lunedì 13 maggio 2013

Bottiglioni


La psichiatria, dopo un periodo in cui era "di moda" andare dallo "strizza", è approdata in televisione, e lì affascinanti attori/psichiatri ricevono altrettanto affascinanti attori/pazienti, in sedute altamente inverosimili.
Glamour è la parola d'ordine: tutto deve essere glamour, compresa l'umana sofferenza che di suo non lo è granché.
Che si provino, i grandi cineasti, a filmare una visita in un ambulatorio del servizio di igiene mentale dove vado tre mattine alla settimana. Di glamour non c'è traccia; forse, a guardare con occhio smaliziato e corrosivo, l'unico spettacolo che viene in mente è il circo, non solo per la varietà che si presenta all'osservatore ma soprattutto per la malinconia che traspare, come un alone di fondo, in ogni "numero" presentato.
E lo psichiatra a cui passa davanti agli occhi questo film di miseria e di tristezza deve innanzitutto fare i conti con il senso di assoluta frustrazione che quegli incontri gli procurano.
E non c'è stipendio, o onorario professionale, che possano ripagare il sentirsi sgradevolmente impotente. L'errore che fa il mondo è pensare che lo psichiatra lavori per il denaro. Probabilmente lavora soltanto per punirsi.

L'altra sera ero di turno per l'ospedale. Una serata estiva, con l'aria ancora densa del caldo della giornata; serata in cui fai l'andirivieni fra il soggiorno e il bagno per rinfrescarti, perché sei in un bagno di sudore ineliminabile, e non respiri neanche bene, a volerla dire tutta. Davanti alla televisione le immagini si sfuocano e si mescolano con quelle che hai dentro. Ti mancano i tuoi bambini. Avresti voglia di sentire le loro grida, anche se le zittisci sempre. Volti di uomini, del passato e del presente. Ti accendi la tua sigaretta per tenerti sveglia: non sia mai che chiamino dall'ospedale e tu stai dormendo: non lo sopporteresti il casino che ne verrebbe fuori.
Due boccate e inizi a russare, perché hai il naso chiuso da morire. La sigaretta ti cade in grembo e ti bruci una coscia. Altro giro in bagno, bestemmiando per l'ustione. Questa volta sotto il rubinetto ci metti tutta la testa, col tuo cespuglio di capelli che ti ostini a considerare radi, anche se sai che a lui piacciono. L'acqua fredda ti dà un barlume di lucidità e riconosci quel volto allo specchio, quelle belle labbra, e in un flash ricordi gli uomini che le hanno baciate, volti che ricordi con grande precisione, nei lineamenti e nel carattere, e ti sovviene anche l'ultimo, che non vuoi ancora baciare.
Il naso continua ad essere completamente tappato: è la maccaia.
Quasi quasi ti piacerebbe che il telefono squillasse: anche se sei una donna ti stai davvero rompendo i coglioni, in questa serata irrespirabile di luglio.
L'angelo custode dei giovani psichiatri, maligno come sanno esserlo soltanto certi tumori, esaudisce nel giro di tre minuti la richiesta del tuo inconscio.
"Ciao Paolina, sono Salvatore. Abbiamo bisogno di te. C'è il solito barbone strafatto che fa casino. Vieni e dammi una mano perché ho solo due alternative: o la dose di serenase buona per una giraffa o lo butto dalla finestra direttamente, anche se siamo solo al pianterreno". Salvatore scherza sempre, è un ottimo diagnosta ma con i pazienti è negato. L'anatomopatologo dovrebbe fare. Cadaveri e vetrini. Vetrini e cadaveri. "Dammi il tempo di vestirmi. Cinque minuti".
Mentre mi infilo i pantaloni mi ricordo che ultimamente lo scooter fa i capricci: ci mancherebbe anche questa. Eventualmente chiamerò un taxi.
Salvatore mi abbraccia quando arrivo. E' proprio un bravo ragazzo e ha avuto sempre, come ancora adesso leggo nei suoi occhi, un desiderio di me molto evidente, evidente non solo per uno psichiatra con un po' di esperienza ma anche per tutti quelli che gravitano intorno al pronto soccorso. Le nostre strade però non si sono mai incrociate. "Vai nel box 3, il toro scatenato è tutto per te". "Dammi un camice". "Eccolo". Mi avvio senza paura, aspettandomi un energumeno. Non voglio pensare a Sara, che qualche anno fa in una situazione come questa si è buscata un coltellata.
Apro la porta scorrevole e cerco di capire rapidamente cosa succede e chi ho di fronte. La magrezza mi colpisce subito, più di tutto il resto. L'espressione è torva, mi sembra incazzato come una vipera. "Buonasera, sono la Dottoressa Zoppi". Come se non avesse parlato nessuno. Va avanti e indietro come una fiera in gabbia. E borbotta fra sé e sé. Mi arriva uno sbuffo alcoolico nauseante: deve avere fatto un bel pieno. Continua a fare come se non ci fossi. Sergio, si chiama. Ha 45 anni ma li porta da schifo. Sulla camicia, piena di macchie, ha un giubbotto jeans logoro. I pantaloni li sta perdendo: è già arrivato all'ultimo buco della cintura.
Devo assolutamente catturare la sua attenzione, altrimenti non se ne esce.
"Sieda un attimo, ci fumiamo una sigaretta" gli dico offrendogli il pacchetto delle Marlboro. Buona mossa, si siede al mio fianco, con un po' di difficoltà perché l'equilibrio è quello che è. Più che fumare succhia avidamente, e la sigaretta se ne va in una boccata. Gli metto il pacchetto davanti. Il contatto c'è stato.
"Sente delle voci?". "Sì, la sua".
Mi hanno insegnato che la domanda è stupida ma fino a un certo punto: la risposta ti permette di avere un'idea della lucidità del tuo interlocutore.
Mi chiede, con un gesto cortese, di potersi servire liberamente delle Marlboro. "Fai pure" è il senso del mio gesto di risposta.
Per un attimo i nostri occhi si incrociano: nei suoi leggo miseria, solitudine, tristezza infinita. Chissà lui cosa legge nei miei.
La mia diagnosi è che Sergio avrebbe soltanto bisogno di essere abbracciato da qualcuno. Qualcuno che non c'è. L'unico abbraccio che può permettersi, a buon mercato, è quello col bottiglione di vino. E più bevi e più dimentichi il bisogno di essere abbracciato.
"Le metto su una flebo di vitamina: vedrà che si sentirà meglio in pochi minuti". Spenge la sigaretta, mogio, e si allunga sul lettino senza rimostranze: si vede che si sente veramente male. A essere sincera nella flebo ci metto anche qualcos'altro, solo per farlo sentire un po' meglio.
"Stia tranquillo, fra cinque minuti di orologio son qui da lei". Non mi risponde ma ha capito. Gli appoggio la mia mano sulla sua e gliela stringo leggermente.

Utilizzo quei cinque minuti per telefonare alla signora che ha chiamato il 118, impaurita dalle escandescenze, più violente del solito, del vicino di casa.
Mille volte ho sentito questa storia, declinata nelle sue più varie accezioni ma sempre tragica, e mai mi ci sono abituata. Mamma e figlio da soli, chiusi in un cerchio magico cui contribuisce anche la misera pensione di lei, con i bisogni ridotti all'essenziale, in una relazione che esclude ogni altra persona. E quando la mamma muore il cerchio si spezza, il vuoto non è colmabile e il vino e le sigarette riempiono, come possono, giornate tutte uguali, e diventano i tuoi principali interlocutori. Ti bastano solo la poltrona e la televisione.
Cosa cazzo può fare un semplice psichiatra? Niente, solo fargli passare una notte più tranquilla del solito. Oltre ovviamente a restare con l'ennesimo amaro in bocca, per non essere stato in grado di fare qualcosa per Sergio. E' per questo che adesso mi sento uno schifo, non per i vestiti appiccicati addosso.
Ogni giorno che passa sono certa di avere sbagliato mestiere, anche se non saprei immaginarmi di farne un altro.
Vado da Sergio. La flebo lo ha tranquillizzato. Il respiro è superficiale. Deve essere stato anche un bel giovanotto. Trattengo a fatica il desiderio, forte, di dargli un bacio, anche se è sporco e puzza.
Vado a scrivere il referto della visita psichiatrica di pronto soccorso, mi levo il camice e me ne vado, più triste e più dubbiosa di ieri.



2 commenti:

  1. C'è tanta sensibiità. Bellssimo!

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  2. Ho vissuto i momenti che hai descritto insieme alla protagonista! Realistico e coinvolgente. Descritti molto bene i pensieri della dottoressa e anche quelli di Sergio, il disperato.
    Bel racconto. Complimenti! Annalisa

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