venerdì 31 agosto 2012

UN'INDAGINE LUNGA UN GIORNO


Il medico legale arrivò tre ore dopo essere stato avvisato. In quel lasso di tempo l’appuntato Federici, dopo che il giudice e i suoi superiori andarono via, aveva approfittato del silenzio e della solitudine, e si era messo a curiosare. Perché era curioso come una scimmia. Ogni omicidio per lui era fonte, se non di godimento puro, di interesse spasmodico.
Si trovava in un ristorante famoso, il cui patròn e chef era acclamato come il nuovo Bocuse, portatore di ricette e sapori segreti, che deliziavano i palati di una clientela facoltosa. Certo che lui non si sarebbe mai potuto permettere di andarci. Ma non gli interessava, aveva i suoi locali di fiducia.
Il delitto era avvenuto nell’immensa cucina, che per estensione ricordava quella di certe dimore principesche.
Era lo chef la vittima, una vittima smembrata senza nessun criterio anatomico né gastronomico, ridotta in pezzi non più lunghi di mezzo metro. La testa separata dal collo con un’espressione ancora stupita negli occhi. Federici fu colpito dalla contemporanea presenza di tagli di carne, bovina questa volta, tagliati però in maniera da poterne agevolmente riconoscere l’uso culinario che se ne sarebbe fatto.
Il risultato era una cucina era disseminata di pezzi di carne e di sangue: e in una pentola sul fuoco sobbolliva un quarto anteriore assieme a un ginocchio non bovino. Federici pensò che il killer, se non fosse stato disturbato, si sarebbe fatto un buon brodo, di carne.
Sogghignò fra sé e sé.
Cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una qualche traccia. Quasi subito trovò, vicino a una mannaia per ossa, una vera matrimoniale. La sollevò con la pinzetta che portava sempre in tasca e lesse “Jean – 24.9.2013”. Poco probabile che fosse del cuoco. Se la ficcò in tasca col massimo della naturalezza.
Si sedette a pensare. Perché il bue tagliato bene e l’uomo selvaggiamente depezzato?
Quando finalmente il medico legale arrivò potè andarsene a casa, a dormire sul divano abbracciato al cuscino, dando le spalle alla televisione accesa.
L’indomani, giorno di riposo, Federici andò in Curia, dal suo amico Don Franco, uno dei rarissimi preti che parlava come mangiava. Avevano fatto solo le scuole medie insieme ma non si erano mai persi di vista, e qualche volta erano usciti assieme agli altri e il Don era certo fra quelli più casinisti.
“Ciao, Don, risolvimi un problema”. “Ciao, Sarebbe?”. “Bisogna risalire da una vera matrimoniale al suo padrone. Ce la fai? » « Ci provo ».
Nel 2012 anche il Vaticano è informatizzato e la stampante sputò rapidamente la sposa assassina, Marie Durand, al momento del matrimonio domiciliata in via Galletta al n. 59 interno 1.
Federici andò a mangiarsi la bistecca da Gianni, osteria che cucinava bene solo agli amici. E lui era fra gli amici. Alle tre e mezzo del pomeriggio, dopo essersi mezzo azzuffato con un avventore sul valore di un attaccante della squadra cittadina, complice un dito di vino di troppo, si avviò malfermo sulle gambe verso via Galletta, poco distante.
Era in borghese e il caldo, il vino e l’abbigliamento diedero alla donna che aprì la porta l’idea di avere davanti un qualche muratore venuto a chiedere qualcosa. Le scappò una mezza risata. Lo fece accomodare e andò a preparargli il caffè.
Il soggiorno della signora Marie era in penombra, e questo ne acuiva il senso di tristezza e di disagio. Divani e poltrone erano tanto consunti da non poter più dire di che colore fossero stati, se mai avevano avuto un colore. Un paralume ricoperto di polvere. Tutto grigio. La stessa signora Marie aveva un incarnato grigio che la diceva lunga sulla sua salute, anche a un appuntato.
Mentre Federici avvicinava la tazzina alla bocca lei esordì: “Vedo che ha fatto presto a trovarmi. Vuole sapere perché ho ucciso quel bastardo?”. Il caffè bollente gli andò di traverso e incominciò a tossire con grande strepito. Non si immaginava di certo di essere aggredito in maniera così diretta. Quando si riprese bofonchiò: “Intanto lei me lo dica”.

La donna si mise comoda. “Michel era un grande cuoco, anche se di un’ambizione sfrenata. Voleva essere il migliore del mondo. E il più famoso. Non meno di Escoffier, perlomeno. Io e mio marito eravamo tutta la sua brigata di cucina. A noi proponeva i suoi piatti più nuovi da assaggiare, tutti i giorni e il nostro giudizio era per lui sostanziale. Noi il braccio e lui la mente.
Quando mio marito fu ricoverato in Ematologia, tre settimane fa, gli fu diagnosticata una leucemia mieloblastica. Il medico che mi comunicò la diagnosi mi disse anche che spesso queste malattie sono dovute a tossici, specie composti chimici aromatici.
Mio marito l’ho perso in una settimana.
La settimana successiva l’ho spesa cercando in cucina, certa che Michel avesse usato qualche cosa che non andava bene. Non ho dovuto faticare per cercarla, una boccetta con un liquido denso verde, riposta assieme alle spezie, con una scritta: benzene.
Una piccola ricerca sulla rete mi ha confermato i sospetti.
E quel bastardo lo usava per cucinare: ecco perché tutti i suoi clienti lo portavano in palma di mano e dicevano che i suoi piatti fossero così particolarmente “aromatici”. Non poteva essere diversamente, ma portavano in sé la morte. Noi che tutti i giorni li mangiavamo siamo i primi a volare via. A me non restano molte settimane.
Sono assolutamente convinta che quell’uomo di merda abbia avuto quello che si meritava, e nel momento giusto, quando stava preparando il suo celebrato “bollito con salsine aromatiche”.
Federici aveva ascoltato tutto, partecipando alla rabbia della donna. Si domandò cosa può spingere un uomo ad avvelenare i propri simili ricercando a tutti i costi di soddisfare il loro palato, e non si diede risposta.
Si alzò e borbottò qualcosa alla signora Marie, sapendo che non l’avrebbe più rivista. Lei restò seduta, contenta, se così vogliamo dire, di rivedere presto il marito.
Federici, sulla mensola dell’anticamera, posò la vera.



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