mercoledì 21 marzo 2012

La signorina Matilde

Mio padre mi ha dato un aut aut. Non era neanche troppo arrabbiato, deluso piuttosto. “E’ la terza scuola che cambi”, mi ha detto, “e mi sono fatto convinto che la scuola non faccia per te. D’ora in avanti dovrai lavorare”.
Tutto per quello scherzo alla professoressa di stenografia. Abbiamo riso una mattina intera, io e Franco. Il preside non ha avuto alcuna difficoltà ad individuarmi, anche perché ero già un sorvegliato speciale.
Mio padre ha rincarato la dose: “Adesso ti metterai a cercare lavoro. Io non ho più intenzione di mantenerti. Il mio obbligo, bada bene fino a ventun’anni, è quello di darti un letto e un piatto di minestra. Da domani uscirai di casa alle otto e dovrai guadagnarti il pane col sudore della tua fronte. Chissà che non imparerai qualcosa”.
Non ho osato replicare, timoroso che incominciassero a volare gli schiaffi. Mia madre, dietro a lui, era spaventata e mi guardava con un’aria di impotenza che mi ha intristito. Povera donna.
Questa cosa che non dovrò più andare a scuola mi riempie di gioia. Che razza di ragioniere sarei diventato non lo so proprio, un ragioniere fallito in partenza. Domani me ne andrò a spasso con Franco.

Stamattina mi ha svegliato alle sette e mi ha messo fuori della porta alle otto. Mi ha anche detto che non gli interessa quello che faccio. Sono solo, in mezzo alla strada, devo aspettare le due, che Franco esca da scuola. Me ne andrò un po’ a spasso nei vicoli. Una delle cose che più mi piacciono è girare nei vicoli senza meta, fare il gioco del “primo vicolo a destra” e andare sempre avanti, fino a non sapere più dove mi trovo, e allora mi prende un senso di curiosità e di paura, perché nei vicoli c’è sempre buio, e cammino accelerando il passo fino a che non mi ritrovo in un posto conosciuto, magari riconosco un’edicola della Madonna che veglia su di un quadrivio. Sono belli i vicoli di Genova, e le persone che si incontrano sono tutte persone simpatiche, anche se non parlano il genovese come me ma una lingua diversa, che sembra una musica. C’è un omino in via della Maddalena che vende limoni tutto il giorno, e ripete ininterrottamente le parole “tutto sugo”, come fossero le avemarie del rosario, con un tono che mi suscita un riso irrefrenabile. Mi ha già tirato qualche limone sulla testa, perché mi mettevo davanti a lui a fargli le beffe.
Ci sono anche quelle che mia madre chiama “le donnacce”, che non sono brutte per niente, anzi. Qualcuna a volte mi grida “Uè, guagliò, vien’accà”, così mi sembra che dica. Ce ne sono alcune che sembra che abbiano la mia età ma hanno un’aria triste.
Con gli ultimi due centesimi mi compero un pezzo di focaccia e alla fontanella di Campetto bevo un po’ di acqua fresca.
Passo da quel vicoletto che porta su a San Matteo. A metà, sulla destra, una vetrina espone un cartello “cercasi personale”. Mia madre direbbe che mi ha guidato l’angelo custode. Facendo finta di niente cerco di capirci qualcosa. L’insegna del negozio recita “copisteria”. Boh, chissà cosa faranno. Dietro la vetrina c’è una tenda logora, che una volta era verdina ma adesso è grigia. Non è stata mai spolverata, immagino. La tenda però finisce prima della finestra, e c’è una fessura da cui riesco a vedere abbastanza bene l’interno. Ci sono due piccoli tavolini di legno, con una cassettiera a fianco, e su di essi c'è una macchina da scrivere. A uno di quei due tavolini sta seduta una vecchia, che scrive impettita a una velocità incredibile, scrive con tutte le dita. Ha i capelli grigi raccolti dietro in una treccia annodata su sé stessa. Anche lei è grigia come la tenda ma immagino che si spolveri. Penso a mio padre e decido di entrare. Tanto non mi costa niente.
“Buongiorno, avrei bisogno di lavorare. Posso sapere qualcosa di più?” Ho cercato di usare il tono più educato possibile, anche se mi presento con un'aria piuttosto da strada. “Quanti anni hai?” mi risponde la befana senza alzare gli occhi dal foglio. “Sedici”. “E perché non sei a scuola, a quest’ora del mattino?” “Perché mi hanno buttato fuori per sempre”. Devo avere fatto un certo colpo, perché si è fermata e mi ha osservato da sopra gli occhialini di acciaio. “Non sono adatto allo studio”, le faccio ancora, “e mio padre mi ha ordinato di cercarmi un lavoro”. Che poi è la verità. “Che scuola facevi?”. “La seconda ragioneria, al Tortelli”. “Hai mai scritto a macchina?” “Certamente, abbiamo in casa una macchina da scrivere, e quando non so cosa fare metto su un foglio e cerco di fare dei disegni….”.
La strega sorride sotto i baffi. Si vede che le sono simpatico: ho sempre fatto un certo effetto sulle donne.
“Quanto vorresti guadagnare?”. “Mah, non so, dieci lire al giorno direi”. Spalanca gli occhi come se avessi detto una bestemmia. “Qui le persone si pagano a pagina scritta. Sessanta battute per riga, e ogni foglio ha trenta righe. Le tue milleottocento battute verranno pagate dieci centesimi, sempre che non vi sia alcun errore. Altrimenti dovrai riscrivere il foglio. Ti può interessare?” Con un calcolo mentale capisco che per fare dieci lire dovrò scrivere cento fogli in una giornata. Ce la posso fare. Guadagnerei duecento lire al mese e dimostrerò a mio padre che non sono né stupido né incapace.
“Sì, mi interessa. Quando comincio?” “Subito” è stata la risposta. “Ti puoi sedere a quel tavolino”. Mi ha messo in mano una pila di fogli da copiare e mi ha indicato il cassetto dove erano i fogli da scrivere, quella velina giallastra che chiamano extra-strong, che mi fa ridere perché sembra un parolaccia.
Incomincio il mio primo lavoro, vorrei fare un brindisi.
“Scusi…”. “Io sono la signorina Matilde, puoi chiamarmi così”. “Scusi, signorina Matilde, avrei bisogno di andare in un posticino”. Con un cenno mi indica una porticina sul retro, che dà in un luogo di decenza veramente spaventoso. Cercherò di andarvi il meno possibile.
Torno e mi siedo. Non ci vedo molto bene, il vicolo è strettissimo e poca luce penetra dalla vetrina. “Posso accendere la luce?” “No, si accende dopo le quattro del pomeriggio”. Maledetta megera.
I fogli che devo copiare sono tanti, un pacco che sembra un libro. E sono scritti con una grafia minutissima, quasi illeggibile. Per fortuna a scuola mi chiamano occhio di lince, per la mira che ho per i passerotti sui rami quando gli tiro con la fionda. Sempre al primo colpo. Ma qui è diverso, ho un po’ di difficoltà.
Inserisco il foglio nella macchina. Che bella che è! Ha quel nastro colorato rossoblu, che sono i colori del mio Genoa, fra l’altro, e un sacco di tasti che non hanno il simbolo della lettera. Chissà a che cosa serviranno. Io a casa più che il tasto delle maiuscole non ho mai premuto. Ho come l’idea di essermi infilato in un ginepraio.
Cerco di scrivere la prima riga. Mi sento osservato. Me la ricordo ancora: “L’interesse per le varie forme di patologia della tiroide data almeno dai tempi di Plinio il Vecchio, lui stesso affetto da gozzo….”. Porca miseria, ho scritto “tioride”. Strappo il foglio e lo appallottolo, buttandolo nel cestino. Rimetto un altro foglio nel rullo e ricomincio. Adesso ho scritto plinio il vecchio. Vorrei piangere. Il fatto è che non capisco un parola di quello che scrivo. La signorina Matilde sicuramente starà ridendo alle mie spalle, e non lo sopporto.
Ho buttato decine di fogli, l’errore arrivava quando meno te l’aspettavi. Quando l’errore è arrivato alla ventottesima riga di una pagina veramente sudata ho gettato la spugna. Era passata l’una. La copisteria non fa per me. O forse il lavoro non fa per me.
“Signorina Matilde”, “dimmi”, “non credo di essere capace a fare questo lavoro: è troppo difficile”. “Hai ragione, è molto difficile e bisogna essere precisi e attenti. Oltre a conoscere bene come funziona la macchina da scrivere”.
“Non fa niente, puoi andare”. Mi sono rimesso la giacchetta. Mentre stavo uscendo mi ha chiamato e mi ha detto: “Solo un’ultima cosa. Oggi hai imparato qualcosa?” “Che il lavoro è molto peggio della scuola”, mi è venuto naturale di dirle.
Ha tirato fuori da un borsellino rosso una moneta da dieci centesimi e me l’ha porta. “Tieni, non è stata comunque una giornata persa. E le tue trenta righe le hai in qualche modo scritte”. La strega si è trasformata improvvisamente nella fata turchina. Volevo saltarle al collo: mi sono limitato, signorilmente, a stringerle la mano che mi porgeva. “Grazie, signorina Matilde”.


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