mercoledì 16 maggio 2012

Una piccola storia di ospedale


Sono l'uomo delle cellule, o almeno così mi chiamano i miei colleghi.
Sto tutto il giorno davanti a un microscopio e scrivo delle diagnosi che spesso sono degli epitaffi.
E' per questo che quando ho l'occasione di incontrare qualche paziente «vero» ne resto affascinato, come alla visione di un qualcosa di veramente raro e prezioso.
Stamattina dovevo accompagnare un amico a una visita, e sono entrato nell'ambulatorio del collega che stava finendo la visita precedente.
Come sempre faccio, dopo avere salutato medico e infermiera, mi sono accoccolato su una sedia, in silenzio, aspettando che fosse chiamato il mio amico.
Entra invece una coppia, che già aspettava di essere chiamata: lui sulla sessantina, alto, allampanato, con una mano finta, di plastica, molto preoccupato, lei un po' più giovane, con un aria già sfiorita ma nello stesso tempo ancora agguerrita.
A quel punto ho cercato di farmi piccolino, di non farmi notare ma nello stesso tempo di seguire curiosamente la visita.
Il collega incomincia a fare domande a lui, che risponde in maniera impacciata, non ricorda alcune cose, dice cose non pertinenti, fa un po' di confusione con le date (ovviamente non è capace di distinguere cosa è sostanziale da cosa è accessorio): lei gli da' sulla voce, amorevolmente lo corregge (“E' come i ragazzi, non si ricorda”) e allora si accende un brusio che, quando ci si mette anche il telefono, rende la conversazione incomprensibile.
Non riescono a spiegarsi bene (io stesso ho difficoltà a capire dove è il problema) ma trasmettono (e io lo percepisco in un attimo, perché lo sento dentro) grande preoccupazione.
Rinunciando a finire l'anamnesi il collega invita lui, che è il malato da visitare, a stendersi sul lettino e lei a quel punto si siede vicino a me.
Ho quindi l'occasione di guardarla un po' meglio: capelli biondi, tinti, raggruppati in uno chignon da cui escono piccole ciocche, gli occhiali, l'occhio, ancora vivace, nasconde antichi dolori. Mi dice che è la sua compagna da dieci anni ma vivono in due case diverse (e perché mai?), che quando lui sta male lo deve accudire e deve andare da lui. Capisco anche dalle sue parole che lo mette un po' a perdere, vuole che mangi e che beva come dice lei, e a lui piacciono gli intingoli, che lo sanno tutti che fanno male ai diverticoli.
Una storia come tante, velata un po' da questa tristezza di una famiglia che non e' famiglia, con problemi di tutti i generi ma anche sostanziata da un amore non solo fatto di parole ma intessuto nelle difficoltà.
Quando il collega finisce la visita aspetta che lui si rivesta, per parlare una sola volta a entrambi.
Dice che la visita è negativa, che non c'è' niente di preoccupante e allora la tensione per questa signora non più giovane (a cui sento di essermi già in qualche modo un po' affezionato) si scioglie in un pianto irrefrenabile, e ci racconta ancora che lei ha avuto un grave lutto (immagino il figlio) e che non ce la fa più.
Il collega, da medico, le consiglia, sic et simpliciter, un antidepressivo.
Io, che sono lo spettatore silenzioso, non saprei che medicina dare, dato che la serenità non si può comprare né tantomeno vendere.
Alla fine la signora è tanto contenta che abbraccia il collega.
Se ne vanno via insieme, rinfrancati, di nuovo pronti ad affrontare domani.
Io resto lì come imbambolato, domandandomi se è giusto che l'uomo delle cellule si sia perso tutta questa vita.
 
  26.4.2010
  


 

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