrano questi miei propositi. Sorseggiando il Cabernet cileno che mi sono portato mi avvicino, con rispetto, alla finestra. Quello che vedo mi lascia davvero senza parole. Siedo e guardo in silenzio. Non so quanto sono rimasto a contemplare questo mare, volutamente non ho guardato l'orologio.
Con i baffi impregnati di fumo me ne vado a letto, che ha ruvide lenzuola di lino che mi ricordano i miei primi dieci anni.
Dal letto vedo il bagliore del faro, che mi accompagna nel sonno, dopo una giornata così piena di novità.
TO BE CONTINUED



martedì 8 luglio 2014

SCAPPARE - 1


Mezzora fa ho salito la scaletta. Per non vedere Napoli per l'ultima volta sono andato di corsa in cabina, e scrivo dando le spalle all'oblò. Sto ancora tremando e mi sento una tenaglia nel petto. Faccio qualcosa di cui non posso fare a meno ma che nello stesso tempo mi induce un dolore terribile. Non lascio cose materiali rilevanti, il contenuto della mia scrivania sarà la cosa di maggiore valore. Lascio affetti, che poi sono persone, ancora ignare, per poco, di questa fuga da ladro. Come potranno capire se io stesso faccio fatica a capire? A un tratto ho deciso di seguire il vento, o forse il vento mi ha chiamato, e non c'è stato più verso. Giorno e notte questo vento mi ha fischiato nelle orecchie, ricordandomi che non avevo scelta. Quanto gli ho resistito? Non molto, solo qualche mese. I miei figli capiranno. Lei non lo so, ma me ne preoccupo meno. E i parenti non sono poi così importanti. Qualche amico ci resterà di sasso, qualche altro, in buona fede, penserà: "Ne ero sicuro, è proprio il tipo da fare queste cose".
Non so cosa mi aspetta a Buenos Ayres ma so che non sarà facile ricominciare, anche se mi han detto che in Argentina c'è lo spazio per chi vuole lavorare con impegno. Ho un vecchio mestiere che faccio da tanti anni. Ho un nuovo mestiere, che è una passione coltivata da tanti anni: quale dei due mi darà da mangiare?
Pensieri di attesa e di speranza mi affollano il cuore, oltre a pensieri di distruzione e di morte, la mia, naturalmente, che ben presto mi verrà da tanti augurata con tuttoil cuore.
Non mi sono neanche accorto che la nave è partita, e dall'oblò Napoli sta sfumando, negli occhi e nel ricordo.
Che cosa abbiamo sbagliato? Nei momenti più bui della vita, adesso che sono passati, aver vicino lei li ha resi più sopportabili. Eppure qualcosa non ha funzionato. Tre figli sono la famiglia che abbiamo costruito, ed è stato bello. Ma qualcosa non deve avere funzionato. Giorno dopo giorno si è allargato fra di noi uno spazio che a un certo momento non è stato più colmabile. Forse anche fare tre figli è stato uno sbaglio, a questo punto non sono più sicuro di niente.
Quante sono le persone che, in analoga difficoltà, non si siano regolate così drasticamente? Me ne vengono in mente almeno cinque. Non persone insensibili, né particolarmente cattive, uomini normali che a un certo punto se ne sono andati "semplicemente" di casa, si sono staccati, e hanno provato a ricostruirsi una vita, talora con risultati peggiori di quelli da cui erano partiti. Gente che non per questo si è sentita così disprezzabile da sentire il bisogno impellente di scappare il più lontano possibile, per lasciarsi dietro il rancore e la tristezza. Beh, la tristezza me la porterò dietro fino all'ultimo respiro, ovvio. L'incertezza no.
Ricominciare. E' da questa parole che potrebbe nascere tutto.
Da piccolo, sei o sette anni, avevo scoperto la macchina da scrivere. oggetto meraviglioso, con la capacità di scrivere "in bella scrittura", capacità enormemente ambita da chi riusciva a rovinarsi ogni fine settimana perché il sabato a pranzo portava a casa quaderni con lunghe note di demerito, per "cattiva scrittura". Un giorno decisi quindi di ricopiare una poesia, forse per farla vedere a Lui e ricavarne una lode. La ricordo molto bene: "Ovunque il guardo io giro, ecc. ecc". Metastasio.
Ma a sette anni non avevo fatto i conti con l'oste: l'oggetto aveva sue regole e impararlenon era proprio semplice, richiedeva per lo meno un po' di addestramento, per cui incominciavo a scrivere ma, inevitabilmente, scappava qualche errore, o di parola storpiata o di mancata spaziatura. E ciò non era tollerabile, se tutto avrebbe dovuto essere perfetto.
Motivo per cui, con ginnico gesto, il foglio volava fuori dalla macchina e volava il cima alla libreria. E così uno dopo l'altro. Non ricordo per quanto tempo ma diciamo che dopo mezz'ora rinunciai a ricopiare Metastasio. Che poi non è questo gran poeta.
Quando le palline di carta saltarono fuori, con scritta una o mezza riga con qualche piccolo errore nessuno comprese e nessuno spiegò.
Un'altra delle mie fissazioni è quella di ricominciare l'Università. Ma proprio dall'inizio, e, naturalmente, fruendo dell'esperienza accumulata in questi anni di professione. Sarei uno studente perfetto, capirei ogni spiegazione alla prima e avrei u curriculum studiorum più che lodevole. Invece mi porto il cruccio di non avere imparato tutto quello che potevo e dovevo, di essere inadeguato.
Comunque ho ricominciato ad andare a scuola, un'altra, e non ostante la precedente risalga a quasi quaranta anni fa, inseguo la maturità, in ogni senso.

Ormai dall'oblò si vede soltanto mare, e il sole sta velocemente avvicinandosi alla linea dell'orizzonte. Se a Dante veniva la malinconia figuriamoci a me.... quandosmetto di piangere è buio. Il rumore delle macchine è sordo e continuo.
E se affondassimo? L'esperienza del naufragio mi manca, e potrebbe modificare in meglio il mio carattere e il mio atteggiamento verso la vita. Magari salverei qualcuno, o qualcuno salverebbe me, ignaro del gran torto che starebbe facendo all'umanità. Magari salverei una donna bellissima, che mi sarà riconoscente per il resto della vita. Una meravigliosa bambola, con due gambe da urlo e con un cespuglio bruno in testa, semprein disordine. O magari, cosa anche più probabile, rinuncerei a salire su una scialuppa per fare posto a un bambino, ancorché brutto e antipatico, solo per rivivere una scena di Capitani Coraggiosi con Spencer Tracy. Ho sempre adorato i beau gestes, e sarei capace di rinunciare persino alla vita. Solo per una bambino, ovvio.
Esco, per lasciare in cabina questi pensieri un poco oziosi. I ristoranti della nave sono ormai vuoti ei camerieri preparano, con mosse precise, la sala per il breakfast di domattina. Chiedo di entrare in cucina e mi presento come un "collega". Lo chef di turno è simpatico, e mi fa preparare due sandwich di pollo. Ci volevano....
L'essere colleghi stabilisce immediatamente un punto d'incontro che non voglio perdere. Ci sediamo in un angolo della sala. L'avere davanti un estraneo mi invoglia a raccontargli quello che ho combinato. Gli scappa da ridere e fa sorridere anche me. Ma ride senza cattiveria.
"Vuoi lavorare in una cucina a Buenos Ayres?" mi domanda, improvvisamente serio. "Certo!". Non so neanche come si chiami, ed è per questo che mi affido a lui. Mi fido di uno sconosciuto. Fiuto o follia? Non lo so proprio.
E così parto solo come un cane e viaggiando trovo un amico. Enzo, si chiama. E' un po' più giovane di me, anche più normale di me. Dopo i pasti ci sediamo tranquilli in sala, al solito tavolo, lui con la sua bella divisa e io con i calzoncini da turista, e ci raccontiamo le nostre vite, accompagnandole con tante sigarette. Lui se le arrotola, io le compero già fatte. So che non dovrei fumare ma questo è un momento difficile. Non tutti sono in grado di capire che aiutano. Ogni tanto i nostri discorsi vengono interrotti dai capipartita, che chiedono istruzioni. Enzo risponde a tutti con cordialità e precisione. E' un bravo capo, vuole che i suoi crescano. Non come il mio...
Questi sette giorni volgono al termine. A Buenos Ayres, grazie ai buoni uffici di Enzo, mi aspettano già. Inizierò come chef tournant e sarà l'occasione per dimostrare cosa so fare. Certo, dovrò anche trovarmi un posto per dormire, ma il lavoro prima di tutto. Sono contento, moderatamente.
Chissà, forse troverò una donna, forse ricomincerò, forse farò gli stessi errori, anzi sicuramente.
Mi addormento con queste paure e queste speranze.. Domattina alle otto entreremo mel porto di Buenos Ayres. Tanti auguri.


TO BE CONTINUED

Happy hour


Devo dire che adoro i bar. Fra le tante cose che adoro i bar occupano un posto privilegiato.
Forse, se non fossi nato in città, è probabile che avrei consumato i miei giorni in un'osteria di paese, travolto da quei crudeli giochi di carte in cui chi perde beve e chi beve inevitabilmente continua a perdere, circondato dalle risa di scherno di finti amici e dalla complicità cattiva dell'oste. Il disgraziato di turno, terminata la tortura, esce malfermo nel buio e non trova più la sua casa, per forza vuota, e si stende per terra con la testa su uno scalino, non capendo di essere a tre metri dall'uscio, anzi credendo di essersi perso. Infine un pietoso sonno lo accoglie, vuoto, non dopo qualche lacrima da ubriaco.
Ma io adoro i bar lo stesso, quei bei bar cittadini, lucidati a specchio da barman impeccabili e con un sorriso aperto, forse ancor più cattivi dell'oste di paese ma infinitamente più eleganti, dove l'aperitivo diventa l'apericena, splendida, specie per chi sa già che a casa non troverà nessuno. Anche se il più delle volte l'apericena è veramente modesta, se non cattiva. Un'apericena di avanzi del mezzogiorno. Del resto l'uomo è capace di accontentarsi molto di più delle bestie, e l'illusione di incontrare il compagno della vita, al bar poi, può ben far mandare giù certi bocconi amari, o certi tramezzini stantii e indigeribili.

Appunto iersera mi trovavo a celebrare l'happy hour, solo, certo, ma estremamente ben disposto verso il mio prossimo. L'ultima mia scoperta è un baretto del centro, con un interno invero modesto ma con otto tavolini fuori: tavolini old style, rotondi e con tre gambe, di alluminio. Tavolini che a malapena accolgono il vassoio di plastica con la réclame della Peroni. Non un'apericena sontuosa a più portate, troppo simili a un ristorante, anche nei ritardi.
Patatine fritte invece, appena discellophanate, olive calabresi, buone e piccanti e un tumblerone di Campari ben ghiacciato. Quanto può bastare per la felicità di un attimo.
La posizione dei tavolini è sicuramente strategica per un'attività che appaga profondamente il mio io: guardare, e soprattutto ascoltare il mondo, senza che il mondo se ne accorga. Spiare senza essere riconosciuto come spione. E' divertente, ed è anche lo spunto per scrivere pensieri che diventano le mie storie.
Ogni donna che mi passa davanti diventa oggetto di esame rapido ma fotografico, finalizzato al confronto con un canone di bellezza che non è neanche mio ma solo imposto da chi pilota l'immaginazione collettiva, che ci racconta, a partire dalla Venere di Milo, come deve essere la donna "bella". Mi sforzo di andare al di là di questa "bellezza" e mi crogiolo in riflessioni ulteriori, cercando di immaginare caratteri e storie della vita, e in questa attività trasferisco in altri umani porzioni belle e brutte di me stesso, dandogli diritto di asilo alla coscienza, sia pur per attimi. Talvolta non sono fantasmi piacevoli, bastevoli soltanto ad evocare un dolore nuovo. Devo essere masochista, credo.

Si sono fermati di fronte al bar due vecchi: vecchio è una parole un po' grossa, del resto vecchio è chi muore. 130 anni in due mi sembra un'ottima approssimazione. Non li sento ma capisco tutto: saranno a due metri da me. Anche lui vuole celebrare l'happy hour e lei dice sì, certo, ma da come aggrotta le sopracciglia si capisce che non ne ha poi tanta voglia. La spunta lui, questa volta, e si siedono rispetto a me perfettamente visibili, e udibili quel tanto che basta.
Lui, soddisfatto, le porge la sedia dal di dietro e lei si accomoda con una certa affettazione, carina però, e del tutto coerente con il personaggio. Si siede anche lui: sono entrambi equidistanti da me. Bene. Se fossi un cane drizzerei le orecchie ma se fossi un cane mi divertirei certo meno.
La ragazza del bar, svogliata, si presenta nel giro di cinque minuti, nei quali entrambi sono stati in silenzio. Lui deve essere stato un tipo da Negroni, ne ha l'habitus, anche se oggi si limita a ordinare un più modesto Spritz. Lei ordina bollicine. Entrambi aspettano con grande interesse gli appetizers e i loro volti, quando arrivano, non celano una piccola delusione. Ma le olive sono squisite. Sorseggiano. Si guardano negli occhi e si guardano intorno. Chissà la loro storia. L'aria che hanno è serena e il loro sguardo è sincero. Da quanto tempo saranno insieme? Sposati? Amanti? Fra loro ci saranno state terribili burrasche? Più li guardo e più cerco di penetrare il loro cuore, per portargli via quella cosa che loro hanno e io continuo a cercare......
Si rubano le olive a vicenda, e lui le conta i noccioli che lei ha davanti nel piattino, trovandole da ridire con finta asprezza. Lei sogghigna, certa ancora adesso, dopo tanti anni, di potersi permettere di fargli questi piccoli torti, e nega l'evidenza con spudorata naturalezza, e gli dice che non è vero che gli ha mangiato tutte le olive, e che se ne faccia portare ancora un po', e che cosa sarà mai, infine ci sono anche le patatine.....
Lui è ancora innamorato di questa donna, lo capisco persino io. Lo capisco da come la guarda, da come le teneva la mano quando sono arrivati e da come la rimprovera sorridendo. C'è una colla, che io non conosco, che tiene legati questi due personaggi, colla più forte di qualsiasi cosa.
Sto incominciando a sentirmi come un cane rabbioso, e vorrei ordinarmi un Negroni da bere tutto d'un fiato, per annegare l'invidia profonda che mi suscitano questi due, del resto poco più grandi di me. Ma non dico e non faccio niente: mi hanno ipnotizzato.
Quanto sarà che sono seduti? Poco, non più di un quarto d'ora, han quasi finito le loro bevande.
Anche loro hanno il mio stesso vizio, osservano con identico interesse la gente che passa. Condividono poi commenti e riflessioni, e in questo loro condividere c'è forse l'essenza dell'ammore.
Come vi posso chiamare per non dimenticarvi? Vi chiamerò Blondie e Dagoberto, perché come nel fumetto, siete sempre giovani, e perché, come nel fumetto forse non esistete.