mercoledì 9 luglio 2014

SCAPPARE 3 - L'ORCO

Il finestrone non ha né persiane né tapparelle, e più o meno alle sei la luce irrompe nel mio nido, svegliandomi. Ho dormito un sonno profondo e ristoratore. Il primo pensiero è che dovrò organizzare la mia giornata col sorgere e col tramontare del sole. Mi aklzo quindi con gesto che vuole essere elastico e subito un coltello mi trafigge il ginocchio. Che razza di relitto sono diventato!
Metto su l'acqua del caffè, la napoletana, intesa nel senso di caffettiera, mi ha sempre seguito. Mentre mi spalmo di marmellata un triste biscotto la porta si spalanca improvvisamente e il cuore sobbalza nel petto. Eccolo, maladetto Caronte, tu mi vuoi morto! Mi volte e Caronte, complice la luce del giorno, mi appare come il nonno di Heidi. Ha in mano un meraviglioso cesto, con un pane scuro, profumato, che emette ancora un filo di fumo. Uno spettacolo, almeno per chi si occupa di cucina, commovente. Posa il pane sul tavolo e senza una parola se ne va, sbattendo la porta (se vi fosse il bisogno di ricordarlo). Immagino, con buon grado di approssimazione,che sotto i baffi stesse ridendo. Presto imparerò che l'Orco, d'ora in poi così lo voglio chiamare, non bussa mai e sbatte sempre la porta.
Sarebbe sciocco non approfittare della situazione, per cui abbandono il triste biscotto e attacco il pane, con lo stesso desiderio con cui bacerei una donna formosa. Come si fa a giudicare la bontà del pane? Nulla di più semplice. Se il pane è davvero buono non ti viene il desiderio di mangiarci qualcosa assieme. E questo pane caldo, di grano duro, l'ho riconosciuto, ha una mollica profumata e gustosa. L'alveolatura è perfetta e il retrogusto lievemente acido rivela l'uso della pasta madre, che l'Orco conserverà gelosamente in qualche madia. Lo inzuppo nel caffè e assaporo anche la crosta, ammorbidita.
Uno dei belli dell'isola col faro, i cui sei praticamente solo, è il poter prescindere dall'abbigliamento. Quello che hai addosso va bene per qualsiasi attività tu faccia, e per qualsiasi essere animato che ti capita di incontrare (l'Orco).
Per cui, sazio di pane, esco dal faro con l'idea di fare un giro dell'isola, per rendermi conto bene di dove sono finito.
Forse sarebbe stato più semplice che io salissi in cima al faro, e sporgendomi un poco avrei potuto in un attimo rendermi conto su che razza di scoglio sperduto sono finito. Ma non sarebbe stato divertente, ovvio. Esco dall'uscio del faro, quello senza battaglio, e giro dietro, incominciando a camminare. Il sentiero è in salita, a malapena visibile, bordato da lunghi steli di finocchio selvatico (le sarde!! come farò a trovarle?). Ben presto la salita diventa scoscesa. Non ci sono alberi e il sole picchia. Meno male che mi sono portato la paglia. Arrivo, dopo una mezzora di cammino (ma forse esagero) in una specie di terrazzo, da cui finalmente posso vedere cosa c'è dietro il faro, di cui vedo soltanto la sommità. Terra, massi, sassi. Un diffuso colore grigiastro e marrone chiaro, che digrada più dolcemente rispetto all'erta che ho dovuto fare per arrivare fin qua. Non insediamenti umani (meno male!), foss'anche uno stupido ovile. Mi sorge spontanea la domanda: "Ma da quanto tempo è qui, l'Orco?". Non saprei rispondermi, a questo punto. Del resto quello che volevo io era proprio la solitudine (ma Lei pensa che io non sia da solo!) ma guardando da qui il mare "per poco il cor non si spaura". Magari una piccola nave, anche all'orizzonte. Nulla.
Ritorno sui miei passi con un po' di malinconia. So bene che esiste un mondo ma in questo momento lo sento troppo lontano. Anche l'Orco mi dà l'impressione di non appartenervi più.

La passeggiata mi ha messo addosso il sentimento della fame, e, contestuale, il desiderio di cucinare. Ritorno quindi ai miei amati fornelli: c'è qualcosa in essi che non mi deluderà mai. Le provviste che mi sono portato mi permettono menu molto variati e quindi ho solo l'imbarazzo della scelta. Però vorrei cucinare qualcosa di carino, anche perché voglio ricambiare il pane di stamattina. Lui non può sapere che io sono cuoco. O no? Può darsi che l'Orco sappia tutto.
Nel giro di un'ora la pasta al forno che ho immaginato in cuor mio è pronta. Il forno ha lavorato bene. Che ora potrebbe essere? E a che ora mangerà l'Orco?
Con queste domande riempio una scodella di pasta e la avvolgo con un torchon, annodandolo ai quattro angoli. Apro la porta e incomincio a salire le restanti mezze scale.
Busso, timidamente, e non ottengo risposta. E allora, senza starci troppo a pensare, do un pugno alla porta, forse troppo forte, non so. Fatto sta che l'uscio si socchiude. Lo intravedo, seduto su una poltrona, mi dà le spalle. "Ti ho portato u po' di pasta per il pranzo", esordisco entrando, e tralascio volutamente convenevoli e saluti. Il silenzio è la mia risposta. Per un attimo mi guardo intorno. La luce che inonda il locale è assordante. Lui è immobile. Fosse morto? Voglio vederci chiaro. Avanzo quel tanto che basta e capisco tutto in un batter d'occhi.
Sulle sue gambe è accoccolato un meraviglioso gatto certosino, che si prende con immenso godimento le grattatine che lui gli fa con l'indice della destra sotto il mento. Nulla in lui si muove, a parte l'indice.
Simbiosi è la parola che mi viene in mente. Guardandoli non capisco chi dà e chi riceve, e questo mi intriga da morire. La sua sigaretta brucia lentamente sul posacenere e il filo di fumo sale verticale con piccole volute. La parola chiave è "estasi" e "pace", e partecipa di entrambe pur non essendo né l'una né l'altra. Poso l'involto con delicatezza sul tavolo perché non voglio disturbare ed esco, un poco invidioso.

TO BE CONTINUED






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