lunedì 29 luglio 2013

OCCHI

Eloise ha trentatré anni. Jacques ne ha tre. Il papà di Jacques non c'è, è solo il ricordo di una notte d'amore.
Non lo conosceva da molto, Enrico, se poi si chiamava davvero così. Giorni. Si erano incontrati una notte in un bar di Marsiglia, subito dietro il porto, quando lei, stravolta dal caldo, era uscita dal turno di notte della reception dell'hotel, e si era concessa una birra prima di tornare a casa.
Aveva sentito la presenza di quell'uomo ancor prima di vederlo, dietro di lei, ed era così stanca che aveva fatto fatica persino a voltarsi. Ma quegli occhi l'avevano stregata.
Non bello, non alto, non elegante, ma con due occhi che ti leggevano l'anima. Italiano, le aveva detto di essere, e lei aveva pensato subito a quei siciliani che gestivano il traffico delle bionde, bionde come i suoi baffi.
Anche se lei non aveva mai avuto difficoltà a trovarsi un uomo, riusciva a vedere in lui qualcosa di diverso, qualcosa che lei stessa non riusciva a capire interamente, qualcosa che l'aveva indotta a volerlo a tutti i costi. Eloise non era certo una donna "facile", né facile era mai stato conquistarla. Eppure, nel volgere del tempo che ci vuole per bere una birra, si era stabilito fra di loro un flusso molto tangibile, anche se poco descrivibile. Desiderio, amore, altro. Lo lasciò quasi subito e tornò a casa col cuore in tumulto.
Il mattino dopo telefonò al suo capo chiedendo di essere messa tutti i giorni a quel turno che finiva a mezzanotte, da nessuno ambìto, e lo ottenne con facilità. Era una donna sola, libera, poteva gestirsi il lavoro e la giornata come meglio credeva. Non gli aveva dato un rendez-vous per quella notte ma sperava che l'avrebbe rivisto. Dentro di sé ne era certa.
Si fece trovare seduta a un tavolino di quel bistrot, che per alcune notti li avrebbe accolti con dolcezza, con un'espressione di attesa che si sentiva addosso ma che non avrebbe voluto mostrare.
Enrico, quella notte, arrivò a mezzanotte e un quarto. Lei era alla seconda birra, e non riuscì a dissimulare il suo desiderio.
Lui cominciò a parlare a bassa voce ma sommessamente, in un francese carico di inflessioni siciliane, e lei, pur ascoltandolo con attenzione e capendo ogni parola, riusciva lo stesso a dissociarsi e a pensare simultaneamente al fremito che avrebbe provato a farsi accarezzare il seno da quelle dita nodose. Ma cosa aveva quest'uomo di così speciale? Eloise non lo capì mai. Lui parlava e lei ascoltava beata, anche se era indubbiamente un uomo logorroico.
Gli prese la mano e gliela strinse. Lui non si mostrò stupito neanche un po' e ricambio la stretta, con forza. Anche quella sera si lasciarono senza darsi un appuntamento.
L'ultima sera che si videro lei non gli lasciò più la mano, e senza dir niente se lo portò a casa. Il desiderio di essere accarezzata da lui era diventato un'idea fissa e, in quel momento, l'unico scopo della sua vita. Non si sbagliava, comunque. Quelle mani grosse, da contadino, ci sapevano fare. E fare l'amore fu come realizzare il sogno della vita.
Alle sette e quaranta del mattino lui la salutò con un bacio silenzioso.

Non pensava che quella notte, in cui era affogata nei suoi occhi, le potesse costare così tanto. Il posto di lavoro, tanto per cominciare. Le donne incinte non possono stare al banco della reception. E l'albergo non era certo disposto a pagarle un lungo periodo senza farla lavorare. La casa, la sua casa, arredata negli anni con tanto affetto, la dovette lasciare, perché l'affitto era in quella situazione insostenibile.
La cosa che le costò di più fu il doversi riavvicinare ai suoi genitori, che aveva bruscamente tagliato tanti anni prima, per crearsi la sua indipendenza.
Per lei fu incredibile essere riaccolta con grande dolcezza, lei e la sua gravidanza. Quando la videro la riabbracciarono in silenzio, e la strinsero entrambi con grande forza. Eloise gli aveva telefonato il giorno prima, spiegando, non senza imbarazzo, la situazione. Le venne anche in mente, lei che era stata educata dalle suore, la parabola del figliuol prodigo. Le chiesero se preferiva stare lì con loro o che le trovassero, e le pagassero, un alloggio, per lei e per il bambino. Eloise si sentì subito così tanto avvolta dal loro amore che, per la prima volta, dalla notizia di essere rimasta incinta, pianse a lungo, sfogando il terrore e l'incertezza di quel cambiamento di vita così radicale. Restò d'accordo con papà e mamma che avrebbero cercato insieme qualcosa, e che sarebbe rimasta con loro fino a quando non l'avrebbero trovato.

Le sembrava che la pancia le crescesse un po' di più ogni giorno, trovandovi sempre qualche cosa di diverso. Volle andare in sala parto da sola, e volle che i genitori restassero a casa. Arrivati a casa, quella mattina di luglio, lesse nei loro occhi una grande felicità. E anche lei, felice e orgogliosa di questa famiglia così delicata, che un tempo ormai lontano non era riuscita a comprendere, pianse di nuovo, per la seconda e ultima volta in quei nove mesi.

Jacques era un nome che le era sempre piaciuto, il nome di Casanova. Aveva trovato, grazie alla mamma, un piccolo lavoro che poteva fare a casa, scrivere sul computer testi autografi di scrittori, o sedicenti scrittori, forse. Così poteva stare vicina a lui.
Non voleva riconoscerlo e distoglieva il pensiero ogni volta che le veniva ma Jacques aveva gli stessi occhi di Enrico, e le stesse mani, in piccolo ma le stesse. Quando lo teneva in braccio, la notte, per farlo riaddormentare, sentiva lo stesso profumo della pelle del padre, e il suo pensiero riandava a quella notte: un sogno a occhi aperti, proprio come le era sembrato in quel momento.
Ma non aveva rancore, non si domandava perché fosse scomparso. In un certo senso pensava che quello fosse il destino che a lei era stato riservato, e contro il destino non si può combattere. Semplicemente lo accettava.

Una sera, Jacques avrà avuto tre anni, Eloise tornò a casa con un puzzle. Da un po' l'aveva adocchiato nel negozio sotto casa, ma c'erano volute tre settimane di risparmi per poterselo comperare. Vi era raffigurato un corsaro, con la benda nera su un occhio, buffamente vestito e con un'aria da gran bonaccione, barba e baffi biondi, occhi azzurri, sullo sfondo di una notte illuminata soltanto dal chiarore della luna piena, circondata da minuscole stelline. Poco credibile come corsaro ma troppo simpatico. Cinquemila pezzi.
Arrivata a casa spiegò a Jacques di cosa si trattava, ma lui continuava a rimirare il disegno sul coperchio della scatola, e diceva "bello, bello".
Gli spiegò che sarebbe venuta una fatina e che avrebbe messo qualche tessera ogni notte, e così nel giro di poco Jacques avrebbe avuto il suo bel corsaro nero appeso al muro della cameretta.
Tre mesi ci impiegò. L'80% delle tessere era nero come certe notti in campagna sanno essere, notti buie d'inverno, silenziose e solitarie. E così furono le sue notti, buie, perché non si poteva tenere la luce accesa ma solo una piccola abat-jour, silenziose e solitarie. Dopo avere finito di scrivere i suoi scartafacci di scrittori illusi da un successo che non verrà, si applicava a cercare le tessere del puzzle, e trovarne una era un piccolo successo. Gli occhi ci lasciò su quel puzzle.

E quando Jacques la mattina trovava qualche tessera in più, e la veniva a chiamare dicendole "Mamma, hai visto che è venuta la fatina del puzzle?" lei era pervasa da una felicità ancora più grande di quella che, in quella notte, le aveva portato Jacques.  


1 commento:

  1. Racconto pieno di sentimento....come gli altri del resto! Annalisa

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