giovedì 22 settembre 2016

Lizzy

Dopo tante incertezze, mi sono convinta.
Già da qualche tempo sono diventata padrona della casa "di famiglia" e ho finalmente deciso di ricostruirla da cima a fondo, cosa che a un tempo mi stuzzica e mi gratifica immensamente. Non che quella casa fosse brutta, anzi, averci trascorso l'infanzia e la giovinezza è motivo continuo di bei ricordi, però vi sono alcune cose, che per me hanno un significato profondo, che potrò finalmente cambiare.
E allora tanto vale cambiarne anche svariate altre....

E' un vecchio palazzo, in un quartiere del centro, in una lunga strada che si dirama da una piazza alberata, dirigendosi a sud, con due file non interrotte di caseggiati fine ottocento, ai cui lati vi sono ancora giardini meravigliosi e riparati, nascosti da sguardi indiscreti, che sembrano inesplorati.
Come tutte le case di un certo tono ha sempre avuto il servizio di portineria, e quando ero piccola questo era tenuto da due sorelle, che mi hanno sempre fatto venire in mente le sorelle Materassi. Erano due vecchie sorelle, e non mi stupirei se avessero nascosto un grande segreto. Magari erano ricchissime, e il sabato mattina, quando andavano via, mi immaginavo che andassero a stare per due giorni in una reggia sfavillante....
Da bambina in quella via c'erano negozi che ormai non ci sono più e anche i loro padroni sono morti. Il vecchio lattaio, il vecchio macellaio, tutti negozi in cui il rapporto col cliente diventava una piacevole consuetudine, e ci si dava il buongiorno come con una persona in un certo senso di famiglia. Solo il tabacchino è rimasto uguale, nel senso che si è tramandato di padre in figlio, e come è facile immaginare si tramanderà di figlio in nipote. Sono cambiati soltanto gli articoli che compravo, caramelle, chewing gum, piccoli giocattoli.... adesso compro anche carte bollate.
Con Edo abbiamo per tanti anni abitato in un'altra casa, ma adesso la lasceremo, io senza alcun rimpianto. La "mia" casa sarà un'altra cosa.
La decisione ha tardato a venire, sia per l'impegno economico da sostenere sia per quella malinconia che sempre accompagna i cambiamenti, e che ci si vuole evitare finché non se ne possa più fare a meno.

Gli operai dell'impresa hanno incominciato un giorno di maggio. Ben presto, dato che per costruire bisogna inevitabilmente distruggere, la casa è stata invasa da un fine pulviscolo, fine ma denso, che impediva di vedere le persone a più di un metro, oltre il metro le si intuivano soltanto, senza riconoscerle.
La sera, prima di cena, faccio un piccolo sopralluogo e il vedere quello sconquasso mi dà l'impressione che non riuscirò mai più a farne qualcosa di buono. E intanto nella testa mi frullano mille pensieri e mille progetti, tutti fra loro diversi, e si affollano alla soglia della coscienza con la stessa opacità con cui il pomeriggio intravedo gli operai.
Ma intanto, giorno dopo giorno, i lavori vanno avanti, anche se ci ho impiegato più di un mese a capire dove, e come, volevo la cucina.
Questa nuova occupazione però, anche se in certi momenti lo nego a me stessa, mi porta anche soddisfazione, quella che ogni nuovo e bel progetto porta con sé.
Gioia, preoccupazione, rimorso di disfare qualcosa che la mia famiglia ha costruito, incertezza continua sulla bontà delle mie scelte, mi hanno accompagnato nelle mie giornate estive, e anche le tanto sospirate vacanze ne hanno sofferto.
In realtà tutto andava per il meglio e Edo, che molto poco spesso faceva dei sopralluoghi, era comunque favorevolmente impressionato, in quanto vedeva la casa cambiare di volta in volta, e mentre all'inizio non era neanche in grado di riconoscere le stanze, nell'ultima visita era riuscito a capirne la disposizione e ne era rimasto molto contento.
Non sapevamo quando la casa nuova sarebbe stata pronta, ma sapevamo che ci saremmo stati bene.
Una mattina però sono stata interrotta, mentre facevo lezione, dalla telefonata di un ragazzo della squadra, che, con un tono di voce molto preoccupato, diceva: "Signora, venga subito a casa, abbiamo trovato qualcosa!...". Cosa fosse questo qualcosa neanche lui riuscì a spiegarlo bene, e io, alquanto contrariata, mi sono affrettata a raggiungerlo. Sembrava che in casa fosse stata trovata una cosa che non poteva neanche essere nominata. In quel quarto d'ora di tragitto mi domandavo senza posa che cosa potesse mai essere.
Era quasi l'ora del pranzo, e tutti gli operai si sono fermati al mio arrivo. Il capo, un gigante dall'aria dolcissima, mi ha condotto nella stanza che avrebbe dovuto diventare il salone, e mi ha mostrato la causa di tutto quel trambusto.
Un osso.
Appoggiato in una fessura del muro, che nei progetti sarebbe dovuta diventare una nicchia, faceva bella mostra di sé quest'osso bianchissimo, calcinato, di forma irregolare, in un punto acchiocciolato su sé stesso, grande come il pugno di un bambino appena nato.
"Resti umani", dicevano gli occhi spalancati di tutti gli astanti, non impauriti forse, ma timorosi di profanare qualcosa e di ricevere una punizione sovrannaturale per quella loro empia azione.
Io invece ho trattenuto a stento il primo moto di riso. "Ogni scusa è buona per non lavorare", ho pensato, ma anche io avevo un certo disagio persino a sfiorarlo.
"Chiamerò Edo", disse ad alta voce, pensando a lui che in quel momento era in studio con i suoi pazienti, "State tranquilli. Per oggi potete andare a casa". Un'altra giornata di lavoro persa, riflettevo mentre andavo a casa.
"Un osso dentro un buco nel muro, e cosa sarà mai....", ma non riuscivo a capirne il perché, il come ma soprattutto il quando.
Escludevo, col buon senso della maestra, che potesse trattarsi di ossa umane. Non solo Edo me lo avrebbe agevolmente confermato ma quella casa non era certo un castello che contenesse celle segrete dove far morire prigionieri condannati a una morte lenta e atroce. E poi non era verisimile che tutte le altre 205 ossa si fossero consumate e quella no. I miei genitori erano andati ad abitare lì nel 1953.
Lizzy ne parlò a tavola con Edo e anche Giò, il loro ragazzo, studente naturalista, dichiarò il proprio interesse per quel reperto.
Dopo pranzo andarono tutti e tre a fare un'ispezione, con la dovuta calma. Edo prese in mano il reperto con curiosità scientifica, ma non senza delicatezza, e si mise a guardarlo attentamente sotto la luce della finestra. Giò girava per la casa, eccitato e curioso. Lizzy si sedette sull'unica sedia disponibile: stava proprio diventando bella, la sua casa.
"Non è un osso umano", sentenziò il signor dottore. "Non conosco ossa umane con questa forma".
"E allora cosa è?" gli ho chiesto io, tranquillizzata ma curiosa, "Boh, non sono veterinario, come faccio a saperlo" le rispose. "Non tutti i tuoi pazienti ne sarebbero certi" pensò Lizzy, ridendo fra sè, ma non disse niente. Si godeva l'ultimo sole di quella giornata di ottobre, anche lei appoggiata al davanzale della finestra.
Improvvisamente Giò gridò: "Venite un po' qua, a vedere cosa ho trovato". Entrambi, distolti dai loro diversi pensieri, si alzarono di scatto e andarono da lui, che stava frugando dentro la nicchia dove l'osso era stato trovato.
Con le dita e le unghie sporche di calce porse loro un rotolo di carta avvolto da un nastro sbiadito, che una volta era stato celeste.
Lizzy lo prese in mano e sciolse il fiocco, srotolando con la migliore delicatezza la carta ingiallita.
Ne lesse il contenuto ad alta voce.
"Caro amico, scusami se ti ho fatto spaventare trovando quest'osso. Sono una donna vecchia, prossima alla morte. La mia vita è stata bella e allietata da una grande famiglia, ma ora sono rimasta sola. Mi restava il mio cane, che con affetto e devozione mi ha reso meno tristi queste giornate, in cui il sole sembra solo tramontare. Anche se può sembrare paradossale è lui che ha reso più umano il mio ultimo tratto di strada. La mattina mi svegliava, con gentilezza e delicatezza, e il dovermi occupare di lui, il mio Gluck, mi impediva di starmene tutto il giorno a letto, a rotolarmi nella malinconia. E così, per anni, abbiamo vissuto insieme, cercando di darci vicendevolmente un po' di joie de vivre. Preparandogli la zuppa veniva voglia di mangiare anche a me, e così mi ha impedito di lasciarmi morire di fame. Obbligandomi, ma solo con gli occhi, a portarlo a sgambettare ha impedito che si rattrappissero definitivamente le mie stanche giunture. E la sera, seduto vicino a me sul divano, mi ha dato quel calore che credevo di avere perduto per sempre.
Ma ogni cosa bella ha una fine e anche Gluck è finito, prima di me. Le mie preoccupazioni su cosa sarebbe stato di lui "dopo di me" si sono rivelate inutili.
Sono arrivata con lui in braccio dal veterinario che respirava a fatica, e mi guardava con uno sguardo stupito e riconoscente. Il dottore, vecchio amico, mi ha detto che non era nelle sue possibilità di fare qualcosa, quel calcio aveva rotto il fegato. C'era solo la possibilità di non farlo soffrire. E io, che l'ho amato così tanto, non ho voluto che soffrisse.
Un piccolo favore, ho chiesto al veterinario. Dammi qualcosa di lui, un osso magari. Voglio che resti nella casa dove ha vissuto, e dato, ore felici.
E adesso sono qui, con quest'osso in mano, che nascondo perché voglio che resti in questa casa, e vorrei che tu, caro amico, lo lasciassi riposare ancora, fino alla fine dei tempi. Grazie".
Edo si alzò di scatto e andò a prendere il secchio della calce.




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