lunedì 11 febbraio 2013

Ignoto militi


Tante volte la mamma mi ha fatto vedere quel documentario, quello del treno che ha trasportato il soldato sconosciuto morto, da Aquileia a Roma, e tutta l'Italia al passaggio lo salutava. Con lui se ne sono andate le speranze di una generazione di italiani, perché i regnanti europei si volevano fare i dispetti. Bastardi.
Io sono cresciuto così, col sentimento del ricordo e col desiderio di non far piangere mai la mamma. Non è stato facile, specie quelle sere accanto al fuoco, mentre facevo i compiti, e la mamma, mentre faceva la calza o rammendava, a momenti si fermava, e dagli occhi che guardavano lontano incominciavano a sgorgare copiose le lacrime. La abbracciavo forte allora, ma capivo di non poter consolare il suo dolore con i miei baci. Il babbo, il Dottore, come lo ha sempre chiamato in mia presenza, non l'ho conosciuto.
Lei l'ha conosciuto quando è venuto a fare il medico condotto nel paese vicino, con la famiglia, e gli ha donato la sua giovinezza. Non posso sapere nulla di questo amore, che per parte della mamma è stato assoluto e incondizionato. So che quando lei è rimasta incinta lui è semplicemente scomparso. Solo una piccola rimessa mensile è stata il simbolo del ricordo. Oggi non sarebbe più così, ma a quel tempo la mamma non disse una parola e accettò, solo per me, di essere esclusa dalla vita di lui. Morì tanti anni dopo, senza mai aver proferito una parola cattiva verso quell'uomo che le aveva dato le cose più belle e le cose più brutte della sua vita.
Se oggi ho questo lavoro da operaio metalmeccanico dell'Italsider lo devo a lei, che ha avuto l'ostinazione di farmi finire quella scuola professionale, che ho sempre odiato. E anche questo lavoro lo odio. Mi permette soltanto di proseguire quella vita modestissima che ho sempre fatto con mamma. I turni in fabbrica sono pesanti, e quando sono all'altoforno la sera a casa non riesco neanche a respirare bene. Quelle sere mi monta su una carogna che uscirei e, avendone la forza, ammazzerei la prima persona che incontro, solo per sfogarmi, e gridare al mondo il mio diritto alla felicità. Felicità che non ho nemmeno ancora assaggiato.
Domenica pomeriggio mi è capitato un fatto strano.
Passeggiando sul corso per fare venire l'ora di cena, ho incrociato un uomo anziano, che camminava appoggiato a un bastone, che mi assomigliava tantissimo. Sul momento non ci ho fatto molto caso ma a casa, mentre il telegiornale snocciolava le solite sciocchezze, mi è ritornato insistentemente in mente, e mi sono persino alzato a guardarmi bene nello specchio del bagno.
Mi è balenata nel cervello un'idea pazza. E se fosse lui? Io sono nato nel 19.. quindi lui, come mi diceva la mamma, dovrebbe avere circa trenta anni più di me. Quel vecchio aveva almeno 75 anni, quindi l'età ci starebbe. Non so neanche io cosa pensare. Me ne vado a letto ma non riesco a dormire, quel volto mi si presenta davanti e ogni volta che mi giro assume un'espressione diversa.

Stamattina in fabbrica sono assonnato, ovviamente. Lavoro con il minimo impegno e aspetto soltanto l'ora di uscire: chissà se lo incontrerò di nuovo. Il fato mi aiuta, e non poco: non solo lo incontro ma lo vedo inciampare e vacillare: con un balzo gli afferro il braccio destro e gli impedisco di rovinare a terra. Mi guarda con riconoscenza, con occhi velati. Lo accompagno al bar, perché si vede che si è spaventato, e gli offro un caffè, l'unica cosa che posso permettermi: infatti io non lo prendo. Mi dice che non dovrebbe uscire ma che non ne può fare a meno, perché vive da solo e stare tutto il pomeriggio in casa lo fa impazzire. Parla con difficoltà e non riesco a capire bene tutto quello che dice, anche perché continuo a guardarlo negli occhi. E' lui, ne sono sicuro, ma come fare ad averne la certezza?
Gli dico allora che qualche volta posso accompagnarlo io, quando non lavoro, così da poter uscire a fare quattro passi più tranquillamente, e così gli si illuminano quegli occhi umidi da vecchio, e non la smette più di ringraziarmi. Mi spiega dove abita e restiamo d'accordo che andrò giovedì, alle cinque della sera.
Così sono cominciate le mie passeggiate con questo vecchio, ed è probabile che anche lui si sia reso conto che ci assomigliamo come due gocce d'acqua. Mi parla sempre con quella sua parlata difficile, è di natura chiacchierone così come io sono di natura taciturno. Io ascolto e cerco di farmi un'idea della sua vita. Tante cose mi ha raccontato nel giro di questi mesi. Della moglie e dei figli, lei morta e loro fuori Novara, per forza di cose poco presenti.
Quando ha incominciato a raccontarmi del suo lavoro ho capito che avrei potuto farcela, a capire se avevo ragione. Mi ha detto che si è laureato a Torino nel 19.., con lode e pubblicazione della tesi, sull'endemia di gozzo nella val Curone, e il relatore era stato il Pierantoni, illustre Clinico Medico. Naturalmente ha dovuto anche spiegarmi cosa fosse “endemia” e cosa fosse “gozzo”. Ma io lo ascolto rapito. Questo vecchio, e non dovrei proprio dirlo, mi sta incominciando a diventare simpatico.
L'asino è cascato quando mi ha raccontato che per un certo periodo ha dovuto fare il medico condotto a C.... Da quel giorno non ho più avuto dubbi, e le nostre passeggiate erano avvelenate dal desiderio di abbracciarlo mescolato assieme all'impulso di spaccargli la testa a calci, per come si era comportato con la mamma.
Diventavamo sempre più “amici”, e non avevo cuore di allontanarmene.
A Natale si presentò con una busta in mano e quando io gli dissi “ma Dottore, non è assolutamente il caso” ci restò parecchio male, tanto che io mi misi la busta in tasca e cambiai discorso. Solo a casa mi ricordai di aprirla e rimasi a bocca aperta quando ci trovai dentro l'equivalente di tre mesi di stipendio. Non sapevo più cosa pensare. Che mi avesse riconosciuto anche lui? Che mi volesse dare una mano? Del resto il mio lavoro lo conosceva e avrebbe potuto ben immaginare il mio cronico bisogno di soldi. Misi la busta nel cassetto del comodino, per tempi più difficili. Quella notte il mio sonno fu più sereno, e sognai un Babbo Natale con le sue fattezze.
E così andarono avanti le nostre passeggiate, per qualche mese, e ogni tanto lui si presentava con la busta in mano, che io accettavo e intascavo. Ma mai, lo posso giurare, gli chiesi un solo centesimo, così come mai mi permisi di parlare della mamma. E dire che ne avrei voluto tanto desiderio.
Oggi il portiere mi ha detto che il Dottore si è dovuto ricoverare in ospedale. Grazie a un amico infermiere sono riuscito a entrare in ospedale fuori dall'orario di visita, non voglio incontrare nessuno. Non l'ho visto bene per niente. Respirava a fatica ma è stato contento di vedermi. Poche parole abbiamo detto, e lui le sussurrava. Prima di andarmene gli ho detto: “Stia tranquillo, dottore. Ci vediamo domani”. E' morto nel pomeriggio.
Sul giornale c'è scritto che il funerale sarà mercoldì mattina, alle nove, e io, a costo di farmi licenziare, mi sono dato malato. Non c'è tantissima gente. Ci sono i figli, i nipoti, i vecchi amici. Tutta gente che io non conosco. Qualcuno mi guarda con occhio curioso, forse per il mio abbigliamento da operaio. Mi addosso al muro in fondo alla chiesa e per la prima volta riesco a pensare a lui come mio Padre, e vorrei andare ad abbracciare la bara. Ma non posso, sono un bastardo. E anche alla fine della funzione cerco di nascondermi dietro le altre persone. Nessuno deve sapere, nessuno deve capire.
Andrò a salutarlo per bene al cimitero, sempre che riesca a capire dove sarà.


P.S. Nel cassetto del comodino del Dott. G.G. i figli trovarono una lettera indirizzata all'operaio, chiusa e col francobollo, che, per rispetto al Padre, spedirono.
Noi siamo riusciti ad avere la possibilità di leggerla.
“Caro Nicola, riceverai questa mia quando non potremo fare più le nostre passeggiate. So bene che mi hai riconosciuto la prima volta che mi hai visto ma tu non sai, forse, che anche io l'ho fatto, e stavo per cadere proprio per quel motivo. Quante volte avrei voluto abbracciarti e quante volte mi sono trattenuto! Ho sempre pensato di non essere degno della tua considerazione, e ne sono tuttora convinto, mentre il mio respiro è sempre più debole. Non c'è bisogno di essere medico per capire che si sta morendo. Scusami per tutto il male che ho fatto a tua madre e a te. Ho imparato bene cosa vuol dire “dolore dei peccati”, e questo dolore, anche in questo momento, è ancora lacerante come il primo giorno. Spero che con i miei piccoli aiuti la tua vita sia un po' migliorata, anche se non potranno mai ripagare la sofferenza che vi ho imposto.
Ti abbraccio con tutta la forza che mi rimane.
Tuo Padre, che si è privato del piacere di sentirsi chiamare da te “Papà”.



Nessun commento:

Posta un commento