venerdì 1 marzo 2013

VITA NEI CAMPI (con buona pace di Giovanni Verga)

Ante scriptum: ultimamente la cronaca nera mi attira e mi piace riraccontarne le vicende.
Il protagonista di questo post è un piccolo dio del male, a suo modo affascinante, anche se spregevole.



Michele è, o si crede, il dominus della sua famiglia, è il primo dei quattro figli di Rosalia. E' nato nel 1955. All'interno della famiglia fa e disfa a suo piacimento i destini degli sventurati che hanno a che fare con lui. Una famiglia racchiusa da un guscio impenetrabile, una delle tante famiglie del Belice.
Il benessere degli anni '60 lo sfiora soltanto attraverso l'immagine distorta che di esso ne dà la televisione, comunque finestra su un mondo a lui negato e sconosciuto. E lui ritiene che partecipare di quel benessere, vero o presunto che sia, sia un suo diritto. Deve prendersi tutto quello che desidera.
E' sempre stato un figlio difficile Michele, anche ad ammazzarlo di botte, cosa che suo padre, prima di morire, ha fatto fin da piccolo, senza riuscire a piegarlo. Dopo la sua morte Michele è diventato lui, il capofamiglia, anche se aveva solo diciott'anni.
Un giorno mise gli occhi sulla figlia di sua sorella, una bambina di nove anni, e lui ne aveva venti. Da quel momento non ha più avuto un momento di pace: una fiera in gabbia. E sempre ubriaco. Tutti se ne erano accorti, meno la bambina. Nessuno ha tentato di proteggerla. Perché avrebbe dovuto rinunciarci? Del resto lui si era preso sempre tutto quello che voleva.
Si trattava di aspettare soltanto il momento giusto, che arrivò un assolato mattino di giugno del 1982, col silenzio rotto soltanto dalle cicale. Lui non doveva chiamarla con qualche scusa. La chiamò e basta.
La piccola, stupita inizialmente da quelle attenzioni, perse a nove anni l'unica cosa che per lei avrebbe potuto rappresentare una qualche ricchezza. Acquistò invece un ricordo che con il passare degli anni sarebbe divenuto sempre più atroce.
Lui non fu certo impietosito dal pianto muto della bambina. La spogliò con calma ma senza alcuna delicatezza. In quegli attimi il suo tempo interno scorreva con una lentezza che centuplicava l'eccitazione.
Dopo la minacciò, anche, ma la nipote era così sorpresa e avvilita che non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
Michele cadde per qualche ora in un torpore che gli impedì di pensare: un attimo prima di addormentarsi gli balenò nel cervello l'idea che poi non era stato così piacevole come se l'era immaginato in quei mesi di attesa. Pazienza. Del resto il padrone era lui, e poteva benissimo permettersi di fare qualsiasi cosa, comprese le cose che, col senno di poi, non gli sarebbero piaciute tanto.

Passano otto anni.

Quella buttana di mia sorella Caterina ha lasciato il marito ed è andata a fare la pastora con Paolo, il marito dell'altra nostra sorella. Che siano maledetti. Per colpa loro non posso più andare alla cantina a giocare alle carte. Tutti mi guardano senza dire niente e si guardano fra loro con certe occhiate che mi fanno impazzire. Voglio entrare all'osteria a testa alta, io. Tutti mi devono portare il rispetto che mi è dovuto.
Devo punirli. Oltretutto quella troia vuole portare la figlia dal ginecologo e potrebbe saltare fuori anche quella storia vecchia. Anche mio fratello Giuseppe è incazzato: quell'uomo di merda non doveva lasciare nostra sorella Francesca, ha disonorato tutta la nostra famiglia. Quei soldi che Giuseppe ha dato a Caterina se li godrà anche lui.
Domani io e Giuseppe metteremo fine a questa vergogna. Tutti dovranno capire che la mia famiglia va rispettata.
Stamattina c'è silenzio qui intorno all'ovile. Fra un po' il sole sorge, loro staranno radunando le pecore per farle uscire dall'ovile. La mia testa è completamente vuota. So solo che domani tutti si leveranno il cappello al mio passaggio.
Eccoli! Sono entrambi un po' assonnati, non ci hanno visto.
E non ci vedranno più. Alla schiena li abbiamo presi, e sono caduti senza neanche avere il tempo di guardarsi. Che siano di esempio per tutti quelli che vogliono violare la legge della famiglia. E che se li mangino i cani.
Torniamo in paese sulla Panda senza dire una parola. Stiamo già cercando di dimenticare.

Ma che minchia vuole questo signor giudice? Come si permette di entrare in cose che non lo riguardano e che non capisce? Son passati vent'anni, era stato archiviato tutto. Sarà stata quella buttana di Enza, del resto trenta anni fa gli era piaciuto anche a lei, ne ero sicuro. Anche lei avremmo dovuto ammazzarla. Tanto non c'erano testimoni e se anche ci fossero stati nessuno avrebbe avuto il coraggio di dire una parola una. Questa è la mia famiglia e qui io sono bene e male. Nessuno può permettersi di giudicare quello che decido per la mia famiglia. Figuriamoci il signor giudice. Mi ha persino chiamato per interrogarmi, quel cornuto.

E stamattina alle quattro sono venuti a prendermi e mi hanno portato in cella di sicurezza. Che dio li maledica. Dovrò anche spendere i soldi dell'avvocato. Ma non possono farmi niente, non a me.



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