martedì 8 luglio 2014

Happy hour


Devo dire che adoro i bar. Fra le tante cose che adoro i bar occupano un posto privilegiato.
Forse, se non fossi nato in città, è probabile che avrei consumato i miei giorni in un'osteria di paese, travolto da quei crudeli giochi di carte in cui chi perde beve e chi beve inevitabilmente continua a perdere, circondato dalle risa di scherno di finti amici e dalla complicità cattiva dell'oste. Il disgraziato di turno, terminata la tortura, esce malfermo nel buio e non trova più la sua casa, per forza vuota, e si stende per terra con la testa su uno scalino, non capendo di essere a tre metri dall'uscio, anzi credendo di essersi perso. Infine un pietoso sonno lo accoglie, vuoto, non dopo qualche lacrima da ubriaco.
Ma io adoro i bar lo stesso, quei bei bar cittadini, lucidati a specchio da barman impeccabili e con un sorriso aperto, forse ancor più cattivi dell'oste di paese ma infinitamente più eleganti, dove l'aperitivo diventa l'apericena, splendida, specie per chi sa già che a casa non troverà nessuno. Anche se il più delle volte l'apericena è veramente modesta, se non cattiva. Un'apericena di avanzi del mezzogiorno. Del resto l'uomo è capace di accontentarsi molto di più delle bestie, e l'illusione di incontrare il compagno della vita, al bar poi, può ben far mandare giù certi bocconi amari, o certi tramezzini stantii e indigeribili.

Appunto iersera mi trovavo a celebrare l'happy hour, solo, certo, ma estremamente ben disposto verso il mio prossimo. L'ultima mia scoperta è un baretto del centro, con un interno invero modesto ma con otto tavolini fuori: tavolini old style, rotondi e con tre gambe, di alluminio. Tavolini che a malapena accolgono il vassoio di plastica con la réclame della Peroni. Non un'apericena sontuosa a più portate, troppo simili a un ristorante, anche nei ritardi.
Patatine fritte invece, appena discellophanate, olive calabresi, buone e piccanti e un tumblerone di Campari ben ghiacciato. Quanto può bastare per la felicità di un attimo.
La posizione dei tavolini è sicuramente strategica per un'attività che appaga profondamente il mio io: guardare, e soprattutto ascoltare il mondo, senza che il mondo se ne accorga. Spiare senza essere riconosciuto come spione. E' divertente, ed è anche lo spunto per scrivere pensieri che diventano le mie storie.
Ogni donna che mi passa davanti diventa oggetto di esame rapido ma fotografico, finalizzato al confronto con un canone di bellezza che non è neanche mio ma solo imposto da chi pilota l'immaginazione collettiva, che ci racconta, a partire dalla Venere di Milo, come deve essere la donna "bella". Mi sforzo di andare al di là di questa "bellezza" e mi crogiolo in riflessioni ulteriori, cercando di immaginare caratteri e storie della vita, e in questa attività trasferisco in altri umani porzioni belle e brutte di me stesso, dandogli diritto di asilo alla coscienza, sia pur per attimi. Talvolta non sono fantasmi piacevoli, bastevoli soltanto ad evocare un dolore nuovo. Devo essere masochista, credo.

Si sono fermati di fronte al bar due vecchi: vecchio è una parole un po' grossa, del resto vecchio è chi muore. 130 anni in due mi sembra un'ottima approssimazione. Non li sento ma capisco tutto: saranno a due metri da me. Anche lui vuole celebrare l'happy hour e lei dice sì, certo, ma da come aggrotta le sopracciglia si capisce che non ne ha poi tanta voglia. La spunta lui, questa volta, e si siedono rispetto a me perfettamente visibili, e udibili quel tanto che basta.
Lui, soddisfatto, le porge la sedia dal di dietro e lei si accomoda con una certa affettazione, carina però, e del tutto coerente con il personaggio. Si siede anche lui: sono entrambi equidistanti da me. Bene. Se fossi un cane drizzerei le orecchie ma se fossi un cane mi divertirei certo meno.
La ragazza del bar, svogliata, si presenta nel giro di cinque minuti, nei quali entrambi sono stati in silenzio. Lui deve essere stato un tipo da Negroni, ne ha l'habitus, anche se oggi si limita a ordinare un più modesto Spritz. Lei ordina bollicine. Entrambi aspettano con grande interesse gli appetizers e i loro volti, quando arrivano, non celano una piccola delusione. Ma le olive sono squisite. Sorseggiano. Si guardano negli occhi e si guardano intorno. Chissà la loro storia. L'aria che hanno è serena e il loro sguardo è sincero. Da quanto tempo saranno insieme? Sposati? Amanti? Fra loro ci saranno state terribili burrasche? Più li guardo e più cerco di penetrare il loro cuore, per portargli via quella cosa che loro hanno e io continuo a cercare......
Si rubano le olive a vicenda, e lui le conta i noccioli che lei ha davanti nel piattino, trovandole da ridire con finta asprezza. Lei sogghigna, certa ancora adesso, dopo tanti anni, di potersi permettere di fargli questi piccoli torti, e nega l'evidenza con spudorata naturalezza, e gli dice che non è vero che gli ha mangiato tutte le olive, e che se ne faccia portare ancora un po', e che cosa sarà mai, infine ci sono anche le patatine.....
Lui è ancora innamorato di questa donna, lo capisco persino io. Lo capisco da come la guarda, da come le teneva la mano quando sono arrivati e da come la rimprovera sorridendo. C'è una colla, che io non conosco, che tiene legati questi due personaggi, colla più forte di qualsiasi cosa.
Sto incominciando a sentirmi come un cane rabbioso, e vorrei ordinarmi un Negroni da bere tutto d'un fiato, per annegare l'invidia profonda che mi suscitano questi due, del resto poco più grandi di me. Ma non dico e non faccio niente: mi hanno ipnotizzato.
Quanto sarà che sono seduti? Poco, non più di un quarto d'ora, han quasi finito le loro bevande.
Anche loro hanno il mio stesso vizio, osservano con identico interesse la gente che passa. Condividono poi commenti e riflessioni, e in questo loro condividere c'è forse l'essenza dell'ammore.
Come vi posso chiamare per non dimenticarvi? Vi chiamerò Blondie e Dagoberto, perché come nel fumetto, siete sempre giovani, e perché, come nel fumetto forse non esistete.


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