lunedì 5 marzo 2012

Lontano


Sono partita il 20 dicembre. Me la meritavo questa vacanza, ho passato un anno infernale. Per principio non mi tiro indietro di fronte al lavoro ma a questi ritmi non credo di farcela. Settantadue ore filate dentro Sant'Orsola non possono essere chieste a nessun umano, tanto meno a me, laureata fresca dalla scuola medica bolognese.
E’ lungo il viaggio per andare in Brasile, ma ogni ora d’aeroplano che aumenta la distanza fra me e quell’ospedale mi restituisce una serenità che non ricordavo più. E’ stata buona l’idea di partecipare a questo congresso, anche se mi sono sparata l’equivalente di sei mesi di stipendio. Ma voglio credere con tutte le mie forze che siano soldi ben spesi, e che questo viaggio mi porterà solo felicità.
Finalmente arrivo, e il cielo di Recife mi accoglie con una delle sue più luminose giornate, o almeno così mi dice il mio umore. Tutto è più bello e più calmo qui. Mi portano al resort con un taxi scassato, che mi sembra la zucca di Cenerentola.
Ho conosciuto in aereo un collega, anche lui per il mio stesso congresso, un marchigiano, con quella parlata così caratteristica e un po’ ridicola, una specie di orsacchiotto. E’ più vecchio di me ma gli leggo negli occhi il mio stesso desiderio di andare via, e penso che condivida con me anche quella vecchia canzone, “...e tu che intanto sogni ancora, sogni sempre, sogni di fuggire via...”
La sera mangiamo insieme e ridiamo parecchio, raccontandoci la vita nei nostri ospedali.
L’indomani mattina ci rivediamo al congresso, e mostriamo entrambi “sincero” interesse per l'argomento della prima sessione, un'insopportabile lectio magistralis del cattedratico di turno, ma solo fino alle otto e mezzo: l'aria che comincia a scaldarsi ci è complice e sgattaioliamo dall’aula magna. Subito lì fuori, ma sarà un caso?, troviamo barconi a motore con tenda, gestiti da sornioni locali che bene hanno imparato l’andazzo dei congressi. Ne noleggiamo uno in fretta e furia, e partiamo per un giro in barca, che ci porterà ancora più lontano.
Andando in barca succedono strane cose alle persone. Il silenzio è rotto solo dal motore, che dopo poco diventa un piacevole ronzio, come le fusa di una gatta che ha deciso di sostare un poco fra le tue gambe. Dopo quattro parole, senza rendertene conto, non hai più tanta voglia di parlare, ti senti proiettato verso uno spazio e un tempo ignoti, stai bene e non hai bisogno di niente, anche l’aria calda che ti sfiora la faccia ti avvolge.
Il barcaiolo ci porta, come promesso, a un’isoletta non menzionata dalle carte geografiche, che tutti i locali però conoscono.
La spiaggia e la temperatura ci invogliano e ci tuffiamo in queste acque di Oceano Atlantico. Sono torbide perchè dense di vita. Sto con la testa sotto l’acqua e tutto quello che ho lasciato, sia pur per dieci giorni, si fa sempre più sfuocato.
C'è anche, dietro la spiaggetta, sotto le palme, un ristorantino, un piccolo barbecue in fondo e due tavoli soltanto: uno è preparato con cura, con una tovaglia a fiori sgargianti che mi ricorda quanto siano allegri i brasiliani. Ma aspetta qualcuno.
Mangiamo il pesce appena pescato, appoggiato sulle braci senza bisogno di essere pulito, insieme alle cipolle e ai finocchi.
Dopo mezz’ora di vero relax, passato a raccontarsi vicendevolmente io i sogni e lui le delusioni, arriva l’ospite per il quale la tavola era stata preparata.
Abbiamo mangiato insieme a Caetano, un cantante brasiliano piuttosto conosciuto, anche lui in fuga, anche se non dalle stesse cose da cui fuggivamo noi, e non per giorni ma solo per qualche ora. Ha cantato, per sé e per noi, fino all’imbrunire, accompagnandosi con una vecchia chitarra.
A bassa voce, in quel portoghese che non ha bisogno di essere capito per toccare il cuore.



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